Perché andare a vedere Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson al cinema risulta così soddisfacente, accoccolante, un modo di vivere l’esperienza in sala che riconsegna allo spettatore il ruolo del bambino affabulato che non riesce a staccare gli occhi dallo schermo? La risposta non è solo retorica (il “ritorno del grande cinema americano”, la “bravura degli attori”, la “radiografia dei sentimenti politici contemporanei negli USA”: frasi che rimbalzano come un’eco fra le recensioni e che, appunto retoriche o meno, sono pure lapalissiane), ma è soprattutto tecnica, cioè nel modo in cui il regista losangelino di Boogie Nights e Phantom Thread contrae e dilata il tempo del racconto, tesse i fili tensivi fra le sue parti, colloca i rimandi interni e sfrange le narrazioni divergenti per arrivare all’inevitabile convergenza finale. Un modo che è spiccatamente letterario, forse ancora più classicamente letterario di quanto potrebbe essere “classico” un qualsiasi testo di Thomas Pynchon, il cui Vineland è qui tagliuzzato e “ricollocato” (anche temporalmente) con uno spirito di iniziativa non presente in Inherent Vice – quello sì fedele al testo scritto, ma anche perché il testo scritto in sé paradossalmente più lineare e “compiuto” di Vineland. Una linea drittissima che dissimula la costruzione di un mondo complesso e articolato, sia quando il tempo è acceleratissimo (la prima mezz’ora di film) sia quando improvvisamente si frena (le ultime due ore sono ambientate in circa 48 ore). Come se la trama fosse sineddoche di un intero mondo, e il tempo marchingegno e misura dell’affondo descrittivo: d’altronde, come dice bene Roberto Manassero su FilmTv 33/39, è l’effetto di un’«erosione del tempo tipica di uno scrittore che ha sempre creato trame surreali in contesti storicamente documentati».
È quindi prima di tutto, come si diceva, un accorgimento puramente letterario il lavoro sul tempo che compie l’autore losangelino, perché la parola scritta non distrae con il figurativo e cerca la densità nucleare di ogni cosa; Paul Thomas Anderson, evidentemente gran lettore (delle righe, ma anche dei meccanismi fra le righe), vuole così scrivere un romanzo di personaggi, attivismo e paternità facendo sciogliere una scena nell’altra come se fosse tutto un caloroso periodo ipotattico di due ore e quaranta. Nel senso wilderiano della “regia invisibile”, scomparendo e ri-apparendo come occhio demiurgico a ritmi alternati, perché il figurativo non sia distraente di una densità che trabocca e che non si può tenere in singole immagini, in singole inquadrature. Eccolo quindi sparire in uno dei tanti inseguimenti a ritmo forsennato di Leonardo DiCaprio, per poi riapparire quando improvvisamente il suo Pat/Bob Ferguson sta seguendo sul tetto dei ribelli pattinatori e non riesce a stare al passo; eccolo quindi sparire quando la macchina di Pat è crivellata dai colpi di mitra dei militari, per poi ricomparire quando la tensione deve farsi esplicita e le strade in saliscendi del deserto diventano onde che – straordinario prefinale che fa da vero momento tellurico del film – quasi riportano all’Albert Serra di Pacifiction. Paul Thomas Anderson è del resto un (altro) maestro di modulazione fra il figurativo e il letterario, ed è per questo che crediamo senza alcun problema sia a un riassuntone che condensa parecchi anni in mezz’ora, sia alla vicenda di due giorni estesa lungo in due ore, proprio come credevamo ai giri a vuoto nel (non) potere del de Roller di Magimel.
