16 Maggio 2025 -

EDDINGTON (2025)
di Ari Aster

Come un Icaro che si avvicina troppo al sole, Ari Aster sposta in avanti le ambizioni nella sua ancor giovane carriera da regista senza apparentemente avere le capacità, specie in scrittura, per sostenerle appieno. Accolto all’interno del Concorso principale del Festival di Cannes 2025, e quindi nella Champions League dell’arte cinematografica da dove è difficile essere scacciati a meno di tonfi clamorosi (però può succedere: vedere, per motivi opposti, i casi di Abdellatif Kechiche e David Robert Mitchell), il Nostro sembra ormai vergognarsi di fare soltanto degli horror, seppure “elevated”, e ormai definitivamente (?) abbandonata quella paura dagli echi bergmaniani dei suoi primi due straordinari film sceglie invece come tutti i grandi autori americani di ieri e di oggi (Scorsese-De Niro/DiCaprio, P. T. Anderson-D. D. Lewis e si potrebbe continuare a lungo) il suo attore feticcio, identificandolo in Joaquin Phoenix, per affidargli veri e propri tour de force interpretativi in cui lo piazza per la gran parte del minutaggio al centro della scena. Anche in Eddington, come già nel precedente pastiche postmoderno Beau ha paura, Phoenix cannibalizza il film, e il suo Joe Cross ci fa tornare alla mente quello che disse Paul Schrader, come spesso gli succede in maniera acida e un po’ impietosa, del personaggio di Leonardo DiCaprio in Killers of the Flower Moon, ultima fatica dell’amico Scorsese: «Non si possono passare più di tre ore in compagnia di uno così imbecille». Gli imbecilli in realtà, nel piccolo paesino immaginario del New Mexico che dona il titolo al film e per traslato negli interi Stati Uniti, sono tanti, troppi, tutti, per l’ipernichilista Aster. Che prende in prestito il cognome dell’astrofisico Arthur Stanley Eddington, che concettualizzò il celebre “limite”, la luminosità massima che può avere una stella senza cominciare a perdere gli strati più alti della propria atmosfera; nella cittadina Eddington basta l’arrivo, nei primi minuti del film, di uno squilibrato sbiascicone per rompere tutti i fragili equilibri e far deflagrare ogni cosa. L’Eddington scienziato, tra l’altro, era anche autore del celeberrimo postulato «Se un esercito di scimmie battesse per un tempo sufficiente sui tasti di macchine per scrivere, produrrebbe prima o poi tutti i libri del British Museum». Si può chiosare, con un filino di cattiveria, che la sceneggiatura sarebbe potuta risultare davvero ficcante e satirica come nelle intenzioni, con una ventina abbondante di riscritture… Guardando a tutti i “neo” possibili e immaginabili del cinema americano contemporaneo (neo-western, neo-noir, neo-postmoderno e si potrebbe continuare), Aster imbastisce una ronde demente e sfrenata che stenta terribilmente ad ingranare, e anche quando, nella seconda parte, il ritmo sopperisce parzialmente alla mancanza di un vero centro narrativo le cose non migliorano nella misura tale da giustificare il posto nella kermesse cannense. L’anno scorso era Megalopolis di Francis Ford Coppola ad occupare lo stesso slot produttivo e tematico all’interno del Concorso: qualunque cosa si possa pensare del fluviale film del regista italoamericano, la differenza con l’epopea asteriana risulta netta ed impietosa. E non parliamo della mera qualità filmica, ma anche di un ulteriore livello concettuale: ci vuole una grande maturità artistica e culturale per affrontare l’improbo compito, l’assumere un ruolo che non si è all’altezza di rivestire ci porta proprio dalle parti di quell’amministrazione statunitense attuale messa (anche se lateralmente e senza mai nominarla in maniera diretta) alla berlina nel film. Ma su questo torneremo in chiusura, perché anche a noi piace contraddirci motivando minuziosamente i motivi per cui lo facciamo.

