Forse non è un caso che il nome del piccolo protagonista, Arco Dorell, abbia una assonanza così evidente con Antoine Doinel. Come se l’illustratore e regista classe ’87 francese Ugo Bienvenu, giunto con Arco al suo esordio al lungometraggio d’animazione dopo oltre quindici anni di gavetta fra corti, video musicali e pubblicità, volesse in qualche modo sin da subito dichiarare una sorta di identificazione personale con il proprio personaggio principale, che magari non vuole essere proprio una sovrapposizione quasi totale come quella di Truffaut con il suo alter-ego cinematografico per quattro volte interpretato da Jean-Pierre Léaud, ma che tenta con la medesima sincerità di traslare sulle tavole e sullo schermo l’intimità delle proprie emozioni, dei propri dubbi, dei propri smarrimenti, e forse soprattutto del proprio amore familiare. In una storia d’avventura e di scoperta fatta di paradossi temporali, di rapporti umani e di robotica, ma anche di memoria passata presente e futura, di ὕϐρις, di disegni, di ologrammi, di un’amicizia preadolescenziale che forse è qualcos’altro ma ancora non gli si sa dare un nome, e poi dell’amore purissimo di una madre, di un padre, di un figlio e di una sorella (e magari anche di un androide), e non certo in ultimo di un manifesto spirito ambientalista che non può che emergere nella progressiva distruzione del mondo perpetrata dall’uomo. Un film, co-prodotto fra gli altri da Natalie Portman, con cui guardare da altezza bambino e adolescente alla fantascienza e alle sue domande esistenziali, immaginando il viaggio nel tempo come un volo non necessariamente controllato verso la fine dell’arcobaleno, (letterale) parabola verso l’ignoto di un potere che non si è ancora pronti a usare attraverso il quale ritrovarsi, un po’ come un moderno Icaro, a cadere dagli anni Tremila di una Terra ormai quasi del tutto inondata, tanto avanzata nei suoi letti magnetici in cui dormire sospesi in un fascio di luce e nella capacità di attraversare il tempo quanto nuovamente vivibile, umana e analogica nella sua unione familiare, nelle sue faccende di casa (ri)sbrigate personalmente senza bisogno di automazioni e soprattutto nella cura agricola e botanica delle sue rigogliose terrazze-giardino che svettano altissime fra le nubi, al futuro prossimo e paradossalmente ben più ipertecnologicizzato del 2075 in cui le auto effettivamente voleranno ma le case avranno bisogno di una cupola per essere protette dai temporali e dai continui incendi di un pianeta ormai irrimediabilmente devastato nel suo ecosistema, mentre i genitori lontani potranno scegliere di affidare i figli alla cura degli androidi (e quando necessario al loro fedelissimo sacrificio, in un discorso che non può che ricordare quello impostato da Jérémie Périn nel suo recente e magnifico Mars Express) ripresentandosi in casa solo come proiezioni tridimensionali. Una piccola distopia sognante con cui, fra i tentativi frustrati di ritornare a casa del decenne Arco e la dolcezza con cui la sua coetanea Iris lo accoglie e lo aiuta fino all’esplicita richiesta impossibile di violare ogni regola e di portarla nel futuro con lui, Bienvenu conferma ancora una volta la vivacità e lo straordinario stato qualitativo dell’industria animata francese, che anche in un’opera prima magari imperfetta per qualche passaggio di sceneggiatura, per la fluidità di qualche movimento e per qualche semplificazione grafica forse eccessiva nei character/mecha design di uomini e robot, esplode di perizia tecnica e senso di meraviglia nella cura invece maniacale e quasi miyazakiana per i dettagli dei fondali, nella scelta dei colori, nella capacità di farsi luce e sogno.
Un film, Arco, che punta a un target un pelo più infantile – ma non necessariamente – rispetto ai più “adulti” Marcel et monsieur Pagnol di Sylvain Chomet e allo straordinario, sublime, folgorante Amélie et la métaphysique des tubes di Maïlys Vallade e Liane-Cho Han con cui condivide il prestigioso palcoscenico delle Séances Spéciales di Cannes78, e che dopo un brevissimo incipit campagnolo in cui forse guarda un po’ troppo allo stile grafico e ai colori più tipici dello Studio Ghibli cerca e trova sin da subito una propria e personalissima strada visiva ed espressiva, un proprio personalissimo sguardo, una propria e personalissima fantasia. Un proprio personalissimo (doppio) mondo fatto di linee morbide, di occhi grandi ed espressivi, di labbra carnose e di fondali ricchissimi di fotorealismo, passando per la straordinaria illusione/intuizione delle aule scolastiche in 4D nelle quali poter vedere e vivere dall’interno l’astronomia, le profondità marine, la Storia e quei dinosauri che tanto affascinavano Arco nel suo salto letteralmente nel vuoto dalla terrazza e dalla sua epoca, e per quei graffiti – magari robotici – sui muri delle caverne in cui innestare il senso stesso dell’arte, della rappresentazione, di una memoria che diventa collettiva attraverso il suo passaggio all’immagine, e che magari consentirà ai genitori del 3000, ormai anziani nella loro inesausta ricerca del figlio in giro per tutte le epoche (passate, perché precauzionalmente «nessuno può vedere il futuro», nemmeno quando indossa il mantello arcobaleno con cui volare libero per la Storia) di capire fino a dove far convergere le loro parabole magiche di luce e colore per potersi finalmente ritrovare e sciogliere nel più commovente e riconciliatorio degli abbracci. Una rilettura, da qualche parte fra la fantascienza, il fantastico, l’avventura e il (proto)romanticismo dei bambini, del τόπος del ragazzo che veniva dal futuro spartita fra lo sguardo dell’infanzia e quel dolce androide Mikki che ormai dal 2018 accompagna il percorso di Bienvenu, che come anticipato non sarà scevra di qualche passaggio narrativo a vuoto intessuto intorno ai siparietti comici dei decisamente meno convincenti (e sostanzialmente inutili) tre gemelli (non realmente) cattivi che inseguono i piccoli protagonisti e che nel giro di una rivelazione improvvisa (e in realtà banalotta nella sua assenza di stratificazioni) cambieranno radicalmente la propria funzione all’interno del film, ma che nei suoi paradossi temporali, nei suoi messaggi ambientalisti e nelle sue letture esistenziali forse necessariamente un po’ didascaliche ma mai e poi mai con un briciolo di retorica ragiona sul tempo, sui sentimenti, sugli affetti, sul lutto, sulla separazione – dalla famiglia, da quel ragazzino arrivato dal cielo, da quella bambina da lasciare sola con il fratellino nel marsupio in un “vecchio” mondo che sta finendo, e pure dal robot-bambinaio-factotum con cui si sta crescendo. Sulla necessità di imparare a prendersi le proprie responsabilità e di accettarne le conseguenze anche più estreme, e di vivere così la propria vita per arrivare al proprio futuro conquistandoselo giorno dopo giorno, illustrazione dopo illustrazione, foto dopo foto, fino a farlo diventare memoria. Come quel disegno con cui dare una forma a un racconto, e come i ricordi in istantanea da ieri e da domani dei compleanni, degli amici e della laurea che lo circond(er)a(n)no sulle pareti della cameretta. Magari, da grande, sarà proprio Iris l’architetto che realizzerà quelle terrazze nel cielo con cui ridare la speranza e un possibile avvenire alla vita sulla terra. Sempre con il naso all’insù, a scrutare il cielo in attesa del prossimo arcobaleno.
Marco Romagna