«Questa sera si recita a soggetto», verrebbe quasi voglia di riassumere di fronte allo sguardo in macchina smarrito e doloroso dell’anonimo protagonista, mentre intorno al suo asfissiante male di vivere un’intera città esplode di gioia per uno scudetto atteso, pure da lui che ora non riesce a festeggiarlo, per 33 lunghi anni. Del resto, per quanto il riferimento più apertamente dichiarato dal film sia come si vedrà più avanti “il Maestro” Alberto Grifi, c’è un qualcosa di intrinsecamente pirandelliano nella Deriva messa in scena da Danilo Monte per il suo definitivo ‘grande salto’, dopo i documentari familiari, il corto-doc 2061 e la breve distanza di Ultimo Impero, nel lungometraggio di finzione. Dalla crisi dell’io (o meglio, di un io irrimediabilmente in crisi, magari proprio nel momento di massimo giubilo popolare) al contrasto fra la vita e la forma (di rappresentazione artistica, che può essere tanto figurativa quanto cinematografica), dall’incomunicabilità (con l’ipocrisia del mondo non solo dell’arte in cui non si può prescindere dal business, ma soprattutto con un figlio che non alza la testa dalla sua Nintendo Switch proprio come il padre non la alza dal cellulare, ognuno chiuso nel suo schermo) fino alla spontaneità di sentimenti destinati a emergere, appunto, dalla recita a soggetto, dal volto impassibile, dai silenzi, dalle furtive lacrime, dai (pochi) dialoghi poco più che improvvisati a partire da una traccia, da una situazione ipotetica, da uno stato d’animo in cui traslare se stessi in un alter ego fittizio uguale e magari al contempo contrario. Un’ibridazione che immagina e mette in scena una totale finzione (di uno stato di depressione, di emozioni e di situazioni da pensare e recitare in una straordinaria sottrazione) e consapevolmente la innesta in una realtà che invece è (quasi) perfettamente documentaria (di un’identità personale e artistica nel suo atelier, ma anche della Napoli in attesa e poi in festa per la vittoria del suo terzo campionato nel 2022-2023), mentre il passato a più riprese riemerge dalla memoria dei nastri magnetici e costantemente (ri)scrive il senso del presente e della narrazione come lampi di una speranza perduta, di una convinzione irrealizzata di poter cambiare il mondo, di un entusiasmo giovanile ormai virato in lacerante malinconia, rimpianto, dolore, sentore di fallimento generazionale e personale. Inevitabile catatonia, e magari un’altra lacrima ancor più esistenziale che nostalgica quando appare Maradona nel bel mezzo dell’ennesimo, meccanico, dipendente scroll su TikTok, forse l’ultima forma di comunicazione rimasta nel dolore. Al punto che non importa più che cosa sia vero e che cosa sia immaginario, in Deriva. Quello che importa, nel film presentato come evento speciale ed esordio italiano 2025 alla 61ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, è lo sguardo – lucido, libero, poetico, stratificato, paradigmatico, concettuale, artistico, e in questo caso pure perfettamente condiviso fra il regista, il suo attore feticcio e il montatore Alessandro Aniballi – che tutto ricuce insieme e ricontestualizza fra il campo e il fuori campo, su una tela o su uno schermo, nei simbolismi intrinsechi di un’icona o nell’associazione libera di un flusso (emotivo) di coscienza. È per questo che non ha bisogno di un nome, l’Artista interpretato (e co-sceneggiato) da Mario D’Ambrosio, effettivamente artista con il proprio stile pittorico che è inevitabilmente metafora e vera e propria parte complementare del senso del film, in una sostanziale identità di vedute per cui i suoi dipinti/sculture con materiali di recupero e il cinema indipendentissimo e sospeso fra vero e falso di Danilo Monte sembrano essere fatti della medesima sostanza e non è certo un caso che si ritrovino a coincidere, ma anche (e forse soprattutto) da decenni grande e sincero amico del regista, interprete dei suoi primi cortometraggi amatoriali e volto ricorrente a (quasi) tutte le età del suo nutrito archivio personale, ex compagno di studi (anche di cinema, e allo stesso modo forgiato dai fondamentali insegnamenti di Grifi), di pensiero e di momenti fondanti della vita.
