15 Maggio 2025 -

PUT YOUR SOUL ON YOUR HAND AND WALK (2025)
di Sepideh Farsi

Mentre Juliette Binoche, dallo scranno della presidenza di Giuria del 78esimo Festival di Cannes, giustamente ricorda durante la cerimonia d’apertura la fotoreporter venticinquenne Fatma Hassona «uccisa da un missile» ma pavidamente omette di specificare quale sia la stanza dei bottoni che lo abbia lanciato e quali siano le parti in gioco che con la loro apatia e la loro indifferenza se ne rendono complici, tocca ancora una volta al sempre lucidissimo Ken Loach e al suo fido sceneggiatore Paul Laverty il compito di introdurre nel miglior modo possibile la capitale importanza storica, politica a umana, ben al di là del suo pure indubbio valore cinematografico e documentaristico/documentale, di Put your soul on your hand and walk. Con una lunga e durissima lettera aperta, giunta poche ore prima della proiezione nuovo lavoro della regista persiana di nascita e forzatamente apolide per Resistenza Sepideh Farsi nella se(le)zione indipendentissima di ACID, che è semplicemente impossibile non ripubblicare integralmente, e che tradotta letteralmente recita «Cari amici, il film Put Your Soul On Your Hand And Walk diretto da Sepideh Farsi, parte della sezione parallela ACID del Festival di Cannes 2025, sarà proiettato il 15 maggio. Congratulazioni a tutti coloro che hanno reso possibile tutto questo. Il film celebra la vita della fotogiornalista Fatima Hassouna, 25 anni, uccisa a Gaza insieme alle sue due sorelle, tre fratelli e suo padre, il 16 aprile, un giorno dopo che il film era stato selezionato per Cannes. Si unisce a ciò che Reporters Without Borders chiama “il massacro” di giornalisti, ora superiore a 200, negli ultimi 18 mesi. Almeno tre organismi dell’ONU, più Amnesty International, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e molti altri hanno descritto le azioni di Israele a Gaza come un genocidio. Forse le prove più conclusive raccolte sono state il rapporto di 800 pagine e la piattaforma digitale interattiva degli esperti di Forensic Architecture, in un lavoro rigoroso chiamato “La cartografia del genocidio”. Questo è uno degli studi più devastanti del nostro tempo. I modelli che abbiamo osservato riguardo alla condotta militare di Israele a Gaza indicano una campagna sistematica e organizzata per distruggere la vita, le condizioni necessarie per la vita e l’infrastruttura che la sostiene. Nessuno può ora affermare che non lo sappiamo. La Convenzione sul genocidio è entrata in vigore nel 1951. L’articolo 1 afferma che tutti gli stati firmatari devono attivamente PREVENIRE e PUNIRE il genocidio. Si tratta di un obbligo internazionale e non solo di una questione interna. Si afferma che le persone possono essere punite sia come individui privati che come funzionari pubblici. La “complicità nel genocidio” è esplicitamente trattata nell’articolo 3 (e) che include “assistenza diretta” (armi o armamenti), “assistenza indiretta” (sostegno politico o diplomatico) e, in modo cruciale, “inazione”, cioè sapere di non aver agito per prevenire il genocidio, quando, in certi casi, si hanno i mezzi e la responsabilità di farlo. La Convenzione sul genocidio è ignorata dagli stati firmatari in tutto il mondo. È ignorata dalle istituzioni all’interno di questi stati. Quanto meno, perché i servizi giudiziari statali non perseguono i trafficanti d’armi e i loro investitori? Ora che la Corte internazionale di giustizia ha vergognosamente ritardato il caso del Sud Africa Vs Israele fino al gennaio 2026, possiamo vedere in pieno orrore il crollo del diritto umanitario davanti ai nostri occhi. Quante altre bombe da 2.000 libbre cadranno nelle tende prima dell’udienza del 2026? Quanti altri potrebbero morire di fame? Per pochi giorni l’attenzione del mondo è riposta su Cannes mentre i registi di molti paesi cercano al meglio di dare un senso a ciò che sta accadendo intorno a loro. Cannes ha una tradizione di impegno negli affari del giorno, e alcuni hanno ancora vividi ricordi degli eventi del 1968. La giovane Fatima aveva chiaramente previsto il suo omicidio, e ha detto: “Voglio una morte rumorosa”. Il 15 maggio, giorno della proiezione, possiamo onorare questa coraggiosa giovane donna e i suoi colleghi giornalisti palestinesi (nessun giornalista straniero è stato permesso di entrare a Gaza) che hanno dato la vita per testimoniare gli omicidi di massa. Possiamo tutti rendere la sua morte il più forte possibile, e insistere che gli Stati adempiano ai loro doveri secondo la Convenzione sul genocidio? Possiamo esigere che la comunità internazionale ponga fine ai crimini di guerra di Israele, consentiti dagli Stati Uniti, e degli altri governi corrotti e vigliacchi, compreso il nostro nel Regno Unito, che seguono nella loro scia? Se non fermiamo subito il genocidio, la versione israeliana/Trump della Riviera di Gaza sarà costruita sulle macerie e sui morti. La pulizia etnica continuerà attraverso la Cisgiordania e il popolo palestinese sarà finalmente cacciato dalla sua patria storica. Se i criminali di guerra sfuggono alla giustizia, quali orrori verranno dopo?».

