20 Maggio 2025 -

IT WAS JUST AN ACCIDENT (2025)
di Jafar Panahi

Replicando un po’ lo stile narrativo del suo connazionale Asghar Farhadi, con quei piccoli smottamenti nella vita di persone qualunque sotto il regime iraniano che pian piano diventano inarrestabili valanghe, passo dopo passo, errore dopo errore (come l’ultimo Un eroe, presentato proprio a Cannes nel 2021), Jafar Panahi aggiunge un ennesimo capitolo alla sua già ricca filmografia e porta in Concorso a Cannes 2025 It was just an accident, ovvero il primo film girato finalmente da uomo libero, ma senza comunque attendere permessi e nulla osta governativi, da fiero oppositore quale è sempre stato, dopo il suo rilascio dalla prigione di Evin dov’era stato detenuto da luglio 2022 a febbraio 2023 e condannato dal tribunale rivoluzionario di Teheran in quanto dissidente. Un film in cui, ridiventando cineasta più “tradizionale” e mettendo da parte per una volta l’autobiografismo e il metacinema, Panahi imbastisce questa volta una ronde che fa anche largo uso dell’ironia per dispiegare la sua tesi, e le grasse risate innalzatesi dalla platea della proiezione ufficiale al Gran Teatro cannense ne sono palese dimostrazione. L’incipit, a confermare la vocazione (in)volontariamente citazionista dei colleghi conterranei, sembra presa pari pari da un film di Mohammad Rasoulof: inquadratura fissa, frontale e dall’esterno, di una famiglia in macchina, padre, madre e ragazzina sul sedile posteriore. Si discute del più e del meno, amabilmente, quando un colpo ferma bruscamente il viaggio e si constata l’investimento e l’uccisione di un cane. Il problema vero, più che la vita animale troncata, pare essere il danno all’auto che costringe la famigliola a fermarsi presso un’officina. L’apparentemente piccolo inconveniente (Un Simple Accident, appunto, traduzione letterale francese del titolo originale یک تصادف ساده – Yek tasadef sadeh) rappresenterà l’innesco per una catena di eventi che coinvolgeranno altri cinque personaggi principali, molto diversi tra loro ma accomunati dall’essere stati, TUTTI, incarcerati e torturati nelle prigioni statali. E, forse, quel padre di famiglia che guidava la macchina incidentata è proprio Eghbal “gamba di legno”, spietato galoppino governativo con una protesi all’arto per un incidente occorsogli in Siria. Vahid, impiegato dell’officina che crede di averlo riconosciuto, fa in modo di tramortirlo appena solo e lo porta nel deserto per ucciderlo e seppellirlo. Ma ci si può davvero vendicare in maniera brutale se si ritiene di essere moralmente superiori ai brutali servi dello Stato? E quindi, per traslato, può uno Stato che si ritiene democratico e moralmente “superiore” reagire da cane rabbioso dopo un attacco? Non stiamo forse parlando anche della mattanza compiuta da Israele a Gaza dopo l’attentato del 7 ottobre 2024 o di quella degli Usa in Afghanistan e Iraq dopo l’11 settembre 2001? Non è forse giusto aspettarsi dalla cosiddetta civiltà occidentale una reazione parimenti civile? O forse il sangue non può essere fermato e contrastato che con altro sangue? Ecco l’importanza capitale di questo film, ecco gli interrogativi che mette in piazza, ecco il gigantesco portato metaforico di cui si fa bandiera. Cinema che incide le carni vive del contemporaneo, cinema meritevole più di ogni altro della Palma d’Oro, se il Festival di Cannes ha intenzione di rimanere il faro che indubbiamente rappresenta per tutte le istanze politiche e civili espresse tramite la Settima Arte.

