È quasi un paradosso come il maggiore spunto di interesse di Planètes, esordio al lungometraggio misto-animato della regista giapponese per nascita ma ormai a tutti gli effetti francese per scelta di vita e produzione Momoko Seto che trova la sua prima come chiusura della Semaine de la Critique di Cannes 2025, coincida in sostanza proprio con quell’aspetto, la tecnica, che più rende perplessi nel guardare al progetto. Un dubbio che nasce non tanto dall’effettiva riuscita visiva delle animazioni 3D, ora realmente notevoli nel risultato e ora invece un po’ posticce quando il gioco di computer grafica funziona meno bene e le infruttescenze di taràssaco protagoniste sembrano in qualche modo più “attaccate” su animali e paesaggi-altri, ma proprio dall’idea alla base di partire, anziché da disegni o plastilina, o comunque da un qualcosa da creare e fare muovere, da immagini per lo più reali, naturalistiche, paesaggistiche, documentaristiche, per elaborarle in accelerazioni e movimenti ed innestarle una nell’altra creando una narrazione distopica e perfettamente comprensibile nella sua assenza di dialoghi, optando all’esatto opposto dell’altrettanto “muto” Flow presentato sulla Croisette lo scorso anno, che dichiarando sin dalle linee di pixel la sua natura generata e artificiosa lavorava sulle caratteristiche naturali e istintive delle diverse specie, per una sostanziale antropomorfizzazione di elementi naturali che si comportano e si emozionano come se fossero esseri umani nei quali inevitabilmente finire per riconoscersi e identificarsi. Una tecnica che, se inevitabilmente da una parte stuzzica la curiosità dell’occhio cinefilo con il suo esplorare in senso cinematografico le nuove potenzialità che l’avanzare della tecnologia al tempo di AI e deepfake sta fornendo (anche) al mezzo-animazione, con il suo fotorealismo assoluto porta quasi inevitabilmente a porsi domande sulla sua effettiva utilità e sul suo senso, sul perché a sostanziale parità di effetto visivo non si sia scelto invece di realizzare semplicemente un documentario naturalistico, o sul perché la narrazione non sia stata creata, come tante altre volte nella storia del cinema live-action fra animali e specie vegetali impossibili da addestrare (ma viene in mente anche il sacchetto di plastica del corto Plastic Bag portato via dal vento e seguito ovunque nel 2009 dalla macchina da presa di Ramin Bahrani, in attesa che gli prestasse la voce fuori campo Werner Herzog), semplicemente con il montaggio di una mole ancora superiore di riprese dal vivo. Una controversia teorica che, in ogni caso, non può scalfire l’innegabile fascino di un’opera prima come Planètes, in cui Momoko Seto riprende tutte le suggestioni naturali già affrontate nei suoi precedenti cortometraggi documentari per immaginare, come da titolo internazionale Dandelion’s Odyssey traducibile letteralmente come “L’odissea del taràssaco”, una piccola famigliola di petali/semi che al momento di una pioggia di meteoriti (o forse della definitiva distruzione nucleare della Terra da parte dell’uomo) si ritrovano a vagare nello Spazio e poi su un altro pianeta alla disperata ricerca di un terreno adatto ad accogliere il loro seme, per dare vita e fare crescere una nuova bocca di leone che a sua volta sarà destinata a trasformarsi in un nuovo soffione e di nuovo a liberare e far spargere dalla brezza le sue semenze soffici e intrinseco simbolo di leggerezza, trasformazione, libertà, infanzia e rinascita.
Una ciclicità della vita che Planètes mette in scena sin da subito, nei primissimi minuti che dallo Spazio scendono sulla Terra per poi tornare nello Spazio alla ricerca di una nuova Terra magari con due lune ma un ecosistema quasi perfettamente sovrapponibile nelle sue asperità e nelle sue zone fertili, prima negli occhi di uno scarabeo che assiste girato a pancia in su alla crescita dei fiori, e poi nel volo delle farfalle in fiamme sopra quei petali gialli che si richiudono e poi si riaprono nella forma lanosa delle loro inflorescenze con cui farsi portare via per riprodursi, rinnovarsi, rivivere dal principio, e così sfuggire al fuoco, alla distruzione e all’ineluttabilità della morte. Una lotta (eterna, quotidiana) per la sopravvivenza in cui unirsi e aiutarsi a vicenda come una famiglia, in cui superare le lande più sconosciute e inospitali fra ghiacci, eruzioni vulcaniche, inondazioni, deserti, rapide, foreste e predatori di ogni tipo, in cui navigare liberi su una patata che sta germogliando oppure scroccare un passaggio sulla fronte di una rana o fra le antenne di una lumaca minacciata dall’infezione di funghi parassiti. Una lotta (eterna, quotidiana) per la sopravvivenza in cui vedere arrivare i millepiedi come un esercito gigantesco, corazzato e famelico, in cui fare amicizia con una lucciola e una falena per poi fuggire insieme dall’attacco predatorio di una mantide, e magari in cui inevitabilmente morire oppure perdere un affetto, perché non tutte le infruttescenze possono diventare fiore ma qualcuna dovrà necessariamente perdersi per strada, essere mangiata da un pesce, attecchire sul terreno sbagliato, o magari finire direttamente nei miasmi sulfurei dell’acido per l’illusione di una nuova e immediata fioritura e poi per lo scoramento di una nuova morte questa volta senza più alcuna possibilità di trasformarsi, ma solo di appassire e di disgregarsi. Ma anche una lotta (eterna, quotidiana) per la sopravvivenza in cui alla fine inevitabilmente riuscire a compiere il miracolo, interrarsi vicini in un’oasi di acque cristalline e vegetazioni rigogliose, e attendere pazientemente di (ri)fiorire prima che il vento passi a staccare le nuove infiorescenze e a far ripartire l’eterno loop della Natura. Una parabola semplice, circolare, immutabile come il cambio delle stagioni e come lo scorrere delle generazioni, che Momoko Seto mette in scena animando la realtà in un’espressività mimica che non ha bisogno di parole per deflagrare sullo schermo, e in un magnetico sound design sostanziale grammelot di suoni naturali, musiche e rumori. Un sonoro nel quale va detto che forse in un film che vorrebbe essere post-antropico sarebbe stato meglio non aggiungere di tanto in tanto l’“aiutino” di qualche (filtratissima, ma lo stesso rivedibile per non dire evitabile, sia per concetto sia perché in sostanza inessenziale per la comprensione) voce umana che borbotta, ma non può essere questo un punto per il quale incaponirsi con le critiche verso un film già visto chissà quante volte eppure al contempo mai visto, magari problematico in qualche suo limite di budget, visivo e concettuale ma non per questo meno interessante nella sua declinazione tecnica sperimentale o meno spettacolare e affascinante nella sua realizzazione. Un film che non vuole cercare chissà quale metafora al di là dello scorrere come un romanzo d’avventura della ciclicità naturale, ma che ha il merito indiscutibile di cercare un modo proprio e nuovo, personalissimo, di guardare e di animare. Un modo che a oggi è ancora evidentemente in formazione, imperfetto, per molti versi ambiguo. Ma sarebbe semplicemente folle non vedere e apprezzare il tentativo, e il talento potenziale che, come un seme alla ricerca del suo terreno, sembra essere solo in attesa di potere definitivamente sbocciare in un fiore che potrebbe rivelarsi bellissimo.
Marco Romagna