22 Ottobre 2025 -

ROMERÍA (2025)
di Carla Simón

C’è un momento ben preciso in cui Romería, opera terza con cui la classe ’86 catalana Carla Simón chiude la sua trilogia semi-autobiografica sulla famiglia dopo l’elaborazione del lutto (per la morte di AIDS di entrambi i suoi genitori quando aveva solo sei anni) messa in scena in Estate 1993 e la vita rurale in via d’estinzione (degli zii che l’hanno in seguito adottata) al centro di quell’Alcarràs che nel 2022 le era valso l’Orso d’Oro a Berlino, porta a definitiva compiutezza il suo discorso intrinseco ma non troppo su quello che è forse il senso più intimo e terapeutico del cinema, la sua catartica capacità di ricostruire le immagini mancanti, di ridare una forma definita e in qualche modo una vita ai fantasmi della memoria e forse, così, di riuscire finalmente a superare ciò che sembrava inaffrontabile. Sta tutto in una lunga e magnifica sequenza, da una fuga a remi a un sogno in Technicolor in cui salire una scala (e quindi godardianamente – si pensi a Le mépris, citato apertamente anche nella prospiciente terrazza solarium che non è un caso ricordi quella di Casa Malaparte a Capri – entrare nel cinema) per vedersi (letteralmente) nei panni di quella madre che tutti (o quasi) dicono fosse estremamente somigliante alla protagonista, e finalmente riuscire a vivere in lei e con lei quella metà degli anni Ottanta in Galizia prima di tornare incinta a Barcellona fra la gioia di un amore assoluto e l’eroina troppo bella e totalizzante per non distruggerlo. Un momento in cui finalmente poter conoscere il padre biologico, non più vago cumulo di mezze verità e di menzogne con cui tentare di indorare la pillola a una bambina, ma un vero corpo e un vero volto da mutuarsi da quelli di un cugino, e soprattutto una personalità, un carattere, una silenziosa sofferenza dell’anima deflagrata in una tossicodipendenza e in una malattia per le quali magari avrebbe anche voluto ma semplicemente non poteva in alcun modo essere genitore, tenuto nascosto e quasi prigioniero anche dalla famiglia per proteggersi dallo stigma sociale del tempo, vittima del suo stesso mostro. Non è un caso che l’orfana Marina, immaginata (e straordinariamente incarnata dalla giovanissima e raggiante esordiente Llúcia Garcia: se ne sentirà parlare) per ripercorrere il viaggio a Vigo affrontato nel 2004 dalla stessa Carla Simón appena compiuti i diciott’anni per conoscere i parenti paterni e ottenere da loro un riconoscimento ufficiale con cui poter chiedere la borsa di studio – chiaramente in cinema –, cerchi sin da subito di trasformare in immagini tangibili quelle parole lette chissà quante volte sul vecchio diario della madre, cercando con l’occhio della sua miniDV gli stessi luoghi e gli stessi volti di quelle pagine, gli stessi paesaggi e le stesse forme, le stesse barche e le stesse brevi rotte lungo la costa dell’Oceano Atlantico. Guidata dai racconti in prima persona su un diario e dai ricordi a volte confusi di quegli zii consapevoli di essere rimasti «l’unico ancora vivo» delle rispettive foto di gruppo, mentre lentamente emergono le contraddizioni e le verità per lungo tempo ricacciate sotto la cortina del dolore, e ognuno dei membri della famiglia – compresi gli insensibili nonni, che pensano di poter comprare figli e nipoti con una pioggia di banconote mentre in sostanza nemmeno li guardano, e senza nemmeno porsi il problema della loro ricerca di identità come suprema acquisizione di dignità – concorre a un mosaico di ricordi, di frasi e di sentimenti attraverso cui ritrovare (e ricomporre su uno schermo) l’invisibile di un sentimento estirpato.

