Questa volta non ci sono più quei cliché del genere horror che il bianco e nero e la fabbrica di Altri cannibali inevitabilmente lambivano e ribaltavano in una commedia nerissima e kaurismakiana dagli evidenti sottotesti politici. E non ci sono nemmeno quelle atmosfere thriller della paura collettiva del Millennium Bug che i pochi minuti del corto Il compleanno di Enrico traslavano nell’aleggiare di un’inquietudine personale e familiare palpabile e allucinata ma soprattutto sospesa, indefinibile, inafferrabile; una tensione vibrante e visionaria lontanissima da ogni prassi cinematografica non solo italiana e proprio per questo così affascinante. Ci sono però ancora gli stessi perdenti, al centro del cinema prezioso e talentuosissimo del feltrino Francesco Sossai. Gli stessi personaggi colti nell’atto di sporgersi sul ciglio di un burrone, irrimediabilmente sopraffatti dalle difficoltà e dai blocchi dell’esistenza, dalla timidezza, dall’apatia, dal dolore della memoria, dall’incertezza del futuro. Dal cinismo e dalla cecità di una realtà e di una società che li sfruttano, li gettano via e poi anziché aiutarli a vivere dignitosamente li giudicano, in quel Veneto padano iperindustrializzato e malinconico, ma che quando necessario sa anche essere straordinariamente autoironico e beffardo, che perfino nei dipinti è come se non esistesse, ignorato e letteralmente cancellato per immaginare un paesaggio che passi direttamente dalle Dolomiti alla Laguna di Venezia tagliando via tutte Le città di pianura che stanno in mezzo. Del resto, «Rovigo non esiste» anche per gli stessi cinquantenni alcoolizzati e maldestri Carlobianchi e Doriano, inguaribili scrocconi disperati che insieme al giovane studente di architettura Giulio, conosciuto per caso e di fatto “rapito” un po’ come Trintignant ne Il Sorpasso fino a cambiare radicalmente – «Non c’è mai un’altra volta» – la sua visione della vita e la sua capacità di buttarsi, continueranno per una notte che ne durerà due più l’intero giorno in mezzo a vagare sbronzi con la loro auto fra Verona e Venezia, e poi per i paesini del bellunese, del trevigiano, del vicentino e del padovano alla costante ricerca di un bicchiere della staffa che non sarà mai l’ultimo. Come a sottolineare la natura anonima e costantemente abusata di territori non-luogo tutti uguali nelle loro villette e nell’eterna piattezza di un territorio privo di saliscendi, e la rimozione selettiva (anche e soprattutto dello Stato e di chi detiene il potere economico, che progetta una nuova e monumentale autostrada con cui non farsi alcun problema a devastarne anche le ville del Cinquecento pur di avvicinare ciò che sta ai loro confini) che porta a considerarli esclusivamente uno spazio da attraversare nel minor tempo possibile per recarsi da un luogo “importante” e turistico all’altro.
Una pianura veneta esplicitamente da guardarsi «come gli Stati Uniti», in cui Sossai, come si diceva lasciate questa volta da parte le sue variazioni sul tema del genere, innesta un road movie atipico e irresistibilmente spassoso, privo di una reale meta o per meglio dire fatto di continue mete fuori tempo massimo (il ristorante ormai chiuso da anni) oppure apertamente sbagliate (l’aeroporto di Treviso in cui aspettare un volo programmato invece su Venezia, o ancora la villa privata in cui, un po’ come nelle zingarate di Amici Miei, improvvisare da perfetti impostori sulla situazione e sulle tensioni omoerotiche fingendosi i periti professionisti attesi dal ricco proprietario, per scroccare anche a lui alcool e qualche soldo in attesa di dileguarsi prima che venga scoperto l’inganno). Ma soprattutto un film intelligente e stratificatissimo nelle sue speculazioni socio-geografiche e generazionali, che parte da luoghi, ricordi e riferimenti personali ben precisi del regista (quel Primo Sossai che potrebbe tranquillamente essergli parente, appartenente a quella generazione garantita e che ancora veniva premiata dagli industriali nel giorno prima della pensione con un discorso di ringraziamento e un Rolex che continua a portare al polso nonostante la pensione ormai da anni buttata via nei videopoker, mentre i suoi colleghi più giovani Carlobianchi e Doriano, con il loro amico Genio che dopo essere stato scoperto e averli protetti distruggendo le prove della loro complicità ha dovuto aspettare che il reato finisse in prescrizione per potere rientrare in Italia, nel loro passaggio attraverso la crisi del 2008 si sono dovuti inventare piccoli furti dalla catena di montaggio e stratagemmi molto meno legali per vivere, e il giovane Giulio napoletano in un Nord-Est che lo disprezza ancora più di loro non può aspirare a nessuna certezza, ma può solo cercare un punto di equilibrio fra l’introversione, la spigliatezza, l’identificazione in quei mentori che inizialmente non avrebbe voluto nemmeno seguire e che invece gli cambieranno la vita, il senso del dovere e la trasgressione, sperando di avere fortuna) per innestare nella fisicità analogica, ipersatura, contrastata e granulosa della pellicola la medesima fisicità analogica, rossa d’alcolemia e oramai segnata nel volto, nella nausea e nel corpo dei suoi protagonisti. Che si rifiutano di usare Google Maps ma preferiscono disegnare a mano cartine e percorsi che poi nemmeno loro stessi riescono a interpretare, che vivono della digitalità di un bicchiere e di un volante con cui girare fino a trovarne un altro, che ordinano un gelato al limone e lo ricevono al fiordilatte subito prima che comunque gli cada di mano, e che perfino nel momento di mettersi a scavare alla ricerca del vecchio bottino non potranno che ritrovarsi con un pugno di mosche, perché nulla di quel passato è stato risparmiato all’avanzare cieco di una modernità che continua imperterrita a distruggere e stuprare sin nella sua nuda terra un territorio (e un’umanità) su cui non nutre (più) alcun tipo di interesse paesaggistico né antropologico. Una disillusione per la quale non si può che cercare nell’alcool e nell’autodistruzione l’unico possibile rifugio dal male di vivere, dal sentore di inadeguatezza, da un mondo che sempre più sfacciatamente non prova nemmeno a capire ma preferisce emarginare, ignorare, relegare all’oblio o al massimo al nome di un Autogrill lungo una striscia d’asfalto.