È un flusso di similitudini e di contrasti, Deriva. Un film, che poi nient’altro è che il ritorno a casa di un regista che seppure trapiantato ormai da anni a Torino non ha mai smesso di essere orgogliosamente campano di Casoria, sulla fine disillusa di un’utopia, cristallizzatasi in una crisi personale in cui è impossibile essere nuovamente gioiosi proprio mentre, tutt’intorno e dai ricordi, riemerge perfettamente antitetica quella felicità assoluta provata da bambini e che ora sembra impossibile come le speranze da ragazzi, passate per la sistematica distruzione della fiducia di un’intera generazione che ha lottato, ha perso al momento del G8 di Genova che all’improvviso si ripresenta con la violenza di un treno in faccia, e infine si è vista progressivamente estirpata perfino la voglia e forse pure la capacità di continuare a lottare, di condividere, di partecipare, di crederci. E a questo risponde l’esistenza stessa – (im)possibile – di Deriva. A partire dalla non-produzione FAI Cinema che già dal nome storpia beffardamente l’industria della Rai dichiarando la sua totale indipendenza ed estraneità a qualsiasi possibile logica e prassi del cinema “ufficiale”, il suo preferire l’atto del fare a quello di chiedere e di accettare compromessi. Uno spirito anarchico e battagliero ai limiti del clandestino che – ed è qui che, come promesso, non si può che tornare alla figura di Alberto Grifi, inevitabile nume tutelare di Deriva che come già accennato riemerge in prima persona dagli archivi dei tempi del DAMS di Bologna nel ruolo (reale, sia per Monte sia per D’Ambrosio) di “maestro di cinema” – nella stessa miracolosa natura dell’operazione nient’altro è che metterne in pratica gli insegnamenti più preziosi. Con la stessa voglia già di Anna, ma questa volta nell’ambito della finzione, di perdere il controllo sul film e fidarsi dello sguardo fino a lasciare emergere in tutta la sua forza dirompente la cinematograficità dell’esistenza, quando gli argini dello schermo vengono infranti dal dirompente materializzarsi dell’umanità (e magari della napoletanità) e non si può fare altro che continuare a filmarla, ma soprattutto a viverla insieme, davanti e dietro la macchina da presa. Fingendo e al contempo sapendo guardare, verso l’icona-Grifi, verso l’icona-Vesuvio, verso l’icona-Maradona, verso l’icona-scudetto, verso l’icona religiosa sulle vetrate della chiesa, verso l’icona Rach3 che risuona e che emoziona, verso l’icona Made in Japan (e quindi Deep Purple) sullo sfondo del PC. Verso gli stessi contrasti di una pittura che da Dubuffet si ibrida con la scultura e che è per questo al contempo bidimensionale e tridimensionale, proprio come nel cinema il vero e il falso si compenetrano e ulteriormente si stratificano negli inserti di un archivio che è a sua volta vero e falso. Da qualche parte fra l’analogico (della Bolex, dei nastri magnetici, ma anche delle opere dell’Artista) e il digitale (del cinema, ma anche della riproducibilità o meno di un’opera); da qualche parte fra l’università occupata e le manifestazioni, da qualche parte fra la folla sotto al murale di Maradona dei Quartieri Spagnoli (con tanto di tifose TokTokers) e il mesto ritorno nel Corso Vittorio Emanuele deserto di Avellino. Da qualche parte fra le prime volte che Danilo Monte ha schiacciato REC e l’ultimo dipinto (reale/immaginario) dell’Artista (reale/immaginario) destinato a rimanere fuori dal campo, perché quello che conta non è il singolo oggetto, ma l’idea stessa di un percorso artistico, la sua quotidiana (r)esistenza, la malinconia che sublima nell’ispirazione, e il tempo (di realizzazione dell’opera, così come dei lunghi pianisequenza di Monte che scorrono senza artifici né jump-cut) nel corso del quale tutto scorre e al contempo tutto può cambiare. Un tempo che intreccia il presente e il passato, il futuro e il rimpianto, la verità e la menzogna 24 volte al secondo, tanto che il piccol(issim)o Alessandro Monte (direttamente da una ripresa del precedente Nel mondo, in cui Danilo Monte aveva documentato il primo anno di vita del figlio) può tranquillamente diventare l’Artista bambino, e così in potenza lo potrebbe essere chiunque avesse l’età giusta al tempo dei primi due scudetti, sceso in strada festante per celebrare il miracolo di Maradona e rimasto intrappolato in un qualsiasi VHS amatoriale. Proprio come la voce al telefono di Massimiliano De Serio, altro regista indipendente, può tranquillamente essere quella di una critica d’arte innamorata e in realtà pure potenzialmente competente ma che non accende nemmeno il computer se non per fini di lucro, e la presenza di Stefano Forgione, altro artista, può tranquillamente essere quella di un gallerista sospeso fra la passione e il mercato, specchio della doppiezza di un intero mondo (dell’arte e quindi del cinema, ma il discorso si potrebbe tranquillamente allargare alla quasi totalità delle attività umane costrette a passare sotto il giogo del Capitale) spartito fra il merito e la certezza (im)possibile di un ritorno economico, fra la forza di uno slancio artistico e la sua vendibilità, fra l’innegabile importanza lirica del concetto e la prosaicissima ‘bellezza dell’oggetto’. Un continuo gioco di specchi che tende a una stratificazione potenzialmente infinita in cui l’intimo dolore del protagonista non può che rivelarsi quello di un’intera generazione e forse di un’intera società, nella nitidezza di una visione autoriale capace, nella sua crescita sempre più evidente e nella sua evoluzione verso nuove e personalissime forme, di partire dal personale e dal particolare per tracciare parabole oramai definitivamente universali, in cui lasciare liberamente trovare aderenze fra le dinamiche di ciò che si vede e dei pochi dialoghi con il vissuto anche recente, e per questo ogni volta potenzialmente diverso, dei singoli spettatori. Elementi di un cinema sussurrato, discreto, orgogliosamente piccolo ma non per questo meno acuto o potente, (ormai) di finzione ma non per questo meno reale e sincero. Un cinema che dialoga da vicino con l’anima e che chiede semplicemente di identificarsi, mentre parla alla testa ma punta direttamente al cuore. Non per nulla, è proprio lì che si appuntano gli scudetti.
Marco Romagna