«Solo da un morto gli italiani accettano di essere contraddetti». Una frase, pronunciata da Valeria Golino/Goliarda Sapienza, che può riassumere l’intero atteggiamento italico verso una intellettuale osteggiata, ignorata, perfino maltrattata finché in vita. Non è la prima volta, non sarà l’ultima: la voglia di risarcire, di salire sul carro, di additare chiunque altro per una colpa collettiva ascrivibile all’élite intellettuale è un atteggiamento connaturato all’anima più profonda di questo Paese. Vanno esclusi da questo discorso, naturalmente, Valeria Golino e Mario Martone insieme alla fidata Ippolita Di Majo, che si sono occupati di portare sullo schermo di Tv e cinema prima l’adattamento della sua opera più celebre, L’arte della gioia, e ora una sorta di (non)biopic incentrato sulla sua figura, Fuori, selezionato per la competizione al Festival di Cannes 2025 e nelle sale italiane dal 22 di maggio. Iniziamo quindi dal titolo, “fuori” da cosa? Dalla prigione alla quale si è state condannate per un furto? Dalla propria mente? Dal soffocante e oscuro perbenismo di facciata di una società che, all’inizio degli anni Ottanta, è ancora pervicacemente e ostinatamente machista (e lo rimarrà per MOLTO tempo ancora)? Un po’ tutto questo e non solo, visto l’approccio con cui il duo Martone/Di Majo, in sceneggiatura, sceglie di tratteggiare la figura di Goliarda Sapienza interpretata da Valeria Golino, per chi non lo sapesse scrittrice, attrice, compagna di vita per lungo tempo di Citto Maselli e poi dell’attore Angelo Pellegrino, che si occupò personalmente di far pubblicare postuma, e in versione integrale, l’opera che riassume una vita L’arte della gioia. Tutte queste nozioni sono riassunte in un testo a schermo all’inizio dell’opera, per dare un contesto culturale e temporale alla visione, e poi immergere lo spettatore in una narrazione fortemente lacunosa, errabonda come le sue protagoniste (di cui parleremo tra poco), in continuo andirivieni, tra ritardi anticipazioni e corpi. Tenendo l’esperienza carceraria come un vero e proprio timone al quale ritornare per riapprocciare la giusta rotta, Martone imposta il film come una successione un filo sconnessa di incontri, distrazioni, tentativi di sbarcare il lunario ed evasioni da una routine che si è passati la vita intera a scansare. Due ex compagne di reclusione, Barbara (Elodie) e soprattutto Roberta (Matilda De Angelis), faranno da aiutanti proppiane al viaggio dell’eroina verso una meta più semplice o forse più irraggiungibile rispetto ai viaggi perigliosi delle fiabe popolari, quella di un barlume di serenità, di una definizione più precisa del proprio posto nel mondo, di una nuova ispirazione come missione, con uno sguardo in macchina che si interroga e ci interroga sul senso e persino sulla veridicità di quanto abbiamo appena visto durante le due ore circa di proiezione.
Martone, lui sì un intellettuale italico a 360 gradi, per status e non per posa, s’immerge in riferimenti esibiti e/o sotterranei al nostro migliore cinema novecentesco, ed ecco che Pier Paolo Pasolini e Renato Castellani (il suo Nella città l’inferno è l’ispirazione più palese e scoperta) si ripalesano come frammenti di un mosaico che ha in Anna Magnani il suo nume tutelare, rievocata in una «mamma Roma» tra le mura del carcere, fatta riabitare da una Golino che non sta mai ferma, con quelle atmosfere da carcere femminile che l’indimenticabile Egle del film di Castellani riusciva a padroneggiare per puro spirito di sopravvivenza, come tutte quelle donne (lo afferma la stessa Sapienza in un segmento documentario posto in esergo, un’intervista televisiva di Enzo Biagi) che approcciano meglio il carcere perché più abituate alla costrizione e al sopruso. «Le ore del nostro presente sono già leggenda», si legge da un murales sul ponte ferroviario che sovrasta Piazza di Porta Maggiore e Scalo San Lorenzo, e il regista napoletano compie il percorso inverso, prende le leggende per riposizionarle nel luogo dove erano nate, tra il popolo, istintivamente, completamente prive di tutti i costrutti agiografici inutilmente edificati negli anni successivi. Anna e Goliarda, o meglio Goliarda come una personificazione reale dei personaggi di Anna, e questo film che chiude il cerchio, di sicuro in maniera non definitiva ma lanciando la palla al futuro prossimo e ai giovani artisti di domani, e rende Goliarda eternamente viva sullo schermo. Le sequenze ambientate a Rebibbia (il film altro non è che un liberissimo adattamento da L’università di Rebibbia, il testo del 1983 che Goliarda Sapienza