Fu lo storico torinese Carlo Ginzburg, nel suo saggio del 1966 I Benandanti, a riscoprire dopo quasi tre secoli la figura realmente esistita dell’ottuagenario Thiess di Kaltenbrunn, nel 1692 processato e condannato per eresia nell’allora Livonia svedese – territorio oggi spartito fra l’Estonia e la Lituania – dopo avere pubblicamente dichiarato di essere un licantropo. Del suo racconto, ciò che più interessava Ginzburg non era tanto la reazione (prevedibile e anzi per molti versi ovvia, tanto più in tempi di caccia alle streghe) da parte del bigottismo (per lo meno di facciata) Luterano, e in realtà nemmeno il suo aperto ribaltamento della tradizione del lupo mannaro negando di essere al servizio di Satana e anzi giurando più volte esattamente al contrario di essere un sostanziale «cane di Dio», fedelissimo servo del Signore. Il dettaglio che per lo studioso italiano lo legava indissolubilmente agli stati di trance dei contadini friulani oggetto del suo libro, convinti che in alcune notti le loro anime lasciassero i corpi per andare a combattere contro le streghe e così assicurarsi la fertilità dei campi liberi da ogni maleficio, era la dettagliata descrizione durante le udienze delle sue battaglie a colpi di bastoni per riportare sulla Terra i raccolti trafugati dalle forze del Male, costretto per tre notti all’anno a trasformarsi e scendere all’Inferno per garantire un anno di cibo e benessere all’intera comunità. Una similitudine evidente, fatta di modalità affini per analoghe necessità, che in due zone geografiche totalmente differenti, così come nel cristianesimo tanto cattolico quanto protestante, porta(va) avanti fino alla fine del Diciassettesimo Secolo ciò che resta(va) dello sciamanesimo pagano e del folklore più ancestrale. Un folklore antico e intrinsecamente affascinante che è esattamente quello su cui i fratelli lituani Lauris Ābele e Raitis Ābele (con il terzo fratello Mārcis alla direzione della fotografia) imperniano il loro Dog of God, che si ispira alla vicenda di Thiess di Kaltenbrunn per innestarla nella pura invenzione autoriale di un racconto corale e iper-simbolico da qualche parte fra il sacro e il blasfemo, fra il raffinato e il volgare, fra il (foto)realistico e il fantastico, fra l’erotico e il lisergico. Un film pensato in primissima battuta come live action ma che – forse passando per il successo di Flow che lo scorso anno ha aperto una nuova strada all’animazione lituana, esplicitamente ringraziato con tanto di logo nei titoli di coda dopo averlo in qualche modo tirato nel calderone dell’ironia con un gattino nero senza un occhio che più opposto a quello del film di Zilbalodis non può essere – non poteva che essere (ri)pensato e (ri)disegnato ricalcando le performance in blue screen degli attori al rotoscopio, ottenendo una totale libertà espressiva tanto nell’utilizzo simbolico dei colori quanto nella possibilità di rendere del tutto esplicita l’ipocrisia fallocentrica, ora repressa e ora impotente, di una società letteralmente e progressivamente messa a nudo fino alle più orgiastiche scene di sesso e violenza del grandguignolesco finale. Una dilagante follia condivisa che forse nient’altro è che il definitivo liberarsi dalle oppressioni, di un mondo allora come oggi fondato sulle menzogne del conformismo perbenista, sul predicare bene e razzolare male, sulle doppiezze (che forse nulla può raccontare meglio di una metafora carnale) tanto del potere terreno quanto di quello ecclesiastico.
