14 Maggio 2025 -

ENZO (2025)
di Laurent Cantet e Robin Campillo

È sin dai titoli di testa «un film di Laurent Cantet» il suo ultimo lascito Enzo, proprio come cinquant’anni fa il primo Amici miei era semplicemente «un film di Pietro Germi», con la «regia di Mario Monicelli» che aveva accettato di portare a termine l’ultimo progetto postumo del collega svelata solo dall’ultimo cartello. Allo stesso modo, Enzo specifica solo in seconda battuta, e passando per l’aggravarsi del cancro e la tragica morte prematura di chi lo aveva pensato e scritto prima di poter iniziare le riprese, di essere stato infine «realizzato da Robin Campillo», per tanti anni montatore, co-sceneggiatore e non certo in ultimo grandissimo amico del regista scomparso il 25 aprile 2024. Eppure il titolo scelto per aprire la Quinzaine des Cinéastes annessa a Cannes78 non può che costituire in qualche modo un punto di sintesi degli sguardi dei suoi due autori. Da una parte quello lucido e accorato sui turbamenti giovanili, sulle dinamiche umane contraddittorie e sul peso delle aspettative (e delle classi) sociali messo su carta da Cantet, e dall’altro quello necessariamente personale e quindi differente di Campillo che lo ha effettivamente trasposto su un set, convertendo la sceneggiatura ultimo lascito del collega e maestro in immagini, stile e scelte di messa in scena. Un vero e proprio lavoro diventato a quattro mani, o per lo meno a quattro occhi e due mani, che prende lo smarrimento di chi vuole ribellarsi al proprio posto preventivato nel mondo e cerca disperatamente una guida con cui trovare i propri nuovi orizzonti già al centro dei vari Risorse umane, La classe e L’atelier per filtrarlo attraverso la macchina da presa dinamica e il montaggio serrato di campi e controcampi musicali (per quanto a volte forse anche un po’ troppo di superficie, quando un campo lungo o un long take avrebbero dato più respiro e profondità ai personaggi) che già aveva accompagnato i 120 Battiti al Minuto dell’attivismo dei primi anni Novanta, in un forzato passaggio di consegne che forse anzi sicuramente, rispetto a come sarebbe potuto essere il film se Cantet avesse fatto in tempo a girarlo, perde qualcosa a livello di eleganza e di profondità emotiva ed espressiva delle immagini, ma in qualche modo lo rende ancora più umanamente tridimensionale sovrapponendo (o forse sarebbe meglio dire sommando) un altro sguardo che cerca di farsi il più possibile affine e rispettoso ma che non può prescindere dalla propria prospettiva, dal proprio modo di vedere e di filmare le dinamiche relazionali, dalla propria idea della società e del cinema con cui scandagliarne gli interstizi più oscuri, le domande esistenziali senza risposta, la difficoltà di scoprirsi. Non tanto a livello di identità sessuale, per quanto nel vortice emozionale del sedicenne Enzo ci sia (anche) la scoperta di un desiderio omoerotico e di un sentimento sempre più difficile da dissimulare nei confronti del collega operaio ucraino Vlad, ma in generale a livello personale, da adolescente ricco borghese che si affaccia all’età adulta nel malcelato disprezzo verso la propria natura privilegiata e quel percorso già scritto verso le migliori scuole e i lavori upper-class che sta pedissequamente seguendo il suo fratello maggiore. Tanto da rinunciare al proprio talento nel disegno per scegliere di andare a lavorare come muratore pur non avendone bisogno economico e pur non essendo in alcun modo portato per i lavori manuali, e da rifiutare qualsiasi invito della famiglia e del capo insoddisfatto a ritornare sui propri passi.

