Con all’attivo soltanto la regia di un rape&revenge-movie di discreta fattura (Revenge, appunto, con la “nostra” Matilda Lutz, da chi scrive incontrato nella sezione Afterhours del Torino Film Festival ai tempi della direzione di Emanuela Martini), Coralie Fargeat passa direttamente alla serie A, alla lingua inglese e al Concorso principale del Festival di Cannes 2024 con l’ambiziosissima opera seconda The Substance. E, in maniera abbastanza sorprendente, non si brucia sull’altare del body-horror con metaforone associato ma realizza un potenziale new cult, dal ritmo travolgente e che lavora per accumulo su una sequela di scene madri sempre più eccessive ed “estreme”. L’autrice francese, anche sceneggiatrice, capisce benissimo il valore assoluto dello specifico cinematografico in tempi di produzioni in serie, specie nel comparto horror, per piattaforma, e orchestra una narrazione che fa praticamente a meno dei dialoghi per larga parte della sua durata, affidandosi alla corporeità delle sue attrici e facendole recitare come fossero in qualcosa a metà strada tra un cartoon di Tex Avery e il lato più demenziale e grottesco del new horror anni Ottanta e primi Novanta, da Society di Yuzna ai primi esperimenti splatter di Peter Jackson. Ma non solo: in maniera tarantiniana, usa la storia del cinema per caricare di significati ulteriori ogni segmento, ed ecco Hitchcock, De Palma, Carpenter e persino Dario Argento uniti in un frullato avant-retro-pop (stessa brillante categorizzazione assegnata dai Cahiers du Cinéma a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, sostituendo solo pop con neorealismo) che arriva persino a imbastire un discorso semantico su effettistica digitale e corrispettivo prostetico. Nella porta spalancata dalla conterranea Julia Ducournau con la Palma d’Oro assegnatale, forse generosamente, nel 2021 per Titane, Coralie Fargeat entra di prepotenza con un film meno originale ma più compiuto, contemporaneo nel suo essere assemblato per gusti e temi in pieno accordo con la generazione TikTok, ma con molto più gusto cinefilo di, per citare solo qualche nome, Emerald Fennell o la Presidente di Giuria a Cannes Greta Gerwig.
Il film, per cominciare a dipanare la matassa di riferimenti e citazioni, è una sorta di “La morte ti fa bella incontra Barbie“, senza ritegno nel mischiare ferocemente i due ingredienti. Un’attrice cinquantenne, Elisabeth Sparkle/Demi Moore, perde il posto in Tv in un programma di fitness perché il capo della rete, un sardonico Dennis Quaid, cerca un nuovo volto più giovane. Dopo aver avuto un incidente stradale che non lascia gravi danni (o forse ne lascia talmente tanti da poter ritenere tutti gli accadimenti successivi come un lungo incubo in stato di coma farmacologico), Elisabeth entra in contatto con una misteriosa associazione che le offre una possibilità terrificante e seducente: iniettarsi la Sostanza che le permetterà di far germinare da se stessa una nuova versione più giovane, che possa condividere con lei equamente il tempo rimasto sulla Terra. Da questo innesco è facile immaginare gli sviluppi e le ricadute, anche per esperienze spettatoriali (Le folli notti del dottor Jerryll, Il professore matto, La cosa, tanto per fare qualche titolo) pregresse, ma la regista riesce, come già detto in precedenza, a creare un cocktail dove ogni ingrediente è giustamente calibrato, a cominciare dalle martellanti musiche del dj e producer britannico Raffertie, aka Benjamin Stefanski. La prigionia del mantenimento di un’eterna, faticosa e in fin dei conti impossibile giovinezza da far durare il più possibile, a cui sacrificare tutto, si sposa con l’ambientazione hollywoodiana, senza mai però incontrare più i meccanismi produttivi del cinema (da Elisabeth frequentato in passato tanto da avere una stella dedicata, e ormai consunta, tra quelle del Sunset Boulevard) ma solo quelli della bassa televisione di consumo, imperniata su meccanismi di potere patriarcale ancora in sella. Un po’ come tutte le “province” del mondo, anche quella della spettacolo sconta l’arretratezza del non essere mai in pieno sotto le luci dei riflettori, e la denuncia di concentrare tutta una serie di rivendicazioni solo sui “piani alti”, della società e delle professioni, acquista in questo modo ancora più forza. È una Hollywood che concede alla Tv i suoi spazi cartellonistici più importanti, vedi quello gigante che occupa gran parte della visuale dalla magnifica vetrata dell’appartamento di Elisabeth, o che semplicemente ha maturato nei decenni nuovi meccanismi d’accesso all’empireo che non comprendono mai, o solo in minima parte, le attrici di mezza età. Che, a loro volta, in un vorticoso gioco proiettivo, non riescono ad accettare ruoli da cinquantenne fino a che è possibile, cercando nel mantenimento estremo della forma fisica un elisir di giovinezza.
