19 Maggio 2025 -

CIUDAD SIN SUEÑO (2025)
di Guillermo Galoe

Rimangono negli occhi il lungo pianosequenza in camera car in cui scoppiare a piangere sentendosi per la prima volta traditi, il cielo che si riempie di pappagalli in volo dopo averne inavvertitamente rotto le gabbie, e poi ancora le nottate tutti insieme intorno al fuoco quando il generatore non ne vuole più sapere di partire, fra ombre che si allungano sul muro, tossicodipendenti che si fanno di eroina e bisbigli con cui (re)immaginare il passato il presente e il futuro (di un cane, di una famiglia, di una città, di se stessi). Eppure non è assolutamente un caso che Ciudad sin sueño, ben più stratificato nel suo titolo spagnolo in cui la città può essere sia senza sonno che senza sogni rispetto a quello internazionale che lo traduce semplicemente come Sleepless City, si apra proprio su uno dei video filtrati a cambiarne radicalmente i colori con cui, in giro con l’amichetto Bilal, fra selfie e soggettive al cellulare il giovanissimo Toni cerca ripetutamente un modo nuovo di guardare il mondo. Una vera e propria urgenza espressiva, ben al di là dell’effetto da qualche parte fra il negativo e la fiaba di un prato rosa su cui correre o magari di vedersi in qualche modo alieno con la pelle verde, con cui il quindicenne ragazzo rom protagonista dell’interessante lungometraggio d’esordio dello spagnolo Guillermo Galoe che trova la sua prima mondiale alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2025, nel suo passaggio all’età adulta, non può prescindere dal formarsi di uno sguardo personale e ancora colpito dal senso di meraviglia, attraverso il quale ricalibrare la propria percezione ancora ingenua della realtà, attraverso il quale allargare i propri orizzonti, attraverso il quale finalmente crescere fino a sviluppare definitivamente la propria identità. Attraverso il quale giungere inevitabilmente al crollo delle certezze e poi a una nuova presa di coscienza, alla disillusione, e magari a una ribellione che vorrebbe modificare la realtà proprio come lo fanno quelle variazioni innaturali di tinta in cui fingere di essere qualcun altro e giocare apertamente al cinema ma soprattutto con le quali guardarsi intorno, filmando il levriero a caccia di lepri oppure documentando con colori impossibili i bulldozer che come dinosauri letteralmente si mangiano i palazzi irregolari da cui Toni e la sua famiglia, abitanti di quella Cañada Real principale baraccopoli d’Europa alla periferia di Madrid nota come supermercato di droga, ferro e rame così come per le tragiche condizioni di vita, hanno appena ricevuto lo sfratto. Una zona ben precisa e peculiare di povertà e macerie in cui Guillermo Galoe, con uno sguardo più che evidente al cinema e soprattutto al metodo di Jonas Carpignano, immagina e innesta un coming of age neorelista in cui fare interpretare ai veri abitanti non professionisti dell’insediamento una versione romanzata di se stessi, attraverso la quale ricostruire un intero microcosmo di clan familiari, di bambini che scorrazzano in quad fra una sigaretta e l’altra e di commerci non necessariamente legali, ma soprattutto di orgoglio, di appartenenza, di un’identità culturale che è più forte del malcelato razzismo della città, è più forte delle difficoltà quotidiane, è più forte dello squallore.

È per questo che sembra quasi esserci un qualcosa di pasoliniano, e senza dubbio ci sono i Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, nella comunità (letteralmente) in distruzione ed eticamente complessa di Cañada Real. Una comunità di rom e di arabi emarginata e marginale quanto straordinariamente libera e unita, sostanziale famiglia allargata fatta di nonni padri-padroni da idolatrare (salvo poi magari rendersi conto della loro cocciutaggine e di come non gli importino i sentimenti e le volontà degli altri ma solo il proprio tornaconto) ma anche di nuclei amici con cui mangiare insieme carne halal e poi ritrovarsi insieme nelle strade. Una comunità fatta di discariche da depredare e di campi sterminati in cui «ascoltare il vento», magari contrapposti alla vista sui palazzoni-formicaio delle case popolari/ghetto per poveri con cui lo Stato vuole sì dare loro acqua corrente, luce e una camera da letto a testa, ma anche inevitabilmente dividere quella collettività troppo intimamente anarchica per i gusti del potere, sparpagliandola per la città. Galoe, nel dipingerla fra sigarette vendute sciolte al bancone del bar, calciobalilla, giochi di bambini, iguane da catturare, nuvole di svapo, debiti di riconoscenza e commerci intrecciati di sostanze e metalli che ne legano tutti i vari componenti, non si stacca mai dalle prospettive in mutamento del giovane protagonista, dal suo scoramento d’impotenza quando il nonno che rifiuta di spostarsi dal quartiere di cui è patriarca deciderà di vendere quel levriero che possedevano insieme per comprare un ulteriore pezzo di terra, dal suo senso di smarrimento quando il migliore amico gli comunicherà la decisione della sua famiglia di trasferirsi sulla costa francese, e poi dalla reciproca attrazione con quella ragazzina figlia della locale spacciatrice/ricettatrice che entrambi tentano di dissimulare ma che è invece evidente a chiunque li guardi. Tanto che sarà proprio lei a decidere inaspettatamente di restituirgli quel cane che Toni non aveva mai smesso di volere con sé, aprendo alla sua (pur breve) fuga e a quell’ennesima sua ripresa realizzata con il cellulare nel buio rischiarato solo dal collare luminoso, prima che la vita faccia necessariamente il suo corso e che, dopo un abbraccio al nonno, non gli resti che abbandonare quella comunità-famiglia per aprirsi definitivamente a un futuro ancora tutto da scrivere, ma senza mai dimenticare di guardare all’indietro verso quella baraccopoli polverosa e verso la sua fauna umana discriminata e orgogliosissima come un piccolo popolo. Una traiettoria costellata di tappe e di confronti dialettici (magari in campo lungo ai due lati di un corridoio) che progressivamente svelano ai suoi occhi dettagli sempre nuovi della complessità e della durezza dell’esistenza, e con cui il regista iberico fra piglio antropologico e più d’una intuizione formale che espande l’interiorità del ragazzo nel linguaggio cinematografico, ma soprattutto con la vicinanza evidente di rapporti umani che vanno ben oltre le settimane di riprese ma che partono invece da anni di conoscenza e condivisione, esordisce con un film piccolo e dignitosissimo, magari non straordinario ma ben al di sopra della media delle opere prime non solo spagnole. Un film con cui lavorare sull’adolescenza ma soprattutto sullo spazio e sul tempo, sulla sincerità di persone “vere” che accettano di mettersi in gioco, su una rivendicazione culturale che non può che essere necessariamente una presa di posizione politica. Su un’immagine da alterare, da manipolare e da rendere puro segno completamente nuovo, attraverso il quale, ancora una volta, re-imparare a guardare il mondo.

Marco Romagna

“Ciudad Sin Sueño” (2025)
N/A | Spain
Regista Guillermo García López
Sceneggiatori Guillermo García López, Victor Alonso-Berbel
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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