Era attesa al varco Julia Ducournau dopo la Palma d’Oro vinta nel 2021 per la sua opera precedente, Titane, coraggiosa scelta della Giuria ai temi presieduta da Spike Lee e che comprendeva tra i suoi membri proprio Tahar Rahim, tra i protagonisti del nuovo Alpha, ancora una volta in competizione sulla Croisette nel 2025. Chissà se proprio quell’apprezzamento ha portato al contatto tra regista e interprete, entrambi protagonisti assoluti del cinema transalpino contemporaneo (l’attore franco-algerino venne definitivamente lanciato nel 2009 da Il profeta di Jacques Audiard, Gran Premio della Giuria a Cannes nello stesso anno). Per i motivi appena elencati era abbastanza scontata la presenza in Concorso: dopo The Substance di Coralie Fargeat dello scorso anno, arrivato fino alle nomination agli Oscar e al (questo sì, senza dubbio meritatissimo) premio per il miglior trucco e acconciatura, la conferma di una wave, o meglio ancora vague, horror francese femminile e femminista. Qualcosa però è decisamente andato storto, e Alpha, dopo un buon inizio in continuità anche fotografica (lo stesso DOP Ruben Impens) con il precedente, affonda nell’indeterminatezza e nella mancanza di un vero centro narrativo di una sceneggiatura confusa e raffazzonata, che abbandona la protagonista che dona il titolo al film per concentrarsi su un drammetto familiare mai interessante e capace di coinvolgere ad appassionare. Proprio Tahar Rahim, paradossalmente, è uno dei problemi più grandi: in costante overacting, quasi a scimmiottare persino nella conformazione fisica il “caraxiano” Denis Lavant e il nervoso Joker di Joaquin Phoenix, sembra spesso la parodia di se stesso. In un film che ne contiene almeno tre diversi al suo interno, Ducournau compie il peccato mortale di accantonare in un pugno di scene proprio quello più interessante: una devastante malattia contagiosa (metafora dell’Aids, siamo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo scorso) trasforma le persone in pietra, rendendole magnificamente e agghiacciantemente marmoree. Un effetto speciale strepitoso, ancora opera del Martial Vallanchon di Titane, che, forse per problemi di budget, rimane un “a parte” all’interno delle due ore esatte di proiezione. La regista sembra interessata ad altro, al romanzo di formazione dell’adolescente Alpha (Mélissa Boros) e al rapporto con la madre single e dottoressa in un ospedale (Golshifteh Farahani) e con Amin, il di lei fratello eroinomane (Tahar Rahim, appunto). I rapporti di/tra questo composito terzetto fanno dell’improbabilità più assoluta la caratteristica principe, provocando nello spettatore molta più irritazione che effettiva empatia.
L’incipit è folgorante: un buco in una parete rocciosa, la camera che vi s’insinua all’interno e sbuca dall’altra parte, rivelando un buco infetto nel braccio di un tossico. Una bambina prende un pennarello e unisce i buchi sul braccio di quello che si rivelerà essere suo zio, come fossero puntini e trasformando in gioco perverso la tragedia in atto e fortunatamente incomprensibile ai suoi occhi infantili. Una volta cresciuta e alle scuole superiori, la ragazzina è una reietta che perde sangue continuamente (dai tatuaggi improvvisati? È stata contagiata? Non verrà mai chiarito), mentre intorno (ma solo in quel posto o in tutto il mondo? Non verrà mai chiarito) una strana epidemia porta la gente dei quartieri popolari ad assediare l’ospedale dove lavora la madre. La gente si pietrifica pian piano, e il piano sequenza in ospedale che svela i malati è uno dei momenti più riusciti di questo sbilanciato pasticcio. La narrazione è frammentata in un prima e un dopo, e il passato è indicato dai colori fotografici più “caldi” e dal cambio di pettinatura di Farahani, ai confini del ridicolo. I due piani s’intrecceranno in una scena che si vorrebbe madre, ma che a quel punto non fa altro che complicare ulteriormente un intreccio già da decine di