Il film di Panahi non declama manifesti, non prepone l’argomento allo stile, ma inserisce il tutto in una vicenda incalzante, appassionante, che attraverso i generi classici (c’è il thriller, c’è la commedia, ci sono echi orrorifici, specie nell’agghiacciante finale) fa emergere la sua tesi in maniera naturale, come una scaturigine degli interrogativi etici e morali di un gruppo di persone qualunque. Persone che non riescono a non aiutare la moglie dell’aguzzino al nono mese di gravidanza e la portano all’ospedale per partorire, persone segnate indelebilmente da ferite non rimarginabili eppure ancora moralmente integre, empatiche, sostanzialmente incapaci di far del male o tormentate da mille rovelli di coscienza se solo ci provano. L’opera acquista quindi, come già ampiamente anticipato, un portato universalistico che è anche un inno alla resistenza a tutti i fascismi del pianeta, a non cedere ghandianamente al Male, a lasciare integri i propri animi anche quando le carni vengono incise dal fuoco del totalitarismo reazionario e del fondamentalismo religioso, che in alcune regioni del Medio Oriente (e non solo) spesso diventano sinonimi. Nella lunga sequenza del pre-finale, opposto speculare di quella iniziale, con lo stesso barbuto personaggio inquadrato in piano fisso ma questa volta fuori dalla macchina, legato ad un albero, illuminato solo dai rossi fari degli stop, tutti gl’interrogativi, tutto quanto descritto nelle righe precedenti emerge dal fuoricampo e aggredisce il fotogramma da ogni lato, ci getta in faccia la rabbia verso l’ingiustizia e la rende GIUSTAMENTE impotente, perché non ci si può abbassare fino a quel punto, non si può ripagare con la stessa moneta e pretendere di rimanere nel giusto. Con echi novecenteschi direttamente provenienti dal teatro e dall’opera di Samuel Beckett, e quindi già pacifica commistione di culture di qua e di là degli oceani, di culture millenarie e paritariamente fondative per la cultura contemporanea (c’è davvero bisogno di ribadirlo ancora? pare di sì…) al di là dei governi oppressori del popolo che sono statutariamente di passaggio e che prima o poi verranno rovesciati, e se a farlo sono gli stessi oppressi e non “salvatori” esterni portatori di interessi propri è sempre un bene per la stabilità di quelle aree a meno d’immani squilibri di forze, Panahi compie un ulteriore passo in avanti all’interno di una filmografia già consistente, con un’opera di qualità e importanza cristallina. Possiamo già sentire come fossero pronunciate al nostro orecchio le accuse di eccessiva programmaticità del racconto da parte di qualche critico, il riconoscimento di un susseguirsi di azioni e reazioni in una struttura asfittica e senza respiro, ma mai come questa volta anche questi rilievi (con cui comunque non siamo e non saremmo d’accordo) non hanno nessuna importanza, gli obiettivi posti in partenza e incontestabilmente raggiunti sono più alti. Anche, naturalmente, sul piano meramente stilistico, perché il regista iraniano innerva i “suoi” tocchi riconoscibili (i camera car, il viaggio e la contrapposizione città/fuori città, la macchina da presa alla giusta distanza) con elementi di regia invisibile nel senso migliore del termine, sempre susseguente alla sua utilità ai fini della prosecuzione del racconto e mai inutilmente sovrabbondante. Fino ad arrivare all’ultima inquadratura, ad un fuoricampo insinuante, opprimente, che non lascia scampo proprio perché racchiude tutta la paura e la paranoia che un regime autoritario pluridecennale trasmette ai suoi sottoposti primari, ai cittadini non allineati. Dopo il bellissimo Gli orsi non esistono, Premio speciale della Giuria a Venezia 2022, che aveva il suo momento centrale in un passo oltreconfine da compiere o da rigettare, in una fuga possibile che non si può che rifiutare per mantenere intatte coerenza e resistenza, Jafar Panahi rilancia e teorizza, evitando la personalizzazione con un passo di lato, rendendosi probabilmente conto di essere ormai portatore di istanze che oltrepassano la propria storia personale. Fino agli applausi a scena aperta di Cannes, ai quali non possiamo che, non solo metaforicamente, aggiungerci.

Donato D’Elia

“It Was Just an Accident” (2025)
Documentary | Iran
Regista Jafar Panahi
Sceneggiatori N/A
Attori principali Madjid Panahi
IMDb Rating N/A

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