Il ruolo è perfettamente tagliato addosso a Demi Moore che, un po’ con la stessa operazione che Darren Aronofsky ha compiuto con Brendan Fraser per The Whale, esagera grottescamente una sua ossessione reale e trova IL ruolo di questa seconda parte di carriera, che potrebbe portarle fortuna e un definitivo rilancio. È Margaret Qualley, invece, a interpretare il suo doppio più giovane, anche lei perfetta nel rappresentare l’idealtipo estetico dei tempi attuali. Il corpo di Demi Moore è progressivamente imbruttito grazie alla gomma e alla prostetica, mentre quello di Margaret Qualley viene rassodato e tonificato con la CGI, esempio di espediente metacinematografico funzionale alla rappresentazione di due mondi vicini e lontani, la nostra mezza età e la nostra giovinezza. L’esatto equilibrio, un po’ come per le regole di Gremlins, sarebbe di vivere una settimana ciascuna, ma presto la giovane, il rimpianto per quello che è stato e non può più essere, comincia a ribellarsi e a pretendere spazi ulteriori, succhiando letteralmente sempre più anima ed energie ad una Moore consegnatasi ad una trasformazione “streghesca” che ha echi del Gollum (ancora una volta) jacksoniano. La sarabanda finale, con la depalmiana esplosione finale di Carrie e il carnival da freak show, mette alla prova e interroga anche lo spettatore, a cui non è concesso di essere neutrale nel taglio da conferire alla vicenda. Nel momento più grottesco e straziante, con il mostro mutante esposto in pubblica piazza e anzi desideroso di esserlo, le reazioni di chi si trova da quest’altra parte dello schermo possono essere le più svariate, dal ribrezzo, alla commozione partecipata, al riso sardonico: e la reazione dirà qualcosa di ognuno di noi, mentre l’opera rimane un contenitore aperto sia cinico che partecipe. Mai posizionato nei territori del realismo fin dal principio, con la deformazione impressionista che invade il mondo circostante ancor prima dei corpi smaglianti e/o in disfacimento, grazie a grandangoli che estroflettono completamente la devastata psiche della povera Elisabeth/Demi verso l’esterno e la piccola porzione di mondo che la circonda, il film sconta forse una ripetitiva parte centrale per poi andare verso una progressione finale che non lascia scampo a nessuno, protagoniste e spettatori. Satira della società dello spettacolo, body horror di fiammeggiante fantasia e, piccolo brivido che fa impazzire chi scrive, il tema di Bernard Herrmann da La donna che visse due volte che spunta a commento del momento finale di “rivelazione”, dove il cinema frankensteiniano e gotico dei mad doctor incontra definitivamente il new horror Eighties e le deformazioni cronenberghiane. Davvero difficile aspettarsi di meglio, per un prodotto audiovisivo che si configura non come il molto meno accessibile (e meno riuscito) Titane, ma come il Parasite di questa Cannes77.
Donato D’Elia