È in questo senso che come si diceva Romería, lo scorso maggio “grande salto” di Carla Simón dalla Berlinale dei primi due lavori al concorso principale di Cannes – tanto più in un’annata straordinaria come questo 2025, dichiaratamente votata alla ricerca e già sostanziale atlante di quello che verosimilmente sarà il cinema dei prossimi vent’anni – e ora presentato a Roma fra i principali titoli in anteprima italiana in Alice nella Città, nel suo personalissimo mettere in scena un’elaborazione del lutto che passa attraverso vecchie pagine scritte, instabili frammenti annebbiati di ricordi altrui e possibili forme di (auto-etero)narrazione da cristallizzare in un’immagine sopra e sotto il pelo dell’acqua, non può che necessariamente affiancare al proprio percorso emotivo e familiare la teoria cinematografica. Come se, più ancora che il documento notarile firmato dai nonni, quello che più interessa trovare alla protagonista – e quindi alla regista che in lei proietta se stessa e la sua storia personale – fosse la storia dei genitori, attraverso la quale costruirsi una memoria emotiva personale apparentemente impossibile e invece grazie al (fare) cinema proprio lì, solo da afferrare e da rendere definitivamente immagine su uno schermo. Una storia in cui cinque giorni di riscoperta nel luglio del 2004, ogni volta introdotti da data e capitolo, si intrecciano con tre anni di diario materno (esclusivamente scritto, e quindi giocoforza da immaginare) proprio come le parole del passato e del presente si intrecciano con le immagini cinematografiche che le rappresentano, mentre le immagini a loro volta intrecciano l’alta definizione in 4K della fotografia principale con il low-fi della telecamerina soggettiva che per Marina è in sostanza l’unico possibile strumento, da brandire quasi come un’arma, contro l’oblio. In una continua stratificazione che ricostruisce due livelli di passato (il 1983-86 dei genitori, il 2004 della figlia) e almeno quattro di puro racconto (il diario della madre, le testimonianze familiari, la documentazione “in diretta” con quella meta-videocamera di Marina e oggi, inevitabilmente, la sintesi del tutto da parte di Carla Simón nel suo raffinato lungometraggio di finzione) come se fossero parti inscindibili di un’unica presa di coscienza e di una ritrovata serenità personale. Un percorso – di indagine, di dialettica, di ricordi, di immagini mancanti in cui identificarsi – inevitabilmente complesso nelle sue contraddittorie ramificazioni eppure in definitiva diretto, senza (più) necessità di alcun filtro o di alcun segreto di famiglia. Liberi di prendere di petto il dilagare dell’eroina e del virus che fra gli anni Ottanta e Novanta hanno spazzato via un’intera generazione, guardandoli nel loro radicarsi in una Spagna ancora in transizione dall’autarchia franchista verso la democrazia a pochi anni dalla morte del dittatore (1975) e ancor meno dalla promulgazione (1978) della nuova Costituzione che avrebbe garantito il potere al popolo; una Spagna ancora profondamente conservatrice nel nascondere agli altri “la vergogna” familiare di un figlio/fratello tossico e poi malato, della quale vent’anni dopo scoprire le cicatrici nascoste, i traumi mai definitivamente superati, la serenità solo apparente di un’intera famiglia che aveva preferito lasciare per troppo tempo da parte i non detti e i sensi di colpa continuando a fare finta di nulla, salvo poi essere in qualche modo costretti a riscoprirli quasi all’improvviso in tutta la loro bruciante emotività. «Questo non è il Mediterraneo», dicono i cuginetti a Marina lanciandosi dalla barca nell’Oceano, probabilmente non ancora consapevoli di come il tuffo in quelle acque gelide sarebbe stato in realtà per lei e per l’intera famiglia il simbolo di un tuffo nel sangue (forse contaminato fin dalla nascita o forse no, ma nel dubbio ancora oggi è meglio dire ai bambini di non toccarla senza dare troppe spiegazioni) e nella memoria, nell’eredità biologica ma soprattutto umana, nella verità e quindi nel cinema che la rende immagini e racconto. Dalla scoperta di essere stata la causa della separazione dei genitori a un anno di morte che le era sempre stato detto volutamente anticipato per non farla sentire abbandonata, dal ricordo di una porta chiusa di cui buttare via la chiave a quello dei guanti e della mascherina con cui trattare il sieropositivo come un appestato sforzandosi il più possibile di farlo sentire tale. Fino al ritorno al sole e alle corse iper-sature di due innamorati su una spiaggia che non aspettavano altro che essere reimmaginati e messi in scena, ancora vivi, ancora giovani, ancora bellissimi. Ancora e questa volta per sempre felici, su uno schermo e forse anche un po’ più in là, a fare dolcemente l’amore fra alghe lunghe e scure proprio come strisce di pellicola, e a riemergere ogni volta sorridenti dalle acque.

Marco Romagna

“Romería” (2025)
114 min | Biography, Drama, Romance | Spain / Germany
Regista Carla Simón
Sceneggiatori Carla Simón
Attori principali Tristán Ulloa, Sara Casasnovas, Llúcia Garcia
IMDb Rating 7.0

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