«Words are flowing out like endless rain into a paper cup,
They slither while they pass, they slip away across the universe.
Pools of sorrow, waves of joy are drifting through my opened mind,
Possessing and caressing me. Jai Guru Deva Om
Nothing’s gonna change my world. Nothing’s gonna change my world. Nothing’s gonna change my world. Nothing’s gonna change my world.»
Vita nova parte da un titolo che è un gioco di parole sulla citazione dantesca, su quel prosimetro di fine ‘200 che precedette La Divina Commedia: una “vita nuova” nel senso di un rinnovamento della vita attraverso l’amore per Beatrice, la donna del desiderio, che progressivamente è sempre meno percepita dal poeta fiorentino come un essere umano in carne e ossa, e diventa sempre di più un concetto etereo, fino a diventare, nel Paradiso, la manifestazione della Fede. La moglie del regista Danilo Monte però, Laura D’Amore, considerata nei titoli di testa co-regista ma fattualmente “solo” anima del film, è tremendamente umana, e tremendamente pessimista. È Monte che invece è smosso da una Fede, non una Fede necessariamente cristiana ma una Fede nel senso di ottimismo, nei confronti della famiglia e della lotta che i due combattono. Una lotta per avere un figlio. È un problema della società borghese sostanziale, quello delle complicazioni mediche e scientifiche legate alla maternità, e il regista con la moglie insegnante di yoga, per mostrare questo flusso pessimista e intimo in direzione di un tentativo di creazione di una “nuova vita”, quella di un ipotetico figlio, decide di cominciare un esperimento in cui i due si filmano, o meglio, tendenzialmente, lui filma lei e a volte filma entrambi, mettendosi quasi sempre fuori fuoco o col volto fuori campo. È una non-storia d’amore tenera e disperata, piena di momenti divertenti e di lunghissime sezioni tragiche, ed è costruita in vignette separate da stacchi su nero come nei primi film di Haneke e con jump-cuts, con svariate telefonate che confermano il sospetto che tra i fili conduttori di questo Bellaria Film Festival, oltre al liscio e alla musica, vi sia la comunicazione dell’epoca del digitale, che sempre di più viene usata, mostrata, a volte in sottofondo, a volte come tema importante. Marito e moglie vanno al festival di Venezia, poi vanno in ospedale, stanno a casa, ballano Storia d’amore di Celentano, si danno un sacco di baci, si amano. E raccontano attraverso un cinema inteso come battaglia interna svariate cose: l’intimità, l’amore e soprattutto il dolore. Ma il dolore dell’intimo può davvero avere senso, cinematograficamente parlando, senza qualcos’altro che non sia la rappresentazione dello stesso?
A Locarno nel 2015 c’erano due film sulla perdita di un genitore, No Home Movie della mai troppo compianta Chantal Akerman e O Futebol di Sergio Oksman, il primo su di una madre, il secondo su di un padre. Entrambi parlavano di questo trauma non concentrandosi sull’interno della malattia o sulla sofferenza, bensì prendendo un altro punto di vista, utilizzando un altro spunto narrativo o filologico per poi ritornare a concentrarsi sulla mancanza del genitore. Entrambi sono film per far vivere il genitore attraverso l’immagine, non autocompiaciuti e autoreferenziali progetti masturbatori sulla propria sofferenza: la Akerman ha voluto fare un tributo alla madre attraverso anni di riprese a lei da viva, riuscendo a farla diventare verso la fine un fantasma onnisciente e contemplativo, mentre Oksman ha composto un tributo alla tradizione calcistica brasiliana a cui il padre era affezionato. Sì, son due film di diversa qualità, di diversa intensità, ma entrambi dotati di un grande cuore. Il documentario sull’intimo comunque sta diventando sempre di più un qualcosa di comune, che si trova a tutti i festival e che riesce in un modo o nell’altro sempre a emozionare la maggior parte degli spettatori. Però non è un cinema nuovo, è un cinema coraggioso e rischioso ma le cui radici e le cui origini si possono riscontrare in un passato remoto: possiamo pensare ai video-diari degli anni ’70 di Pincus, certo, ma anche a certi film di Jonas Mekas che era già attivo negli anni ‘60, in un modo decisamente più impressionista e meno concreto, e tornando ancora di più indietro nel tempo c’è anche José Val Del Omar con il suo corto Pelìcula familiar (1939). Quando ancora il cinema andava distrutto con l’intimo, quando ancora potevamo provare con lo sguardo il sentore di un’urgenza. Ma c’è ancora chi, come appunto la Akerman e Oksman, riesce a trovare un senso e un’originalità in queste operazioni personali, necessarie, autoterapeutiche; e in ciò, dove rientra Vita Nova?
Il non riuscire ad avere figli può essere sicuramente un dramma familiare, e certi spettatori possono non capirlo, in particolare forse quelli maschi visto che alla fine il dolore all’interno del film è provato in particolare dalla madre che non riesce a far crescere una vita all’interno del proprio utero. Ma quest’urgenza a volte è veramente difficile da comprendere, nonostante la splendida forma del film che ha l’apice nell’inquadratura semi-fissa di Laura D’Amore che canta piangendo con la voce spezzata, al punto che a volte sembra di vedere delle identità genitali invece che degli esseri umani. Il regista e la moglie hanno confezionato un film passionale e densissimo, con una capacità espressiva e formale che allontana le perplessità (possibili) sul fatto che possa essere o meno un film morboso, e anzi ci si trova spesso ad ammirarne la potenza; ma alla fine, con quell’urlo disperato «Perché io?» in un fuori-campo forzato (che costringe lo spettatore a osservare imperterrito per plurimi minuti un wc) contrapposto alla risata con cui il film si conclude, ci si chiede se sia davvero servita a qualcosa la visione. Una clip non appartenente al film mostrata subito dopo la proiezione al festival ha mostrato il regista e la moglie intenti a spiegare il motivo della loro assenza, ed erano in un corridoio d’ospedale, con in braccio il loro bambino appena nato. Certo, non possiamo che essere felici per il fatto che siano riusciti a fare qualcosa che attraverso il film pare impossibile, ma allo stesso tempo ciò sembra confermare i sospetti che quest’operazione così intima e sincera in realtà non serva a nulla se non a raccontare un amore che sarebbe stato percepibile anche con dialoghi su altre tematiche, su altre necessità, su altre problematiche e con un altro metodo, un altro cinema. Mentre Torino si vede a malapena, con quasi solamente dettagli di esterni che sembrano gli stessi di Sono Guido e non guido, Danilo prende la chitarra classica e canta una sua commossa versione di Across the Universe dei Beatles – e lì ci si emoziona e non ci si può non emozionare, perché il regista sa cosa fa, sa costruire il suo film, sa comporre immagini scomposte e sa toccare le corde dello spettatore (e della chitarra). Ci si chiede “E allora?”, ma alla fine più che l’irritazione rimane solo un vuoto, e non è un vuoto incolmabile o amaro, è un vuoto con cui non si sa che fare. Forse, si può riascoltare Across the Universe ad libitum, e allora non ha più senso lamentarsi.
Nicola Settis