«Il miglior modo per criticare un film è farne uno», dice sin da subito il giovane Jean-Luc Godard re-immaginato nel momento dell’esordio da Richard Linklater nel suo nuovo Nouvelle Vague. Un film con cui il regista texano, quasi lo considerasse la seconda parte di un (per ora) dittico in attesa di realizzare almeno altri due (non) biopic già annunciati come progetti futuri, a soli pochi mesi di distanza dagli anni Cinquanta e dalla Broadway tutto in una notte del Lorenz Hart amato e repellente di Blue Moon torna nuovamente a personaggi e fatti reali per ricostruire un ben preciso momento storico ben più che una mera parte di biografia, e da lì ragionare sul tempo da sempre fondamentale filo conduttore della sua carriera (gli anni rampanti di una rivoluzione cinematografica e la quotidianità in cui sarebbe il caso di farla rivivere, i giorni risicati o magari volutamente sprecati di un piano di produzione, i minuti e i secondi di ogni singola ripresa, di ogni raccordo e di ogni jump-cut con cui poi ancora ri-manipolare il tempo e creare un nuovo ritmo sul tavolo di montaggio) ma anche sul ruolo dell’artista e sul senso stesso di fare arte, sulla lotta alla stanchezza del cinema di papà attraverso la più pervicace rottura degli schemi formali e sulla riformulazione di regole essenziali completamente nuove ed opposte, e poi ancora sulla fiducia e sullo scetticismo, sulla verità e sulla finzione, sull’avanguardia e sulla nostalgia. Sull’importanza ineludibile di un film con cui nel 1960 il cinema moderno ha costruito il proprio manifesto, momento-chiave e assoluto punto di non ritorno non solo nella storia ma nel senso stesso della settima arte. Un accorato omaggio, a partire dalla scelta di girare in francese, in 1,37:1, in bianco e nero, rigorosamente a mano e su emulsione (con tanto di richiesta esplicita al digitalizzatissimo 78esimo Festival di Cannes dove il film trova la sua prima mondiale in concorso di proiettarlo rigorosamente in pellicola), non solo alla figura di Godard e al suo À bout de souffle ma in generale alla Nouvelle Vague ritratta nei suoi personaggi fondamentali presentati uno per uno da cartelli e immancabili sguardi direttamente in macchina, con cui Linklater grida in ogni minimo dettaglio il suo strabordante amore cinefilo ma soprattutto ragiona con corroborante compiutezza sulla lezione inestimabile che il primo capolavoro godardiano ha impartito al cinema e in generale al pensiero del Novecento. Con la sua fiducia piena e totale nelle immagini, con il suo rifiuto delle regole classiche come vera e propria forza rivoluzionaria e prettamente politica, con un’urgenza espressiva umanista che non può permettersi di essere ingabbiata nella freddezza matematica del rigore formale o in uno script o in un mezzo tecnico, ma che al contrario solo nella sovversione dell’avanguardia, solo nella verità, può trovare la propria personale, inedita potenza.
Una cura filologica, e un vero e proprio capire e interiorizzare per poi rilanciare le speculazioni teoriche del genio franco-svizzero, con cui il divertentissimo Nouvelle Vague, dal primo cartello che ne fissa il copyright al 1959 al “Fin” che lo chiude sul medesimo schermo nero e con lo stesso font del lungometraggio d’esordio godardiano, meta-(ri)mette minuziosamente in scena la messa in scena di À bout de souffle dalle rivendicazioni di Godard per avere la propria possibilità al tempo degli esordi dei compagni di redazione Chabrol e Rohmer, ma soprattutto dello strepitoso successo di François Truffaut a Cannes con I 400 colpi, fino al casting di Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo, alla scelta dei collaboratori, alla fase innovativa e spesso – per lo meno per gli altri – destabilizzante delle riprese, all’ennesima negazione di ogni prassi anche nel montaggio e infine a quella prima proiezione dopo la quale il cinema non sarebbe mai più stato lo stesso. Passando inevitabilmente per l’incontro con “il padre” Roberto Rossellini che, ospite della redazione dei Cahiers, ricorderà come nel cinema conti molto più il rigore morale che la tecnica, e come girare velocemente tenendosi lontani dalla forma classica, senza artifici né luci né trucco né presa diretta per il suono suono né colore, sia probabilmente l’unico modo per non dare il tempo di raffreddarsi all’ispirazione e alla verità emotiva degli esseri umani e dei singoli istanti. Dettami da cui Jean-Luc Godard, magistralmente incarnato (e non semplicemente interpretato) da uno straordinariamente somigliante Guillaume Marbeck (come del resto è straordinariamente somigliante agli originali tutto il cast, dal Belmondo di Aubry