minuti sbalestrato e privo di senso. Cosa voleva effettivamente raccontare Ducournau? Il caos generato negli strati sociali popolari dall’epidemia di Aids? Il film diventa troppo intimista e non riesce nell’intento. La difficile adolescenza di una ragazzina, magari mutuata dall’esperienza personale? A un certo punto il focus si sposta completamente su Amin e anche quest’obiettivo non viene centrato. L’unione tra body-horror e cinema dei sentimenti a rappresentare la composizione umana di corpo e anima? Il racconto è troppo sbilanciato e senza un centro per far giungere lo spettatore a questa riflessione. La paura atavica che nasce dal non riuscire a liberarsi dei fantasmi del passato? Non basterebbe in tal caso il finale di sabbia fra le dita in cui letteralmente vederlo sgretolarsi. Probabilmente, invece, è stata la voglia di dire più cose insieme a far deragliare completamente l’opera terza di Ducournau, alla quale consigliamo, nel nostro piccolo, di farsi affiancare da uno sceneggiatore di razza nelle prossime occasioni per uscire dal morbo, quello sì spesso mortale per il cinema, dell’obbligatorietà dello “scritto e diretto”. Una cineasta dal talento visivo così spiccato, che maneggia il corpo umano in maniera apparentemente riduzionista riportandolo alla sua essenza di sangue e nervi, ossa e muscoli, si è forse sentita obbligata ad inserire una terza dimensione che evidentemente non le è (ancora?) propria. Bisogna evitare a tutti i costi il precedente di Ana Lily Amirpour, completamente perduta nei suoi solipsismi fintoautoriali dopo un esordio di grande interesse.
Nel già citato finale, a rianimare tardivamente un cadavere in stato di decomposizione, ecco infatti arrivare un’altra notevole intuizione visiva: un quartiere di caseggiati popolari invaso dalla polvere rossastra, terminale incursione nel fantastico e nell’onirico a rappresentare la strage di reietti senza nome uccisi dal morbo, il marmo ormai ridotto in polvere. Ci ripetiamo ancora, ma tutti i momenti in cui la pietra/corpo prende il sopravvento sono riusciti: in una visita/incubo il corpo di Rahim, pietrificato per metà, viene inciso con uno scalpello dalla sorella/medico per poi polverizzarsi in pochi secondi. L’effetto speciale è bellissimo e rappresenta una grande esibizione “muscolare” per l’effettistica del cinema europeo tutto, ormai al pari con i modelli d’oltreoceano. Ma poi il posizionamento temporale di quel momento non è chiaro e il racconto si sfalda ulteriormente come la schiena del povero Amin. Per chi scrive, Titane era stata una scossa elettrica al sistema dei festival, e la sua incoronazione lo sdoganamento semidefinitivo di un genere per decenni considerato come minoritario e “di serie B” come l’horror (ora solo la commedia ha, purtroppo, ancora questo deficit di rappresentanza all’interno dei grandi concorsi). Per di più, nel dispiegare un concetto di neo-maternità, commistione tra donna e macchina, donava un punto di vista femminile ad un tema che già grandi maestri come Cronenberg e Tsukamoto, per fare solo due nomi, avevano trattato in precedenza. In questa terza prova dietro la macchina da presa le ambizioni della cineasta salgono e scendono al contempo, ed il ripiegamento intimista di un morbo-movie così inizialmente centrato ne è la plastica dimostrazione. Nutriamo ancora speranze nel futuro della talentuosa Ducournau, sperando non si ripieghi su se stessa come altri alfieri maschili dell’elevated horror (Ari Aster, e ancor di più Robert Eggers), e questo semaforo rosso è quindi specchio della delusione rispetto alle alte aspettative. L’approccio entomologico della regista è talmente peculiare che la sua dispersione in altri rivoli rappresenterebbe una mancanza vera e propria per il post-post-postmoderno di cui iniziamo a tratteggiare le caratteristiche e le tematiche, aiutati da selezioni composite come quella di questa interessantissima Cannes 2025.
Donato D’Elia