Sembra non cercare nemmeno più quella componente emotiva che strabordava dalla semplicità solo apparente dei suoi meravigliosi Wendy and Lucy e First Cow, il cinema di Kelly Reichardt. Una nuova fase, decisamente più fredda e anzi per molti versi spietata nelle sue feroci posizioni antiborghesi, che la cineasta statunitense a ben vedere aveva già inaugurato già con il precedente (e invero, da grandi sostenitori del suo “vecchio” cinema fra le lande polverose di Meek’s Cutoff e gli attentati fluviali di Night Moves, già deludente) Showing Up, e che continua a lasciare inaspettatamente perplessi di fronte questo The Mastermind presentato in prima mondiale come ultimo film del concorso principale del 78esimo Festival di Cannes. Un lavoro spiazzante, depistante, ambientato non certo a caso nel 1970 delle politiche aggressive e corrotte di Nixon nelle quali inevitabilmente veder riverberare l’inizio di quel percorso (anti)sociale che porterà l’America al trumpismo mentre la piccola borghesia egoista del Massachussetts guardava alle sempre più accese proteste pacifiste degli hippie contro il conflitto in Vietnam con la stessa aria di superiorità con cui si guardano le scimmie allo zoo, che parte come una divertente dark comedy nerissima e improbabile con cui ribaltare fino all’aperto ridicolo gli stilemi dell’heist movie, con il furto lentissimo, senza un reale piano e manifestamente poco credibile di quattro quadri (non a caso orribili) dal locale museo d’arte contemporanea, per poi fare improvvisamente e inevitabilmente precipitare la situazione e virare nel (fin troppo, ed è qui il problema) puro indie di un road movie di fuga e smascheramenti nel quale invece non ci sarà più alcuno spazio per l’ironia, ma solo per un progressivo procedere sempre più verso il baratro morale del suo protagonista, verso l’ingiustificabilità sempre più evidente dei suoi gesti e delle sue dissimulazioni, e infine verso quel castigo meritato e sacrosanto ma che arriverà solo per il motivo sbagliato, per un errore di valutazione della polizia, per l’ennesimo fraintendimento di una società superficiale e sempre più incapace di stratificazione che si ferma alle apparenze senza nemmeno sapere più riconoscere un volto pubblicato su tutti i giornali. Un finale sì chirurgico, politicissimo, beffardamente crudele nel farlo portare via proprio insieme a quei manifestanti hippie che tanto evidentemente disprezza, eppure proprio per questo necessariamente glaciale; un finale che chiude sì all’angolo l’individualismo irresponsabile del protagonista e con lui quello dell’America tutta, ma che proprio per questo in fin dei conti finisce per fare rimpiangere i tempi in cui lo stesso nitore nella visione politica e sociale di Kelly Reichardt passava attraverso i sentimenti, la dolcezza, il dolore, l’umanità, l’amore nonostante tutto.
Del resto anche il (volutamente) sempre più disprezzabile JB Mooney a cui presta il proprio corpo e il proprio volto Josh O’Connor, nella sua progressiva caduta da mastermind di un piano non a caso fallimentare fino a squallido rapinatore della pensione di una vecchietta, e poi non-manifestante in arresto per errore, è artefice ma in qualche modo anche vittima della propria stessa arrogante e superficiale stupidità. Che lo porta a rifiutarsi di voler vedere la realtà, a tentare di dribblare ogni responsabilità, e infine a sentirsi necessariamente indifeso quando il mondo intorno a lui – o meglio, le donne intorno a lui, nel pieno del momento emancipatorio degli anni Settanta ben più sveglie, mature e dotate di senso pratico degli uomini che ancora si lasciano ammaliare dalla sua maschera – si renderà definitivamente conto della sua inettitudine e della sua desolazione umana, e gliele sbatterà in faccia senza più alcun filtro con il discorso chiaro di un’amica e con quel silenzio al telefono della moglie che dice più di qualsiasi parola. La rovina definitiva di un uomo immaturo, incosciente, scriteriato, codardo, del tutto irresponsabile nel momento in cui la moglie gli affiderà i figli piccoli e darà loro dei soldi con cui andare in giro da soli a riempirsi fino a stare male di cibo spazzatura pur di toglierseli per qualche ora dai piedi, e infine semplicemente sciocco e spocchioso nel rifiutare un rifugio sicuro in Canada pur di non scendere di classe sociale, nella sua convinzione di essere troppo furbo per non riuscire lo stesso in qualche modo a farla franca facendo avanti e indietro fra le lande d’America. Un uomo vigliacco nel nascondere nella borsa dell’inconsapevole moglie il soldatino rubato dalla collezione del museo e superbo nell’organizzare un non-piano, dalla cui esecuzione materiale non certo per caso sarebbe voluto rimanere fuori salvo poi ritrovarsi obbligatoriamente a dover guidare la macchina già in moto di fronte al portone, che non potrà che andare sin da subito male fra banalità, errori e sottovalutazioni, compreso l’aperto demenziale del portabagagli a finestrino della giardinetta usata per il colpo, o la caduta della scala quando nasconderà i dipinti nel sottotetto del porcile e non saprà più come scendere. Non per nulla è un architetto che, a dispetto dell’intelligenza e della creatività che dovrebbero essere intrinseche del suo mestiere, non riesce a trovare alcuna commissione, e che nel tentativo di arrangiarsi procede sempre più miseramente fra aperte menzogne e piccole truffe familiari con cui millantare lavori dietro l’angolo per scroccare segretamente l’ennesimo assegno «in prestito, come anticipo» a sua madre che più per affetto che per reali speranze sembra essere rimasta l’unica che ancora vuole provare a credere alle sue promesse, mentre puntualmente sbaglia ogni singola mossa peggiorando ogni volta la propria situazione economica, sociale, familiare e perfino emotiva, allontanato da chiunque, madre moglie e amici di una vita compresi, non possa più fare a meno di vederlo per come realmente è al di sotto della sua coltre di bugie, mentre i suoi grandi colpi degraderanno fino ai furtarelli e agli scippi di strada, e poi alle sbarre. Ed è paradossalmente proprio qui che, ben al di là del brillante gioco di Kelly Reichardt con il sabotaggio dei generi cinematografici e nell’innegabile eleganza dei suoi quadri fissi in 35mm, The Mastermind finisce per scoprire il suo fianco alla freddezza, all’anaffettività, a una volontà di giudicare e disprezzare anziché innamorarsi dei propri personaggi anche quando ambigui. Una scelta morale, prima ancora che cinematografica, che nell’inevitabile ripresentarsi alla mente di Michelle Williams in Wendy and Lucy o con le altre in Certein women, e poi ancora di quell’eterno tenersi mano nella mano degli scheletri innamorati dei fattori di First cow, non ci si sarebbe forse mai aspettati dall’autrice statunitense, e che al momento dei titoli di coda lascia in bocca il retrogusto amaro di un cinema tanto amato che ha deciso di cambiare strada, e che pur nel suo talento sempre evidente nella scrittura e nella messa in scena, così come nella condivisibilità delle sue mai banali letture politiche dall’interno dell’America più chiusa, arretrata e rurale, finisce amaramente per interessarci, farci riflettere, magari a tratti affascinarci e pure divertirci, ma in sostanza non “piacerci” più. Purtroppo.
Marco Romagna