24 Maggio 2025 -

O AGENTE SEGRETO (2025)
di Kleber Mendonça Filho

È un film di tracce da fiutare, O agente segreto. Un film in tre (macro)capitoli di indizi, di frammenti, di MacGuffin, di omissioni, di brandelli, di impressioni, di repentini slittamenti, di sconfinato e costantemente dichiarato amore per il cinema (non solo) del tempo. Un film di false piste da seguire e poi magari abbandonare, proprio quando quel cadavere da giorni in mezzo alla strada o quella gamba umana ritrovata nello stomaco di uno squalo avevano iniziato a diventare interessanti, e di scatole cinesi apparentemente infinite di contraddizioni e differenti immaginari nelle quali perdersi e non necessariamente ritrovarsi. Un film episodico, ellittico, frastagliato, ucroinico, deliberatamente ondivago e fuorviante e proprio per questo stratificatissimo nelle sue musiche, nelle manipolazioni di regime dei suoi telegiornali d’epoca e nei suoi documenti veri, falsi, archiviati e mancanti, che gioca apertamente ad alimentare e poi a frustrare le aspettative dello spettatore per fare emergere dal quadro generale un discorso ben più radicale e formalmente, intrinsecamente, espress(iv)amente politico dei singoli pretesti narrativi che Kleber Mendonça Filho cuce insieme nella (non) spy-story di un protagonista di nome Marcelo che in realtà si chiama Armando, e che dalla Recife sotto dittatura militare (e reti solidali di resistenza comunista) degli anni Settanta riemerge nei nastri con cui, oggi, interrogare il passato e ritrovare lacerti della memoria e dell’identità del Paese. Un discorso, appunto, di riappropriazione della Storia attraverso le sue schegge in frantumi, tanto più di quella regione pernambucana da sempre guardata di traverso sia dai carioca sia dai paulisti, e tanto più di quel tragico regime dei Gorilla in cui anche un carnevale poteva volere dire centinaia di morti sulle strade senza che nessuno nemmeno se ne stupisse. Perfettamente consapevole di come questa riappropriazione non possa che essere giocoforza parziale e magari necessariamente incoerente fra inevitabili rimozioni, circostanze che mutano e aperte menzogne raccontate dentro e fuori dai nastri, eppure al contempo tanto chiara ed evidente nella violenza e nella corruzione mai realmente mutate del sistema che governa(va) il Brasile quanto soprattutto nella necessità morale ormai imprescindibile di trovare una giusta distanza e un possibile punto di vista da cui scrutare il tempo passato, tentare di comprenderlo, apprenderne gli insegnamenti. Guardando alla Storia e al suo senso come un simbolo, come un’impressione, come un racconto e quindi (già) come una rappresentazione, i cui segni nient’altro sono che elementi del linguaggio, (eterni) significanti alla ricerca di un (nuovo) significato e di uno sguardo che lo sappia decodificare. Un’esigenza centrale al punto che non è assolutamente un caso che alla base del cortometraggio originario che, secondo il suo particolarissimo ma ormai consueto modus operandi artistico, Mendonça Filho aveva realizzato come nucleo fondamentale di questo O agente segreto prima di ripensarlo modificato ed espanso nel definitivo lungo freschissimo (e meritato) premiato per la miglior regia nel concorso principale di Cannes78, ci fossero proprio quelle studentesse contemporanee e quegli ascolti delle immaginarie cassette registrate nel ’77 che qui ribaltano invece per la prima volta la prospettiva dopo quasi un’ora di pura immersione nel passato, mentre quello che poi sarebbe diventato il protagonista interpretato da Wagner Moura, a sua volta tornato a casa con l’alloro come miglior attore, nemmeno faceva ancora parte del cast. Solo successivamente, ripartendo da quell’idea e da quel materiale a cui cucire attorno il resto, è nato l’intero flashback in costume che occupa ora la stragrande maggioranza dei 158 minuti del film, come un nuovo e affascinantissimo Retrato(s) fantasma(s) questa volta di pura finzione con cui tentare, attraverso la ricostruzione del passato di un uomo misterioso braccato sempre più da vicino dalla polizia di regime e dai sicari privati, di penetrare le profondità più oscure del presente e del futuro del Paese, e forse più in generale dell’intero mondo.