confezionò sulla sua esperienza carceraria) grondano di verità, le facce sono quelle giuste, i dialetti non sono forzati e tornano lingua del popolo come sono sempre stati, siamo lontanissimi dall’artificiosità che soffoca tanto cinema nostrano contemporaneo. Ma il film è “fuori”, almeno all’apparenza, e la sequenza più bella e struggente metaforizza attraverso le immagini il senso dell’intero progetto: Barbara ha aperto una gioielleria in borgata, arredata in maniera straniante e principesca, ma con squarci di muffa pronti a irrompere nell’idillico quadro per rovinare il sogno. Goliarda e Roberta vanno a trovarla e, a serranda chiusa, passano una serata/nottata insieme, libere ma prigioniere; dal negozio principale, dietro specchi e porte, si dipanano altri due ambienti, un bagno spoglio completo di doccia e un retrobottega con sbarre alle finestre. Il senso è chiaro, la reclusione tra compagne può rappresentare la vera libertà, si può sentirsi isolate dal mondo ma anche da esso protette, perché quelle sbarre anche a Rebibbia escludevano gli uomini, li tenevano fuori, favorivano la nascita di sorellanze impensabili i qualsiasi altro luogo. Impensabili perché in Italia, nel 1980, quando il Paese usciva dalla dura contrapposizione politica ma non era ancora entrato nell’evanescente bolla di ottimismo “berlusconiano” degli anni Ottanta, gli uomini erano forse più croce che delizia per le escluse dai rigidi canoni (finto)borghesi, o per chi, come Goliarda, ne era stata rigettata.
Non si può non fare menzione della straordinaria prova di Matilda De Angelis, delinquente abituale, tossica e attivista politica degli anni di Piombo in un senso molto più profondo di quello che era parso in un primo momento; una donna dura e fragile, semplicemente indimenticabile. Molto brava anche Elodie, in un ruolo più piccolo ma di grande incisività. Veleria Golino, invece, sembra sorvolare film e prestazione attoriale con nobile distanza, svampita il giusto per collocarsi a metà tra il ruolo interpretato e una Valeria Bruni Tedeschi (sua grande amica e vincitrice del David per la migliore attrice non protagonista proprio per L’arte della gioia quest’anno) più sanguignamente popolare. Martone si conferma un grande direttore di attrici e attori, da regista teatrale prima ancora che cinematografico quale è, oltre che sublime posizionatore di una macchina da presa che stringe i primi piani quando necessita (magnifico quello lunghissimo sulla metropolitana nel primo incontro tra le due protagoniste) e trova angolazioni insieme sghembe ed essenziali. Le reazioni della stampa internazionale al film, perlopiù fortemente negative, devono farci interrogare sull’effettiva fruibilità e comprensibilità del suo cinema fuori dai nostri confini, mettendo da parte sterili campanilismi: è forse il cinema martoniano troppo raffinatamente italico, nei riferimenti, da risultare indigesto Oltralpe, escludendo il territorio francese dov’è molto amato, specie da alcune testate (oltre che, ovviamente, da Thierry Frémaux e la sua squadra di selezionatori)? A noi non sembra proprio, ma è sempre giusto interrogarsi e porsi le domande, anche quando non si conoscono (ancora) le risposte. Alcune considerazioni sparse, in chiusura: «Make Parioli Punk Again» è un’altra scritta che si legge su un muro, e qualunque cittadino romano non può che sorridere all’evocazione di una liberazione di quel covo insopportabile di esibizione volgare di ricchezza; a via dell’Acqua Bullicante 251, l’indirizzo della gioielleria di Barbara, oggi risultano esserci due cose diverse, uno studio odontoiatrico e un negozio d’infissi; «I ragazzini si levano i grilli per la testa col servizio militare», altra battuta pronunciata nel film che evoca un mondo intero, la responsabilità statale, oltre che familiare, sulla diseducazione della componente maschile della nazione. Anche alla luce di queste ultime considerazioni un film da vedere e rivedere, pieno di riferimenti da cogliere come le migliori pagine della filmografia di Martone, da Noi credevamo a Qui rido io, da Morte di un matematico napoletano a Il giovane favoloso. Non resta che correre in sala, e vedere il cinema italiano che ancora una volta rinasce dalle sue ceneri, dalle sue ferite, dalle sue cicatrici. Dalla sua straziata e nuda verità, la stessa di una lettera dal carcere con cui provare almeno per un momento a sentirsi libere e fuori, nonostante tutto. Con cui ritrovare ispirazione e senso nello scrivere. Con cui finalmente ottenere, se non un posto nel presente, quanto meno quello nella Storia
Donato D’Elia