Cos’è, dunque, Eddington? Come già anticipato poco sopra, un piccolo paesino della profonda provincia americana, con un sindaco apparentemente progressista ma in realtà cinico e arrivista, il Ted Garcia interpretato da Pedro Pascal, e uno sceriffo sempliciotto (Joaquin Phoenix) maritato con una bellissima ragazza (Emma Stone in un ruolo minore) e madre di lei al seguito, che abita sotto lo stesso tetto. Siamo nel maggio del 2020, e il mondo intero è scosso dall’avvento della pandemia da Covid, che da un paio di mesi ha serrato in casa, una dopo l’altra, la maggior parte degli abitanti della nazioni mondiali. Un po’ come nel Sud della nostra penisola nelle prime fasi, a Eddington non ci sono ancora casi acclarati ma le regole valgono per tutti, a partire dalle mascherine da indossare negli spazi chiusi e in prossimità delle altre persone. Lo sceriffo Cross non vuole farlo, non ne capisce il motivo, vuole amministrare la legge senza essere per forza costretto ad osservarla: già da questi pochi cenni possiamo agevolmente comprendere la funzione del ruolo e chi prende a bersaglio. La contrapposizione con il sindaco cresce fino ad arrivare allo scontro totale: Cross si candiderà alle prossime elezioni, e basterà questo per catalizzare violentemente le parti, con i cittadini che assumeranno posizioni radicali su tutte le istanze che giungono “dall’esterno”, dal Black Lives Matter, agli antifa e alla causa del suprematismo bianco trascolorata nei MAGA e in tutta la galassia neo-con (ecco un neo ulteriore, forse il più importante). Come se fossimo in un film dei fratelli Coen senza l’intelligenza sopraffina di Joel e Ethan nel tratteggiare personaggi in balìa completa di eventi più grandi di loro, o in un libro di Pynchon privo della lucidità solo apparentemente caciarona di Pynchon, tutto deflagra in un turbine che non tralascia nessuno e dove non si fanno differenze tra i vari gruppi, tutti parimenti in perenne e acefalo movimento, compreso il regista/sceneggiatore, che sfiora più volte la semplificazione qualunquista. Un evento d’inaspettata violenza, proveniente dal fuoricampo, dà il via alla caccia all’uomo, al tutti contro tutti; Joe Cross si tramuta nel protagonista di un Grand Theft Auto o di un Call of Duty  qualsiasi, e come un novello Rambo reduce da nulla se non dalla guerra dell’informazione fasulla che tutti incondizionatamente stiamo perdendo cerca di difendersi attaccando. Nell’ultima, convulsa, parte anche la camera di Aster afferma chiaramente quello che prima era solo accennato e diventa puramente videoludica, attraversandone tutte le forme della storia recente (inquadrature fisse, visuale in terza persona a seguire e/o a precedere, soggettiva) in un massacro (che vorrebbe anche essere) slapstick che ricalca, tanto per non farsi mancare nulla, anche echi del cinema testosteronico e muscolare anni Ottanta alla Commando. Questa, è bene dirlo con chiarezza, è la parte più riuscita dell’opera, quella in cui finalmente forma e contenuto arrivano quasi a coincidere, e ci viene da rimpiangere l’ora centrale interminabile e sotto Lexotan, quando si disseminano tracce di mistery, specie nella colonna sonora di Daniel Pemberton, ottenendo solo noia mortale.

Riconosciamo ad Aster di aver trattato il Covid nel cinema mainstream in un modo ancora inedito (siamo, finalmente, pronti? Il pubblico accetterà di rievocare il trauma senza rifiutarlo?), ma anche questa traccia tematica viene abbandonata presto in favore di…non si capisce bene cosa. Se l’intenzione era quella di una ricognizione sullo stato dell’arte della società americana di questi folli anni Venti, e indubbiamente lo era, il film non fa altro che confermare l’indeterminatezza senza offrire una lettura o una possibile soluzione che sia una. E qui, però, torniamo alla questione del cimento, alla contraddizione di cui si faceva cenno qualche riga fa: ben venga chi ci prova, anche in caso di plateale fallimento. La difficoltà di lettura di un presente multistrato e multiforma sta portando molti grandi autori un po’ in là con gli anni a confinarsi nell’arcadia del passato, in quel Novecento da tutti amato ma che sarebbe ora, dopo venticinque anni, di seppellire definitivamente per farlo diventare quello che indubbiamente merita, Storia con la S maiuscola. Va benissimo rievocare la California degli anni Sessanta e Settanta, la seconda metà dell’Ottocento, l’Inghilterra vittoriana e via discorrendo, ma abbiamo disperatamente bisogno di artisti che ci aiutino a leggere e comprendere l’oggi, senza metaforizzarlo e nasconderlo in epoche altre. Serve soprattutto al pubblico, lasciato solo in una marea di segni a raccontarsi la propria microstoria personale da social, parziale, insignificante e narcisista. Ed ecco perché vedete il semaforo giallo ad inizio pezzo, senza l’apparire del rosso che avrebbe potuto/dovuto quantomeno fargli compagnia: noi vogliamo che ci si provi a buttarsi in questo magma per cercare di tirar fuori qualcosa, e apprezziamo filosoficamente anche i tentativi andati a vuoto. Questo per quanto riguarda l’aspetto narrativo/contenutistico, perché sul piano della forma la camera videoludicheggiante di Aster sa dove posizionarsi, ha ben chiaro il come almeno quanto appare confuso sul cosa. In questo si sposa perfettamente con la sua casa di produzione, quell’A24 che rischia di fare la fine del Sundance film Festival diretto da Robert Redford. Entità nate in opposizione ai linguaggi imperanti, trasformatesi dopo qualche anno in portatrici di una maniera normalizzante che in definitiva è molto più irritante che feconda.

Donato D’Elia

“Eddington” (2025)
Comedy, Drama, Western | United States / Finland
Regista Ari Aster
Sceneggiatori Ari Aster
Attori principali Joaquin Phoenix, Pedro Pascal, Emma Stone
IMDb Rating N/A

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