Probabilmente questo equilibrio è dato però da stratagemmi che non potrebbero essere quelli di un romanzo psicologico e introspettivo, bensì quelli di una piccola grande epopea collettiva in cui al massimo l’oggetto dello psicodramma è un’entità più affollata. Se lo stampo è Thomas Pynchon (già modello dei Coen, ed è per questo che non avrebbe senso considerare Una battaglia dopo l’altra figlio di Fargo e de Il grande Lebowsky ma al massimo un fratello che guarda allo stesso genitore), la matrice è come di consueto quella corale di Robert Altman, e quindi la natura dello psicodramma di gruppo (qui il confronto generazionale intorno all’idea di reazione e rivoluzione) in stretta relazione con un irrinunciabile, divertentissimo sarcasmo. E quindi, ancora, la piccola esplosione nell’incontro fra i due poli è l’ennesima stimolante contraddizione di un’indagine psicodrammatica su delle macchiette satiriche, che anziché mettere bombe (non) fanno (più) attentati con i fuochi d’artificio e che a furia di guardare in TV le lotte ‘vere’ de La battaglia di Algeri si sono oramai bevute il cervello fra spinelli, frasi in codice dimenticate e (seppur giustificate) paranoie, oppure che dalla virilità militar-fascistoide delle erezioni a comando sono passati alla menzogna e alla paura di non essere accettati (dalla peggior massoneria) a costo di usare l’intero esercito per coprire una relazione interrazziale. Non tanto perché ogni personaggio sia tipizzato in assoluto; ma perché ogni personaggio è il risultato (contratto e molto specifico) di singole idee di America. «Dall’America di Reagan secondo Pynchon all’America di Trump secondo Anderson», dice Carlo Valeri su Sentieri Selvaggi; una toppa sotto cui ribolle la reale varietà umana. È l’unica spiegazione perché ci si possa commuovere tanto per DiCaprio e sua figlia che si ricongiungono (magari con una lettera che arriva inaspettata a ri-chiudere in qualche modo il triangolo familiare dopo sedici anni di tradimenti, abbandoni e sensi di colpa fuori campo) quanto per la brutta fine di Lockjaw/Sean Penn, un personaggio talmente cocciuto e negativo nel suo sogno suprematista (ma fatalmente attratto dalla pelle nera) da fare il giro. Ed è proprio questo l’aspetto che, più di tutti, rende Una battaglia dopo l’altra (ma forse lo era anche un po’ Magnolia) una satira commossa.
E con la satira commossa si può facilmente derivare l’altra verità del cinema di Paul Thomas Anderson: la sua natura umanista, fiduciosa, attenta alle grandi narrazioni, a pescare quelle possibili dal presente o a utilizzare attivamente quelle del passato per riempire un presente illeggibile. Come se la battaglia che immancabilmente segue e anticipa l’altra fosse prima di tutto quella contro una chiave postmodernista e nichilista che ridurrebbe il genere al racconto di se stesso. E invece c’è sostanza umana nella passione per il racconto dell’ultimo film del losangelino: solo che proprio là dove lui trova in quella sostanza l’agente attivo della sua capacità narrativa di affabulazione, Quentin Tarantino (con cui i confronti antifrastici si sprecherebbero) trova lo stesso agente nell’occhio disilluso dello spettatore che sta dall’altra parte dello schermo, incapace di credere in nient’altro se non nel fatto che le immagini stanno da un lato e l’essere umano dall’altro. Forse a ben vedere sta proprio qui, la vera rivoluzione di Una battaglia dopo l’altra. La stessa rivoluzione (tecnica) del pionieristico (e quindi intrinsecamente resistente) VistaVision stampato in 70mm (e per pochi fortunati in IMAX70) per la distribuzione; la stessa rivoluzione (politica) di una generazione ormai sconfitta che lascia il campo (di battaglia, ça va sans dire) a quella successiva; la stessa rivoluzione (sociale e solidale) dello strepitoso sensei di Benicio Del Toro che insegna arti marziali come copertura dell’associazione segreta e familiare con cui ogni giorno salva decine di migranti. La stessa rivoluzione di un cinema che guarda al passato e che al contempo, perfettamente contemporaneo, sospira al futuro, da qualche parte fra la libertà della New Hollywood e il sogno di un grande affresco eterno come un continuo passaggio di testimone che porta avanti la medesima bruciante utopia. Quella di amare fino in fondo i personaggi, le storie, il passato, il presente, l’atto stesso di narrare. Con la medesima tenerezza delle dita che si sfioravano prima della corsa insieme e dell’amore impossibile di Licorice pizza, con la consapevole scorpacciata di funghi come innamorato e definitivo abbandonarsi alla relazione tossica di Phantom thread, con la rabbia ricoperta di greggio de Il petroliere, con i sentimenti contrastati di Adam Sandler per sempre Ubriaco d’amore, con la consapevolezza dolorosamente acquisita di Joaquin Phoenix in The Master. Con un pugno che si alza al cielo, a gridare non più ieri, ma oggi e ancora, sempre più forte, viva la revolución.
Marco Grifò, Marco Romagna
