Sarebbe forse sufficiente il momento in cui la piccola Alma, dopo essersi vista morta nella foto di famiglia con quella sorella pressoché identica a lei andata via alla sua età pochi anni prima, ne indossa il vestito nero e si siede sulla stessa panca e nella stessa posizione dello scatto. Come se in qualche modo cercasse, poco dopo averne scoperto l’esistenza, di vivere la morte, di penetrarne la coltre di oscurità per comprendere in profondità il momento del trapasso, del distacco, del destino, e le tracce che inevitabilmente rimarranno nella memoria e nei sentimenti di chi è ancora vivo. Forse il momento più intenso e intimamente complesso di Sound of falling, interessante opera seconda della regista tedesca Mascha Schilinski magari un po’ slabbrata e non del tutto coesa specialmente nel momento in cui dovrebbe tirare le fila ma senza dubbio straordinariamente ambiziosa e indiscutibilmente affascinante nel suo continuo lambire l’inafferrabile, che con espliciti sospiri a Bergman (appunto il nome di Alma che non può che riportare a Persona, mentre la biondissima Hanna Heckt che la interpreta nella sua somiglianza con la Pernilla Allwin dell’82 sembra quasi una nuova declinazione della Fanny di Fanny e Alexander) e a Robert Bresson (il sogno in cui rotolare verso il fiume come in Mouchette), ma pure con il riecheggiare nelle immagini degli sguardi e delle narrazioni di Tarkovskij, di Dreyer, di Fassbinder, di de Oliveira, di Antonioni ed evidentemente di Edgar Reitz, mette in scena una sorta di personale Heimat in cui quattro generazioni di donne intersecano le loro traiettorie e le loro differenti età in un unico luogo, una fattoria in Sassonia, lungo più di un secolo di Storia che accanto a loro cambia ed evolve il mondo e la Germania, mentre i destini, i disagi, i dubbi, le fascinazioni e i misteri della vita della morte e dell’oblio, ma per molti versi anche la condizione femminile, sono in sostanza sempre gli stessi, condivisi fra un decennio e l’altro, speculari e complementari lungo lo scorrere del tempo. Un tempo in cui Sound of falling, un po’ come il recente Here di Zemeckis ma ricercando una radicalità propria e completamente diversa, viaggia liberamente avanti e indietro attraverso il prisma di un’assoluta unità di luogo che, fra le stanze della magione e le acque putride del fiume, traghetterà il Paese dalla Prussia al Muro e infine al moderno Stato teutonico unito, affidandosi appunto alla bambina Alma, ma anche all’adolescente Lenka e al timido affacciarsi verso l’età adulta delle adolescenti Erika e Angelika, spartite fra i primissimi vagiti del Novecento e la contemporaneità di oggi passando per gli anni Venti e per la fine dei Settanta in un intreccio esiziale e rigorosamente non lineare, che rifiuta categoricamente ogni prassi narrativa e ogni consequenzialità tematica preferendo invece lavorare di parallelismi arditi e suggestioni, di movimenti e sfocature, di dettagli dei corpi ora sani e (da) ora immobilizzati nel letto, di sguardi in soggettiva attraverso il buco della serratura, di battute a nascondino in cui non riuscire a scendere da un albero mentre nessuno da sotto si accorge della presenza della bambina che grida disperata dai rami. Ma pure di istanti ai limiti dell’insostenibile come la cucitura per tenere aperto l’occhio di una sorella da immortalare nell’ennesima foto di famiglia post-mortem, e di differenti grane che anche all’interno della stessa scena si alternano fra la fisicità della pellicola, l’illusione di miopia del passo ridotto e la pulizia sgargiante del digitale.