«Non ricordo mio padre, lo conosci molto meglio tu», dirà nel finale il figlio del protagonista a quella giovane ascoltatrice che, dopo avere cercato di ricostruirne la storia dai suoi brandelli, cercherà inutilmente di darle una possibile conclusione. Una storia che parte nel 1977 con un morto che non interessa a nessuno, tanto che quando la polizia arriverà dopo diversi giorni sul luogo della sparatoria non penserà nemmeno a rimuoverlo, troppo impegnata per chiedere «donazioni» per il carnevale al forestiero sul Maggiolone, e che non potrà che finire con un’altra morte fuori campo, dimenticata, di cui solo il PDF di un vecchio giornale potrà restituire un unico trafiletto, e con una sala cinematografica un tempo fabbrica di sogni (e di crescita, con quella visione de Lo squalo spielberghiano che come una terapia d’urto finalmente toglie quella paura degli squali nata immaginandolo da un trailer radiofonico, e magari pure di autosuggestione come nel caso di quella ragazza talmente scioccata da Il presagio di Richard Donner da credersi a sua volta posseduta) che adesso è a sua volta luogo simbolicamente morto fuori campo e rinato come banca del sangue. Come se il concreto avesse vinto sull’astratto, come se l’utilità del presente avesse vinto sulla volontà (e forse anche sulla capacità) di guardare al passato, ma anche come a dichiarare l’importanza fondamentale proprio del cinema – a patto di saperselo ancora andare a cercare – come unica possibile finestra in cui ricostruire e liberare dall’oblio ciò che del passato è stato rimosso, e che esplode totalmente vero e bruciante da ogni interstizio fra gli elementi di finzione, da ogni dialogo, da ogni silenzio, da ogni motivazione, da ogni eterogeneità della forma e del genere. Un senso che non sta solo sullo sfondo, ma che Kleber Mendonça Filho con straordinaria capacità di stratificazione dissimula perfettamente nel centro di ogni singolo, frastagliato, diseguale, quando necessario anche surreale e incubale fotogramma (la gamba trafugata dall’obitorio che come in un perfetto grindhouse, a mescolare ancor di più la realtà con i possibili immaginari cinematografici che la filtrano e inevitabilmente dalla loro fantasia la raccontano, prende vita e si vendica facendo strage in un parco notturno di omo/eterocoppiette e vizi orgiastici assortiti), e nell’architettura solo apparentemente sfilacciata ed evanescente, e invece inesauribilmente articolata, di un labirinto narrativo affascinante e sfuggente che continuamente sembra aprire e chiudere nuove possibili diramazioni, rinnovando nei suoi sospiri alla totale libertà del Cinema Novo e Marginal della tradizione cinematografica brasiliana quella stessa urgenza politica che aveva plasmato le rotture formali di Glauber Rocha, Rogério Sganzerla e Julio Bressane. Dalla spy story al melodramma familiare, dal noir alla ricostruzione storica, dalla resistenza politica con le sue false identità sotto la cui coperta ritrovare i veri se stessi al mafia movie dei sicari assoldati da altri sicari per scoprire la rete ed eliminare tutte le parti in causa. Dai documenti bloccati e quindi necessariamente da falsificare a un cambio radicale di chi registra e tiene le fila, con la misteriosa Elza «da questo momento personaggio principale di questa storia». E poi ancora dall’intrinseca iconicità di Udo Kier nei panni di un sarto tedesco ex-soldato nazista sempre stato segretamente ebreo (magari al quale fare esibire le cicatrici di guerra come un animale allo zoo ad appannaggio dei ricchi idioti) a un imprenditore criminale che da decenni ruba alla collettività distraendo fondi pubblici destinati all’università per (non certo a caso, nel ripercuotersi di ieri su oggi) produrre i primi prototipi di batterie al litio per le auto elettriche, e che quando viene scoperto non si fa alcun problema a rivolgersi ai killer che il capitalismo ha già a libro paga. Come schegge necessariamente impazzite di una storia di mistero e di inquietudine, di identità e di (costante) fuga, di simboli (l’uomo-gallina che dal carnevale quasi aggredisce sin da subito il protagonista nel suo ritorno a casa) e di tracce disperse (quelle immaginate della finzione narrativa, quelle reali delle notizie assurde date dalla stampa di regime), da guardare attraverso il finestrino di una cabina di proiezione nello spiraglio fra la luce dello schermo e l’orgasmo di un pompino fra le poltrone, attraverso la testimonianze vere e false di un passato ormai lontano, attraverso le prolessi e i flashback di quello che c’è e quello che manca (una moglie morta, un suocero che ancora la piange fra una proiezione e un incontro con il genero, un figlio che manda lettere e disegni a un padre lontano). Ma soprattutto attraverso il tempo, unica possibile lente attraverso cui re-imparare a guardare e ad ascoltare fino a ritrovare il senso perduto, unico possibile veicolo con cui reimmaginarlo e farlo rivivere nei linguaggi e nelle fascinazioni del (grande) cinema.

Marco Romagna

“O Agente Secreto” (2025)
Drama, Thriller | Brazil
Regista Kleber Mendonça Filho
Sceneggiatori Kleber Mendonça Filho
Attori principali Wagner Moura, Maria Fernanda Cândido
IMDb Rating N/A

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