Un’intuizione originalissima e intrinsecamente stratificata, quella di aprire su un disastro del giovanissimo protagonista Enzo al cantiere per poi svelare inaspettata la sua natura altolocata (e quindi il suo lavoro come operaio per scelta eversiva e non per necessità) quando il capo lo accompagnerà a casa per parlare con i suoi premurosi quanto in definitiva disarmati genitori, scoprendo una villa mozzafiato fra le pareti di vetro vista mare, la piscina a sfioro su due lati della casa e il ricco frutteto. Ma soprattutto un elemento con cui la sceneggiatura di Cantet entra subito e di prepotenza nel suo discorso politico, fatto di classi sociali, di ruoli predefiniti e di maschere che devono continuare a sorridere ai party a costo di nascondere sotto il tappeto il montare della tragedia, mentre i colleghi sottoproletari con le mani callose e le scarpe sporche di vernice vengono richiamati alle armi nella loro nativa Ucraina, e un lavoro extra nel weekend può diventare l’occasione per improvvisare una fuga che è in primo luogo da se stessi e dalla propria irrisolvibile inquietudine. Elementi cardine di una storia di smarrimento e di rifiuto della propria quotidianità familiare e borghese che, nel procedere a tentoni del protagonista in tutte le possibili direzioni della sua identità ancora tutta da definire (e nel suo ripudiare la vita agiata dei genitori ma senza rinunciare alla nuotata notturna), non può che cristallizzarsi nell’incontro/scontro, contraddittorio come ogni (primo) amore inesperto e (non) corrisposto, con chi invece è di nove anni più grande e la propria quotidianità familiare (ma per nulla borghese, anzi…) l’ha già dovuta abbandonare per cercare lavoro fuori dalla propria terra, e ora nell’infuriare della guerra non ci può fare ritorno se non come soldato o come disertore, costretto a una vita da apolide e (per lo meno sedicente) latin lover in un Paese non suo fra un muro da alzare e una piscina da piastrellare. Il resto lo fa la città di La Ciotat, già sostanziale co-protagonista de L’atelier accanto a un altro ragazzo spaesato e ribelle ma soprattutto sin dagli albori della settima arte legata a doppio filo alla storia del cinema con il celeberrimo arrivo del treno nella sua stazione documentato dai Lumière, che divide anche geograficamente il lusso sfrenato delle ville in collina dagli appartamenti dei quartieri popolari, facendole letteralmente guardare dall’alto in basso. Poi sì, è vero che forse c’è qualche elemento in qualche modo scontato in una vicenda di adolescenti alla ricerca di un proprio futuro, fra i giri senza avere necessariamente una meta in motorino, quei baci in piscina con una vecchia compagna di classe interrotti sul più bello dall’inaspettato ritorno a casa della madre, e poi ancora la dinamica di attrazione, ritrosie, timidezza, coraggio, approccio, rifiuto, freddezza, litigiosità e (letteralmente) abbandonarsi alla potenziale tragedia (e magari proprio lì finalmente trovarsi, e permettere definitivamente anche a Robin Campillo di essere semplicemente se stesso) più tipici del filone, così come forse sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più incisivo di un finale di pensieri intrecciati in vacanza a Ercolano. Ma ben al di là di qualche limite narrativo e di sguardo in Enzo ci sono pure, tanto straordinariamente tratteggiate da valere praticamente da sole il film, le incomprensioni e le incomunicabilità con le pur larghe vedute del padre interpretato in perfetto francese ma soprattutto in sottrazione da un gigantesco Pierfrancesco Favino, che con le sue preoccupate indecisioni e con le sue nottate insonni sul divano aggiunge al disorientamento del figlio quello di un’intera famiglia che si rende perfettamente conto di come il giovane si stia buttando via, ma sa anche di non avere reale possibilità di intervenire e quando ci prova inevitabilmente sbaglia tutto. Come in una sorta di Call me by your name però questa volta onesto, sincero, del tutto privo di autoassoluzioni e forse pure di soluzioni, e anzi ben più concentrato sulle domande che sulle risposte. Un film che magari sarebbe potuto essere realmente straordinario e che invece è “solo” bello, ma che per mille motivi era assolutamente da fare per onorare la memoria di un amico e soprattutto per portare a termine in qualche modo la sua preziosa visione da autore, in cui la ricerca di un’alternativa su cui basare la propria vita futura si sfaccetta in un prisma di contraddizioni, di desideri da definire, di ostacoli sociali, di frustrazioni, di tensioni e di pulsioni da tentare di esplorare. Di un fremito che sta nascendo e che non si sa nemmeno esattamente cosa sia, ma che è semplicemente impossibile da ignorare.

Marco Romagna

“Enzo” (2025)
Drama | France
Regista Robin Campillo
Sceneggiatori Robin Campillo, Laurent Cantet
Attori principali Pierfrancesco Favino, Élodie Bouchez, Maksym Slivinskyi
IMDb Rating N/A

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