È per questo che sarebbe inizialmente dovuto durare qualche minuto in meno e soprattutto occupare una poltrona del cinema in più, Put your soul on your hand and walk. Un film, quasi interamente girato con un cellulare filmando lo schermo dell’altro cellulare in videocall con Fatma Hassona, che nasce il fatidico 7 ottobre 2023 mentre la regista, già incarcerata in patria per il proprio attivismo politico e anzi dal 2009 impossibilitata a tornare in Iran da un mandato di cattura che le pende sulla schiena, stava presentando al Festival del Cairo il suo precedente e animato La Siréne, non certo per caso un’altra storia di una guerra, vissuta quella volta in prima persona, e trasformata nella ricerca di giustizia di un’intera generazione schiacciata dal regime khomeinista. Qui, messi da parte i fogli e la china del lavoro precedente, la sua ambizione è quella di tornare al documentario, o meglio in questo caso a un documento forzatamente girato a distanza ma proprio per questo così inestimabile, che sarebbe dovuto essere sulla quotidianità della guerra in corso a Gaza, sul decadimento al grado zero di una vita che diventa mera sopravvivenza ma anche sul profondissimo orgoglio di un popolo che anche mentre conta i bambini morti non smette di sperare nella fine delle ostilità e nella ricostruzione, sulla progressiva e devastante distruzione del territorio ma anche inevitabilmente sulle scelte etiche prima ancora che estetiche che uno sguardo deve compiere per trasformarla in racconto per immagini da spedire oltre confine per scardinare le omissioni e le mezze verità sempre più difficili da nascondere ed edulcorare della narrazione ufficiale dei media mainstream, e che invece nello spazio di un’esplosione è cambiato radicalmente. Non solo nell’aggiunta della doverosa coda finale che mostra l’ultima conversazione e le ultime speranze sgretolate della giovane fotoreporter Fatma Hassona, unico possibile occhio e unica possibile voce di Sepideh Farsi in una Gaza blindata dalla quale era ed è impossibile entrare e pressoché impossibile uscire, quanto nel senso di ogni suo sorriso, di ogni sua parola e di ogni suo vagito pieno di vita. Un semplice contatto Whatsapp suggerito alla regista iraniana da un esule palestinese al Cairo, diventato nel corso di quasi un anno di videochiamate rese faticose dalla connessione traballante della zona di guerra diventa una vera e propria amica ora perduta, di cui progressivamente conoscere la famiglia e sempre più condividere non solo i racconti ma sempre più l’intimità. La consapevolezza della sua morte insieme a tutto ciò che era rimasto della sua già decimata famiglia, avvenuta il 16 aprile scorso – come giustamente specificato da Loach e Laverty proprio il giorno dopo aver scoperto che il film sarebbe stato presentato al Festival di Cannes e mentre fantasticava di riuscire finalmente a viaggiare per raggiungere la prima mondiale in Costa Azzurra, dettaglio che forse ne rende ancora più agghiacciante e insostenibile la visione proprio qui all’Olympia – sotto l’ennesima bomba del genocidio che il governo israeliano di Netanyahu sta compiendo mentre l’Occidente continua imperterrito a fare finta di non vedere, non può che trasformare l’intero scorrere del film in un requiem poetico, al di là del suo aspetto politico umanissimo ed emotivamente lancinante, nel quale ogni radiosa speranza di Fatma arriva violenta come un pugno, e nel quale ogni suo sogno e ogni sua possibile venatura di ottimismo non possono che rivoltarsi nel più cupo e depresso rimpianto. Come se il suo volto e le sue parole fossero