Forse il suono di Sound of falling è proprio quella caduta del fratello di Alma spinto dai genitori per non mandarlo in guerra, o forse per punizione, giù dal secondo piano del fienile sotto gli occhi che vedono troppo della piccola, nella menzogna di un «incidente sul lavoro» da ripetere ossessivamente fino a svuotarlo di significato. Il suono sordo di corpo immobilizzato nel suo costante bilico fra la vita e la morte, mutilato e in disfacimento ma non per questo meno desiderabile (o forse è solo compassione) negli anni e nelle donne successive che si alterneranno al suo capezzale, ma soprattutto il continuo e inevitabile lamento di dolore dell’ennesima figura ancora viva eppure evanescente di un film di fantasmi, di atavica angoscia, di fine costantemente incombente. O forse il suono della caduta è semplicemente il senso di vuoto a cui inevitabilmente abbandonarsi, ieri come oggi, fra pensieri suicidi (il granaio, la trebbiatrice, il fiume in cui semplicemente scomparire…) e sofferenze, fra ricordi condivisi che non possono che essere dolorosi e brucianti affioramenti di uno smarrimento inconscio e irrazionale ma con il quale è impossibile prima o poi non ritrovarsi a fare i conti. Come in un mosaico di impressioni inspiegabili e misteriose, frammentario e complesso nei suoi singoli tasselli di padri ambigui, madri evanescenti, sepolcri da chiudere con o senza lacrime e sorelle con cui (non riuscire a) confrontarsi, orgogliosamente inorganico quanto innegabilmente seducente nella sua visione d’insieme e nel suo utilizzo claustrofobico e disorientante dei quattro terzi, dei pianosequenza a mano, delle soggettive che si rivelano oggettive o forse soggettive-altre di una regista e di una macchina da presa che non possono a loro volta essere personaggio, che si specchia e si riconosce (o magari come Alma si vede morta davanti all’inquietante figura strisciata e spettrale della madre) nelle insicurezze e nelle amarezze delle infinite se stesse passate. A costo, come anticipato, di finire forse per fidarsi eccessivamente della potenza e del fascino di immagini che, va detto, sono sì magnificamente perturbanti ma che durano sempre qualche istante più del necessario fino a stiracchiare il film in una durata eccessiva per ciò che ha da dire, e soprattutto di scegliere, proprio quando dopo più di due ore parrebbe essere giunto il momento di tirare le fila, di sfilacciare ancor di più la narrazione in un’ultima mezz’ora che nei suoi continui e rapidi passaggi temporali (quando necessario resi ancor più discontinui dalla compresenza impossibile ai margini delle inquadrature di figure proprie di altre epoche) si limita a continuare a suggerire una sorta di continuità emotiva fra le protagoniste, senza nemmeno cercare una reale conclusione concettuale ma semplicemente affidandosi alla sempre crescente astrazione, alla contraddittorietà dei sentimenti, all’intensità emotiva dei corpi e della messa in scena. Un limite intellettuale destinato a emergere sin troppo evidente nel film che, in concorso a Cannes 2025, porta per la prima volta Mascha Schilinski sulla Croisette, ma che se è più che legittimo che possa mettere qualche dubbio riguardo la sua effettiva riuscita non può in alcun modo scalfire l’interesse e il rispetto con cui meritano di essere guardati un lavoro che rimane coraggiosissimo nel suo orgoglioso non assomigliare assolutamente a nulla, così come il manifesto talento della cineasta che lo ha pensato e messo in scena nelle sue figure che si alternano spettrali come il movimento di un corpo in una vecchia fotografia. Un lavoro impossibile da ignorare per la sua capacità di mostrare l’invisibile del baratro, per la sua umanità straziata che nemmeno la cura certosina di ogni dettaglio può raffreddare, per il suo affrontare di petto la luttuosità intrinsecamente innestata nell’atto stesso, drammatico, di vivere. Per la sua capacità di attecchire e sedimentare per qualche giorno dopo la visione, mentre si allontana la sua non-trama, tornando più volte a ripresentarsi nella mente con le sue immagini e le sue suggestioni, con il suo navigare nella memoria di un luogo, con il suo ragionare sull’atto stesso di guardarsi e di ricordarsi. Per il suo disperato tentativo di scongiurare l’oblio guardandolo dritto negli occhi, e di gettare il cuore, gli occhi e la regia nel centro esatto di quel vortice.
Marco Romagna