20 Maggio 2025 -

THE LOVE THAT REMAINS (2025)
di Hlynur Pálmason

Il cinema, specie quello che ambisce ad essere autoriale, è tutto una questione di come, più che di cosa: l’argomento e le tematiche trattate contano il giusto, la partita si gioca sul campo della messa in scena, del montaggio, della selezione di materiali eterogenei e non, delle scelte stilistiche. Un assunto persino scontato e banale ma da ribadire con forza per l’ultima fatica di Hlynur Pálmason, talentuoso quarantenne islandese che con l’opera precedente Vanskabte Land/Volaða Land (uscita in Italia, perdendo le stratificazioni intrinseche della doppia lingua di una colonia, come Godland – Nella terra di Dio) si era imposto definitivamente all’attenzione di pubblico e – comprensibilmente in misura ancora maggiore – di critica. Già sulla Croisette per le opere precedenti, dunque, viene selezionato anche per il 2025, seppure in una Cannes Première che lo esclude da un Concorso che molto probabilmente avrebbe meritato, con la nuova fatica The Love That Remains, analisi spietata di un amore andato in pezzi e delle macerie susseguenti, tra figli spaesati e nuova ricomposizione di spazi e vita. Un assunto basico e raccontato milioni di volte in qualunque forma d’arte e media, ma che Pálmason riesce a rinfrescare grazie ad una modalità rappresentativa composita e multiforme, che inserisce i protagonisti nell’ancestrale paesaggio islandese senza che questi riescano a prevaricarlo, a relegarlo a sfondo e secondo piano. Dettagli materici, incursioni di realismo magico, industrial e land art, vertiginose inquadrature del Mare del Nord solcato da pescherecci, tutto concorre alla composizione di un ritratto insieme contemporaneo e ancestrale, dove l’Umano e le sue piccole/grandi vicissitudini è solo una parte del tutto, in balìa delle stagioni, sovrastato dalla tecnica e parimenti capace di utilizzarla per gli scopi più vari, anche quelli artistici. Un’artista è Anna (Saga Garoarsdottir), ex moglie di Magnus (Sverrir Gudnason, già Borg in Borg McEnroe di Janus Metz), che invece lavora sui pescherecci. Diversissimi già nelle mansioni, nella sequenza iniziale appaiono felici in un pranzo all’aperto, con figli e genitori di lei intorno ad una tavola imbandita: apparentemente una famiglia unita e felice, ma l’idillio dura poco e Magnus prende presto auto e direzione contraria, rendendoci partecipi della dissoluzione del rapporto avvenuta. Tutta la prima parte ci mostra i due ex coniugi alle prese con una quotidianità che non lascia troppo tempo e respiro: Anna è un’artista del riuso e del riciclo, dipinge con la ruggine, con pezzi di metallo lasciati ad ossidare su superfici di vario genere, si fa aiutare da padre e fratello ad allestire uno spazio espositivo “en plein air” su un’altura a strapiombo sul mare, paga a sue spese il viaggio ad un critico d’arte insopportabilmente logorroico che dopo sproloqui sull’importanza di bere cinque bicchieri di vino al giorno si congeda con non più di una pacca sulla spalla. Per Magnus, invece, il duro lavoro manuale è una distrazione che fa quasi da training autogeno, è lui quello ancora innamorato (o forse, come tanti uomini, semplicemente refrattario all’idea del cambiamento), difficile da allontanare ogni volta che passa da casa per salutare i tre pargoli ormai cresciuti.

Pálmason innerva la quotidianità dei suoi protagonisti con immagini e inquadrature in 4/3 ammalianti, mesmerizzanti, tese ad immergere lo spettatore nel contesto ancor prima e ancor più che con la mera successione degli eventi: ralenty significanti e gestiti con cura, particolari d’ingranaggi intenti a bucare e tagliare, il cambio delle stagioni gestito con un leit-motiv visivo, un’opera scultorea che si compone pezzo dopo pezzo, tra il verde dei prati, la neve soffice e le stalattiti di ghiaccio. A piccole dosi, con naturalezza, delle componenti di realismo magico arrivano ad incrinare ogni certezza, a scompaginare le percezioni, a trasportare lo spettatore dall’altra parte dello specchio carroliano. La visione in Tv de Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, classico senza tempo del fantastico, fruito da Magnus nel dormiveglia sul divano, è la scaturigine di proiezioni mentali che, come nei migliori esempi di cinema surrealista, compenetrano il quotidiano senza particolari scarti visivi, in totale continuità. Una continuità che può prevedere bambini infilzati da frecce, piccoli biplani che cascano dal cielo nel disinteresse generale, la scultura sopranominata che si trasforma in una sorta di palombaro, e che si aggira in un mondo sottomarino apertamente finzionale, come fosse un gigantesco acquario. La bravura del cineasta islandese è tutta nell’uniformare, come già detto, tutti questi spunti in una modalità espositiva vicina al diario di un’adolescente (e forse, tutto sommato, di quello si tratta, di una proiezione mentale della primogenita alle soglie della maggiore età) e quindi coerente nella sua ingenuità, comunque solo apparente. Se si guarda il tutto con questa traccia interpretativa, gli “indizi” si moltiplicano: la vendetta del gallinaceo ucciso da Magnus, che non anticipiamo naturalmente nei particolari, ne rappresenta l’acme, visto il dolore che questo gesto causa alla spaesata prole. Dall’altra parte Anna prova a ricostruire un’esistenza proiettandosi verso il futuro (mentre Magnus, appunto, a partire dal classico degli anni Cinquanta che guarda è prigioniero del passato), ma la bellissima idea dell’esposizione all’aperto viene sabotata dalla natura stessa, riceve profferte da parte di conoscenti pronti a subentrare al marito e probabilmente solo alla ricerca di facili avventure, non si abbatte mai ma la vita è dura, le soddisfazioni rare, la dissipazione del talento dietro l’angolo. Da questo occhio sui rapporti umani si può estrarre una visione da parte di Pálmason sostanzialmente conservatrice, tesa a ribadire le problematiche della rottura dello status quo, uno di quegli artisti che potremmo superficialmente definire “di destra”, di cui avrebbe bisogno il nostro Ministro della Cultura Giuli per additare almeno un esempio anche in territorio nazionale (forse lo è Paolo Sorrentino, ma il suo understatement insistito porta a non identificarsi apertamente o forse a non esserne nemmeno totalmente consapevole ? Che si apra il dibattito). Di sicuro l’insistita immagine finale, che ci accompagna durante i titoli di coda, intrisa di eterea malinconia, non può che venire interpretata come una dichiarazione d’intenti o quantomeno di posizionamento da una parte. Che ci s’intenda: BEN VENGANO grandi artisti con ogni visione politica ed esistenziale, il discorso pubblico e critico ne ha bisogno proprio per presentare più punti di vista, più lati da cui posizionarsi e osservare, per respingere pelose accuse di appartenenze preconcette. Di sicuro c’è che un grande film come questo deve essere visto il più possibile, e se qualcuno s’inquieta e contesta ancora meglio; di nostro possiamo solo ribadire il piacere puro scatenato da questa visione, con la conferma di un artista che non vediamo l’ora di seguire ancora da presso con i prossimi progetti.

Donato D’Elia

“The Love That Remains” (2025)
Drama | Iceland
Regista Hlynur Pálmason
Sceneggiatori Hlynur Pálmason
Attori principali Ingvar Sigurdsson, Sverrir Gudnason, Anders Mossling
IMDb Rating N/A

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