C’è sempre quel tratto leggermente allungato e spigoloso che guarda apertamente a Wolfgang Reitherman e alla Disney degli anni Sessanta, nell’impostazione grafica, nei character design e nei colori dell’animazione tradizionale del francese Sylvain Chomet. Volti e corpi in carboncino, immersi nei dettagli e nel fotorealismo al contempo assoluto e fiabesco dei fondali, che nel loro materializzarsi sullo schermo sembrano ripresentarsi direttamente dalla memoria, dai sogni, da un immaginario in qualche modo già condiviso e proprio per questo così “vero” e accogliente. Uno stile con cui, a ventidue anni dagli omaggi a Joséphine Baker e Fred Astaire che lambivano la pantomima di Appuntamento a Belleville e soprattutto quindici esatti dopo il magnifico omaggio a Jacques Tati con L’illusionista, il regista (anche live-action, di Attila Marcel) e animatore transalpino torna ancora una volta a guardare dalle parti della storia del cinema adattando le pagine autobiografiche dell’autore scrittore, drammaturgo, produttore Marcel Pagnol, rivoluzionario pioniere del cinema della parola che, al momento del passaggio dal muto al sonoro, contribuì forse più di chiunque altro alla rivoluzione linguistica del mezzo dall’arte del mimo alla centralità nuovamente teatrale dei dialoghi. Come se, dopo aver realizzato un film (per la maggior parte in sostanza) muto e uno intermedio (semi)sonoro su uno dei più grandi artisti del mimo, Chomet avesse voluto ora chiudere il cerchio affrontando vita e opere di chi, proveniente dal retro dei palcoscenici vaudeville, non si sarebbe mai interessato alla settima arte se non ci si fosse potuto approcciare affidando la narrazione non più all’esacerbarsi dell’espressività, ma a un più verosimile e stratificabile botta e risposta fra i protagonisti. Premesse per le quali Marcel et Monsieur Pagnol, in internazionale semplicemente A magnificent life, non poteva che arrivare fra le Séances spéciales del 78esimo Festival di Cannes come uno dei titoli più attesi dell’intera edizione della kermesse, ed è proprio a causa di queste altissime aspettative che, tanto vale dirlo subito, pur di fronte a un film indubbiamente “bello”, interessante quanto divertente, e qua e là non certo privo di pennellate di poesia e di passione cinefila, forse sarebbe stato lecito aspettarsi ancora qualche cosa in più proprio dalla parola a cui vuole rendere omaggio.
“Colpa”, se così si può dire, e in questo senso è impietoso vederlo il giorno dopo lo strepitoso ragionare sui testi godardiani del Nouvelle Vague di Richard Linklater, di uno script che tenta sì una (a dirla tutta nemmeno particolarmente originale) stratificazione narrativa nel sostanziale flusso di coscienza ellittico con cui nel 1957 Mercel Pagnol, su commissione di Hélène Lazareff direttrice di Elle, inizia a ripensare alla sua vita e a tornare a rivere i propri ricordi fra salti temporali e veri e propri angeli custodi (la madre, se stesso da bambino prima che la passione per la boxe gli storcesse il naso, e forse in futuro gli amici perduti lungo la strada) che vegliano su di lui e quando necessario lo consigliano, ma in definitiva un po’ troppo classico, frettoloso e schematico, per non dire proprio inaspettatamente piatto, nell’attenersi senza particolari guizzi alle forme più peculiari del biopic, affrontando uno per uno e un po’ come se fossero spunte su una lista gli aspetti del personaggio-Pagnol fra i suoi traumi emotivi personali (la morte in giovane età della madre, la fine sempre simile e sempre burrascosa di quasi tutte le sue relazioni, e soprattutto la tragica perdita dell’amata figlia) e l’emergere del suo talento (gli spettacoli di varietà a teatro e poi la scoperta oltremanica di quel cinema sonoro da prendere e portare anche in Francia), fra la sua idea rigorosamente dialettica e al tempo ultrainnovativa della narrazione cinematografica e gli amici di sempre (Raimu, Fernandel, ma non solo) con cui ha condiviso la propria avventura, fino al suo contributo personale e apertamente politico all’identità (e all’accento nella parlata) della sua Marsiglia e in generale della Provenza e della Francia del Sud al tempo guardata da Parigi un po’ come una colonia esotica e lontana, e all’intrecciarsi della sua vicenda con la Storia al momento di quel film letteralmente bruciato a metà lavorazione pur di non rendersi in alcun modo complice degli invasori nazifascisti e delle loro bombe lanciate sul Paese. È da qui, e non certo dalle sue magnifiche immagini che nasce la parziale delusione nei confronti di Marcel et Monsieur Pagnol. Un film che sarebbe troppo severo definire non riuscito, ma anche un film atteso per tre lustri e che, visti i precedenti di Chomet, si pensava sarebbe potuto essere ancora più ispirato, ancora più stratificato, ancora più intelligente, ancora più bruciante. Nettamente più teorico.
Poi, certo, ci sono i dettagli feticistici sempre sublimi dei proiettori e delle moviole che girano. Ci sono i momenti in cui nelle sale di proiezione dei giornalieri l’animazione tradizionale di chi guarda si mescola con il rotoscopio che ricalca in tutt’altro stile le immagini originali dei vari Topaze e La Femme du boulanger. Ci sono le grafiche parigine degli anni Venti che al momento del viaggio del protagonista verso la capitale si sostituiscono per un momento al character design principale. Ci sono i gesti apparentemente casuali che risvegliano altre memorie, e ci sono le visite evanescenti di un’ingenuità fanciullesca con ancora tutta la vita davanti e di un amore materno che mai negli anni si è esaurito ma per tutta la vita continuerà a materializzarsi nel momento del bisogno. Ci sono gli smarrimenti e la povertà di chi è appena arrivato in una Parigi città-mondo, e c’è il profondissimo orgoglio di chi in prima persona con la sua arte lotta per riabilitare una città, lotta contro il cinema di regime di Hitler che voleva vampirizzare il suo talento, e infine lotta contro il sostanziale neocolonialismo di Hollywood che voleva fare la stessa cosa con tutto il cinema francese dopo la guerra. Fino all’onore massimo di essere ammesso all’Académie Français, fino alla consapevolezza che la vita va vissuta anche nei suoi interstizi più crudi e oscuri, e poi fino al footage del funerale di Marcel Pagnol che si dipinge all’improvviso sullo schermo televisivo di fronte alle lacrime della cameriera. Così come, soprattutto, c’è la cura assoluta per l’aspetto visivo, per la fluidità dell’animazione, per le emozioni che si dipingono reali sui volti disegnati. Elementi di un talento che, anche in un film con aspetti deludenti, non ha mai smesso e mai smetterà di essere evidente, strabordante, dolcemente innamorato delle sue immagini e della possibilità di renderle narrazione. È quindi paradossale trovarsi in qualche modo a metà strada, nel limbo, da una parte intrattenuti e anzi nonostante tutto emozionati dalla visione, e dall’altro inaspettatamente scontenti e un po’ amareggiati nell’inevitabile atto di pensare a quello che il film sarebbe potuto essere se realmente avesse mantenuto tutte le sue promesse. Un film, come si diceva in apertura, indubbiamente “bello”, ma al quale manca quell’aura, quella forza, quella stratificazione narrativa, espressiva e concettuale in più che Sylvain Chomet aveva per ora sempre saputo trovare. E questo, purtroppo, è un limite che non ci si può esimere dal rimarcare.
Marco Romagna