Non sono quindi da ricercarsi nell’animazione, pienamente significante e anzi visivamente strepitosa con tutti i piccoli limiti di fluidità imposti dal basso budget perfettamente nascosti da qualche intelligente cambio di fuoco e dalla cura maniacale tanto per le inquadrature in controluce quanto per il fotorealismo caldo/freddo dei personaggi e dei fondali, i piccoli problemi di God of God, e di certo nemmeno nel suo più che efficace e anzi assolutamente seducente tuffarsi nelle tradizioni locali e nelle credenze popolari del paganesimo filtrandole attraverso l’immaginario (metallaro-horror) nordico contemporaneo, abbastanza evidentemente alla base della fantasia e della scrittura dei due autori a partire dalle musiche noise-elettro-rock, a firma dello stesso Lauris, che deflagrano improvvise e a più riprese. Quello che convince un po’ meno del quarto lungometraggio in co-regia dei fratelli Ābele, presentato al Trieste Science+Fiction Festival 2025 a cinque mesi dalla prima assoluta di Tribeca e solo pochi giorni dopo il primo passaggio italiano al ToHorror di Torino, sta paradossalmente nella sua pure interessante narrazione, che per un’ora scorre riflessiva ma pure un po’ confusa nella sua coralità che al palesarsi dei lupi mannari affianca crudeli preti onanisti e (auto)punitivi, chierichetti trovatelli repressi e bistrattati, occhi di vetro, baroni lubrichi con evidenti problemi di erezione, mogli da ingrassare sperando rimangano incinte, luogotenenti incapaci dal baffetto già hitleriano, animali (o forse piante) dalle misteriose proprietà afrodisiache e locandiere/guaritrici da accusare di essere streghe forse più per poter toccare loro le tette che per reale convinzione religiosa, e che poi si mette a correre fin troppo all’impazzata nell’ultimo terzo del suo minutaggio con un ultimo atto forse un po’ sbrigativo, che nel suo incedere per accumulo verso il caos finisce quasi inevitabilmente per saltare di palo in frasca, perdendo per strada parte delle possibili stratificazioni. Sarebbe tuttavia ingeneroso e in definitiva sbagliato, di fronte a un’opera lontana da ogni ordinarietà e così smaccatamente eretica e coraggiosa nella sua aperta sfida alla morale con cui denunciare proprio il falso moralismo che il potere brandisce per opprimere il popolo e per dissimulare la propria immoralità, fossilizzarsi su qualche elemento di puro racconto che non torna fino in fondo e smettere di difendere a spada tratta un film magari imperfetto ma senza dubbio stimolante, che giusto da pochi giorni la Lituania ha deciso di mandare avanti come candidato ai prossimi Oscar. Anche perché, pienamente consapevole di voler puntare più sull’effetto sorpresa e sullo shock visivo che sull’effettiva tenuta narrativa, Dog of God preferisce lavorare di simboli e suggestioni, di metafore e di impressioni, di preghiere e di contraddizioni. Dalle palle del Diavolo letteralmente strappate nella prima e sanguinolenta sequenza (e poi portate in dono dal lupo mannaro quasi a ricordare al Barone la sua incapacità di concepire un erede), fino al fungo con cui farsi liberare dalla gogna oppure al bicchiere in cui soffiare per passare al volontario il proprio destino male/benedetto ed essere così finalmente libero di morire. Dal tatuaggio sul petto dell’uomo-licantropo fino all’inquietante carcassa del cane dal viso umano che con la sua progressiva putrefazione segna lo scorrere del tempo. Dalla sacra reliquia della mangiatoia di Betlemme amata come un figlio (mentre chi ama come un figlio è considerato servo alla stregua di un cane), fino alla locanda in cui trasformare i veleni animali in medicine con le quali salvare le vite delle persone. Dal volto più inquietante e selvaggio della Natura (gli insetti moribondi intrappolati nelle ragnatele, le distese di merda di vacca, il gatto spelacchiato che piomba violento su un ratto uccidendolo e facendo strazio del suo corpo, i vermi che mangiano i cadaveri, i ratti, i serpenti, i teschi abbandonati nella polvere e nella nebbia) fino a quello più ipocrita e disgustoso di un’umanità che è allo stesso modo e forse irrimediabilmente sporca, corrotta, depravata, specialmente proprio dove dovrebbe garantire la giustizia e la Fede. Non c’è tuttavia reale nichilismo, nella visione dei fratelli Ābele. C’è semmai rabbia, c’è semmai dolore, c’è semmai un generale pessimismo. Ma c’è anche una profondissima volontà di Resistenza, che combatte contro le ingiustizie e i soprusi brandendo le armi dell’ironia e del grottesco, dell’esasperazione e della sfacciataggine, dell’agnosticismo (o, per lo meno, di una spiritualità alternativa e indipendente) e dell’erotismo. Fino a un edonismo dilagante da sbattere in faccia a ogni Savonarola, come a dire che ci saranno sempre credenze e ritualità ben più antiche e più radicate del loro potere, in cui le forze del Bene in lotta contro quelle oscure riporteranno sempre l’amore e la più florida prosperità, nonostante tutto, a costo di sacrificare il proprio corpo e il proprio sangue. Nei secoli dei secoli, ben al di là di ogni possibile regola ipocrita o dogma da imporre agli altri per poi ritrovarsi soli e fare l’esatto contrario.
Marco Romagna