Dullin alla Seberg di Zoey Deutch, passando per il Truffaut di Adrien Rouyard e per il Georges de Beauregard di Bruno Dreyfürst) non potrà prescindere nel forgiare il proprio personalissimo (primo) decalogo per un cinema come forma di guerriglia, fatto di budget risicati, di pochi giorni di riprese e di pochi attori a cui chiedere contraddittoriamente di non recitare ma di essere veri anche nel rifare l’Humphrey Bogart dei noir americani. Un cinema fatto di gesti improvvisati oppure richiesti sul momento e di battute date direttamente durante i ciak, fatto di una storia «presa ben più dai giornali che dal soggetto di Truffaut» di cui scrivere quotidianamente una nuova parte da far scoprire a protagonisti e (non) comparse (ma reali persone che passavano di lì per caso) solo mentre si sta girando, fatto di camera car girati dal sedile posteriore in mezzo al traffico anziché proiettati su un trasparente in studio e di un citazionismo cinefilissimo con cui riscrivere ciò che è stato, e in generale fatto di riprese il più possibile “leggere” a mano e in passo ridotto (magari letteralmente nascoste da un carretto postale perché i passanti non perdessero la propria naturalezza accorgendosi della macchina da presa) utilizzando solo la luce naturale anche in condizioni di scarsa illuminazione, senza alcuna paura quando lo è di dare buona la prima perché una seconda sarebbe stata giocoforza meno vera.
È quasi impossibile, durante la visione del bellissimo Nouvelle Vague, non pensare per contrasto al pessimo Le Redoutable. Dove nel 2017 Michel Hazanavicius si era approcciato alla figura di Jean-Luc Godard per irriderlo in una sostanziale rivincita della borghesia nei suoi confronti, Richard Linklater evita accuratamente di farne un santino giocando apertamente e con irresistibile ironia con le sue contraddizioni (le giornate di riprese concentrate in pochi minuti o addirittura annullate all’ultimo fra le ire del produttore e amico Beauregard, l’ostentata insolenza contrapposta alle indecisioni da cui improvvisare sul set, il suo volontario e consapevole frustrare chiunque voglia capire cosa gli frulla per la testa, la sfiducia di Jean Seberg che avrebbe voluto mollare il film per cui più di tutti sarà ricordata e il narcisismo godardiano nel far porre al suo personaggio le proprie domande con cui intervistare Jean-Pierre Melville, e poi ancora i balli di una troupe già in odor di Bande à part mentre attendono al solito caffè che Godard finisca di scrivere cosa girare in quella giornata, i crescenti dubbi sull’effettiva montabilità di À bout de souffle perfino da parte di edizione e direttore della fotografia che ne consideravano le immagini bruttissime e amatoriali, fino all’inchino soddisfatto alla battuta di Truffaut che applaudirà «il peggior film dell’anno»…), eppure al contempo dimostra non solo un amore viscerale e un rispetto assoluto nei confronti di uno dei più importanti intellettuali del secolo scorso, ma anche la ben chiara volontà di portarne avanti i dettami nella ricerca di un cinema netto e senza fronzoli (a parte un paio di riflessi sugli occhiali) che sappia ancora bruciare di idee e di militanza, che sappia ancora cercare «l’istantaneo e l’inaspettato», che sia sempre la «verità ventiquattro volte al secondo» di un sostanziale «documentario sugli attori che fanno un film». Che sappia cercare attraverso la ribellione a ogni prassi e nell’impellenza improcrastinabile delle immagini una propria personalissima forza rivoluzionaria, in cui il racconto può tranquillamente lasciare ai limiti del campo o liquidare in una sola rapida inquadratura gli avvenimenti più salienti per poi concentrarsi interi minuti sul superfluo, e in cui le ripetute rotture (magari in girotondo) della quarta parete e della linea temporale si pongono come pura dialettica con uno spettatore al quale viene esplicitamente ricordato di essere di fronte a un film per chiedergli di guardare oltre il mero scorrere della trama, per spingerlo a concentrarsi non tanto sul cosa quanto sul come e sul perché. Come a dire, espressamente ma ancor di più fra le righe, che «la realtà non è in continuità», ma è un qualcosa di più stratificato del quale il cinema si fa portatore, paradigma e metafora attraverso il suo sguardo e le sue scelte magari apparentemente sconnesse e invece puro linguaggio, attraverso le sue posizioni, attraverso la sua capacità di vivere fino in fondo su uno schermo. Attraverso la sua necessità di rinnovarsi costantemente per «smetterla di fare cinema politico e (ri)cominciare a fare film in maniera politica». Ieri, come oggi, e si spera sempre come domani.
Marco Romagna