Una contrapposizione fra vuoto (esistenziale) e pieno (d’alcool, di guai, ma pure di voglia di vivere nonostante tutto) che, a ben vedere, è la stessa immaginata nei volumi di cemento e negli spazi aperti della Tomba Brion, capolavoro di Carlo Scarpa già al centro in maniera completamente differente dei Mille Cipressi di Luca Ferri che Giulio chiede di visitare a chi nemmeno sa di che cosa si tratti, in un cimitero propriamente detto che a ben vedere non è poi così diverso dal sostanziale camposanto della quotidianità bruciata delLe città di pianura, quelle in cui il cibo può avere un’«utilità marginale» ma l’alcool no perché non può esistere sazietà di fronte a un bicchiere che, un po’ come le ultime sigarette del coscienzioso Zeno Cosini, è sempre «l’ultimo» del titolo internazionale The last one for the road e dell’identico titolo francese Le dernier pour la route con cui il film giunge al 78esimo Festival di Cannes nella selezione ufficiale di Un Certain Regard, ma non potrà mai essere davvero l’ultimo. È per questo che il Carlobianchi di Sergio Romano e il Doriano interpretato da un sorprendente Pierpaolo Capovilla già frontman della rock band alternative Il Teatro degli Orrori, nel secondo lungometraggio che segna finalmente la definitiva e meritatissima ‘promozione’ di Sossai alla Champions League festivaliera (l’esordio alla lunga distanza Altri cannibali era stato presentato alle Black Nights di Tallinn prima di esordire in Italia al TFF, mentre Il compleanno di Enrico era sì qui a Cannes ma fra i corti della Quinzaine), appaiono per la prima volta entrambi addormentati in macchina in attesa che scatti il semaforo. Vivi e vegeti, eppure in qualche modo apparentemente già morti nel loro autodistruttivo vagare ubriachi fra l’immaginaria e cimiteriale Cornio e le reali zone industriali della regione alla costante ricerca di una birra, di uno spritz, di un gin tonic, di un daiquiri, o forse semplicemente di un po’ di pace interiore fra le precipitose fughe dai posti di blocco per non perdere anche la seconda patente, «La Stefi» da sempre puttana di fiducia e nave-scuola da cui portare il giovane per farlo scoprire uomo, e una robusta dose di sarcasmo attraverso il quale sopravvivere. Francesco Sossai sceglie di metterli in scena nei frammenti del breve arco narrativo e nell’inevitabile riemergere delle loro memorie con stile ellittico e ricorrendo sovente alla macchina a mano, fra un effetto vertigo che blocca la finestra mentre il giardino sembra espandersi e un evidente sospiro alla tazza (al tempo gigante e messa direttamente vicina al volto di Ingrid Bergman, ora esistono altri obiettivi) di Notorious con un cocktail di gamberi al quale dare la colpa quando l’alcool ritorna irrimediabilmente su per l’esofago, ma soprattutto con una capacità rara di costruire fascinazioni cinematografiche praticamente con nulla, senza bisogno di budget particolarmente importanti o di chissà quali artifici ma semplicemente con la capacità di astrazione, con un ben preciso sguardo antropologico e autoriale, con lo specifico filmico del montaggio. Con l’intuizione lirica malinconica e dolcissima di un saluto inaspettatamente sincero ed affettuoso dalla macchina verso un treno in corsa. Con un talento purissimo, cristallino, evidente, sul quale era semplicemente ora che qualcuno, nelle produzioni italiane che fino a questo progetto co-finanziato da Vivo Film lo avevano sempre bellamente ignorato, così come nelle selezioni delle principali kermesse, aprisse finalmente gli occhi.
Marco Romagna