diventati l’espressione di un fantasma fra centinaia di migliaia di fantasmi, che ancora riemerge come una presenza e un monito ma solo su uno schermo, mentre tutto il resto di quello che sarebbe stato il suo futuro è ridotto a mera polvere di macerie e ricordi. Quelli di un continuo confronto fra due donne differenti per età, provenienza geografica, scelte e stili di vita – Sepideh Farsi che ha scelto da decenni di fuggire dalla teocrazia del suo Paese ed è oramai apolide e poliglotta costantemente in viaggio per il mondo, mentre Fatma Hassona avrebbe tanto voluto viaggiare ma non ha mai voluto né potuto prescindere dall’appartenenza orgogliosa alla sua terra, e da fiera musulmana sapendo di essere filmata non discosterà mai un hijab che porta per scelta e personale convinzione anche senza che ne vigesse l’obbligo –, in cui tutte e due sono perfettamente consapevoli di come ogni chiamata avrebbe ogni volta potuto essere l’ultima, mentre fra pixelamenti, lag e continue disconnessioni, ma con straordinaria forza d’animo, dal cuore dell’inferno di Gaza la giovane fotoreporter mostra il suo sguardo sulla verità e racconta il suo quotidiano, senza mai rinunciare a un sorriso neppure quando si sofferma sui morti di famiglia e sulle continue privazioni che debilitano i corpi e lo spirito fra la mancanza d’acqua, il cibo scadente, la privazione del sonno, la paura e le ripetute corse improvvise da un rifugio all’altro. Sono suoi – compreso un bombardamento “in diretta” su Whatsapp – gli occhi e le parole che restituiscono la terra che trema a ogni deflagrare di un missile e i palazzi (sempre più) sventrati mentre le strade si svuotano e le fosse comuni si riempiono, sono sue le poesie da recitare per ritrovare la propria identità e la consapevolezza di non avere (più) nulla da perdere. Compresa, forse inevitabilmente dopo aver trovato la testa di una zia (e mai il corpo) in un’altra strada a centinaia di metri dalla casa in cui era stata uccisa da una bomba al fosforo e la martirizzazione della migliore amica mentre i missili di Netanyahu continuano anche dopo il cessate il fuoco a cadere su scuole, ospedali, giornalisti e mezzi di soccorso umanitario, qualche posizione un po’ ambigua e controversa su Hamas e sul casus belli del suo attacco a Israele. Il resto lo fanno le sue fotografie, potenti, espressive, terribili quanto magnifiche, e quell’unico suo video dall’auto in giro per la città in movimento. Immagini che da esplosione di colori diventano inevitabilmente esplosione di dolori, sempre più (o)scure, grigiastre e polverose, sempre più obbligate a pensare al campo e al fuori campo, a ciò che si può e non si può mostrare, al senso stesso del documentare la quotidianità di un massacro per essere parte della Storia ma soprattutto se stessa, individuo pieno di desideri destinati a non essere esauditi. Una condivisione di emozioni con cui sentirsi insieme anche a distanza, senza che le guerre, i confini, le censure, le pulizie etniche più criminali e nemmeno la morte possano farci nulla. Fatma Hassona ha saputo prendere in mano e la propria anima e (farla) camminare fino a portarla fuori, nel mondo, nella Storia, davanti agli occhi di tutti. Pronta a gridare la sua dignità e la sua verità, ma soprattutto a (ri)vivere, sempre e per sempre su uno schermo.

Marco Romagna

“Put Your Soul on Your Hand and Walk” (2025)
110 min | Documentary | France / Occupied Palestinian Territory / Iran
Regista Sepideh Farsi
Sceneggiatori N/A
Attori principali Sepideh Farsi, Fatma Hassona
IMDb Rating N/A

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