Trova un mirabile punto di equilibrio fra i suoi due possibili cinema, l’Alain Guiraudie di Miséricorde. Da un lato il thriller/noir psicologico di desiderio (omo)erotico e di morte già al centro de L’inconnu du lac e di Rester Vertical, e dall’altro l’ironia caustica e onirica di una commedia surreale e nerissima da qualche parte fra le sue prime incursioni sul grande schermo nel corso degli anni Duemila e la divertentissima “riedizione aggiornata” che ne aveva fatto nell’ultimo Viens je t’emmène. Il risultato è un film di brillanti situazioni dialettiche e di delitti preterintenzionali, di occultamenti di cadavere e di aperte menzogne, di “scorretti” interrogatori in piena notte sfruttando la scarsa lucidità del sonno e di inaspettati aiuti da un abito talare in evidente erezione, fra chi non può che sospettare la verità e chi invece vorrebbe continuare a farla franca, fra versioni che iniziano a fare acqua e bramosia (non necessariamente) concupiscente, fra crudeli coincidenze che portano all’inaspettato e la crescente ambiguità di una natura umana imprevedibile e corrotta. Un film sulle possibili declinazioni del peccato e della lussuria, dalla brama proibita fino al senso di colpa (o alla sua mancanza) passando per il fraintendimento e per il rifiuto, per la (dis)simulazione e per l’eccesso di difesa, per una crescente tensione (poco cambia quando erotica e quando violenta) che allunga la sua ombra sull’apparente idillio. Passando per il segreto (in)confessabile e per l’impossibilità di farlo rimanere tale, per la risata e per il sangue, e ovviamente per la misericordia, quella del fato e quella del prossimo, quella verso i vivi e quella verso i defunti, quella che c’è e quella che manca. Basta un arco narrativo di una decina di giorni a Miséricorde, co-prodotto fra gli altri da Albert Serra e presentato sulla Croisette edizione 2024 nell’ambito della sezione Cannes Première. Basta un solo (non) luogo di soli 187 abitanti in cui ognuno sa tutto di tutti come il paesino minuscolo e ormai quasi del tutto spopolato di Saint-Martial, in Occitania, decadente e rurale nei suoi oscuri boschi di funghi e nei suoi assolati tornanti, inevitabilmente impiccione nel suo essere una (nemmeno troppo) grande famiglia. Basta un protagonista attualmente disoccupato e da poco separato dalla fidanzata, basta il suo ritorno per un funerale dopo il quale accettare l’invito a fermarsi qualche giorno a casa della vedova vecchia amica di famiglia, basta il suo rapido ritrovare i ritmi e la routine di tanti anni prima fra passeggiate nei boschi e gioviali cene comunitarie in grandi tavolate numerose. Basta l’inevitabile riaccendersi di una sua omo-brama giovanile segreta che in tanti anni di relazioni eterosessuali non gli era mai uscita dalla testa, ma soprattutto basta la gelosia dissennata e via via sempre più violenta di un figlio ormai adulto, a sua volta padre e marito, che si convince che l’amico d’infanzia temporaneamente ospite di sua madre miri in realtà a sedurla e a portargliela via.
Elementi di un film intelligentemente provocatorio e refrattario a qualsiasi tentativo di classificazione, al tempo stesso noir e commedia (s)garbata che sconfina liberamente nei territori del melodramma, della seduzione, dell’ironia, dell’erotismo, della colpa, della vis politica e del teatro dell’assurdo; un film che non ha bisogno di ricorrere al whodunit per stupire, e che non smette mai di osare nelle sue insistite reiterazioni modulari (il sentiero nel bosco e i bruschi risvegli in piena notte, perfetti controcampi concettuali del parcheggio e della spiaggia di L’inconnu du lac) e nelle bordate sociali anche potenti (l’omofobia che scorre sottopelle, le omissioni per evitare la vergogna e il giudizio, l’inadeguatezza dello Stato e degli uomini di religione) che si nascondono nei dialoghi e nelle situazioni paradossali immaginate da Guiraudie. Un piccolo gioiellino a basso costo programmaticamente spiazzante nei suoi improvvisi cambi di direzione e nei suoi efficaci ossimori linguistici e di genere, libero e queer ben al di là della tematica omosessuale, che parte scandendo i titoli di testa su un pianosequenza “soggettivo” in camera car per molti versi lynchano (difficile non pensare agli incipit di Strade Perdute e di Mulholland Drive, ma visto il contesto di campagna, di isolamento, di omicidio e di mistero forse soprattutto a Twin Peaks) sull’unica strada che (ri)porta verso la natura (non a caso selvaggia) del paese e dei suoi boschi, per poi suggerire un apparente idillio ma al contempo iniziare sin da subito a venarne la superficie di malinconie e di inquietudini, quasi come un As Bestas di suggestioni pasoliniane che a latere di tutt’altro desiderio immaginano un nuovo Teorema tutto da risolvere e da dimostrare. Salvo poi da lì ribaltare del tutto la situazione rispetto al film di Sorogoyen per guardare piuttosto al black humour dell’Alfred Hitchcock de La congiura degli innocenti, alla polizia del Bruno Dumont del trittico Ptit Quinquin – Coincoin et les Z’inhumains – L’empire con la coppia Van der Weyden/Charpentier, perfino all’ipocrisia della chiesa secondo il Luis Buñuel de Il fascino discreto della borghesia (anche se poi, a ben vedere, l’ipocrisia forse nient’altro è che l’unica declinazione realmente possibile del perdono). Facendo ridere, molto, fra (tutto fuorché aitanti) cercatori di funghi e improbabili poliziotti, fra curati di campagna amorosi e donne di mezza età rimaste sole, fra auto lasciate alla stazione e versioni incoerenti che iniziano a fare acqua da tutte le parti. Fra le (non) confessioni di un crimine alle autorità e il ribaltamento di ruoli nelle (anti-)confessioni sacramentarie di un prete a un non fedele, fra lo sguardo inequivocabile di chi ha capito perfettamente la verità ma non dice nulla e i piccoli dettagli su cui chi mente sente progressivamente il terreno franare sotto i piedi e le spalle andare verso il muro, fra le attese di un’ammissione o di un passo falso e i mille, radicali e impensabili colpi di scena con cui ogni volta cambiare il destino e allontanare i sospetti. (Si) diverte, Miséricorde, e nel frattempo non dimentica di problematizzare e di scandagliare in profondità il desiderio e il peccato, fra un vecchio album di fotografie e un nuovo incrocio di sguardi, fra una carezza e un fucile puntato, fra una rissa che sembra un corteggiamento e un corteggiamento che diventa una rissa. Fra i pensieri suicidi di una coscienza ormai pesante (o più probabilmente della paura di non riuscire più a nascondere l’ovvio) e quelli d’amore (o più probabilmente di mero desiderio carnale – «se lo vuoi da ubriaco vuol dire che lo vuoi sempre, e non serve sapere i gusti sessuali di un uomo per desiderarlo») che muovono sin da principio ogni scelta e ogni reiterata bugia dei personaggi. Del resto, è forse proprio la carne l’unica possibile forma di sincerità rimasta fra le imposizioni sociali e le assoluzioni (interessate) senza che nemmeno ci sia la possibilità stessa di una redenzione. Una carne fisiologicamente ed emotivamente non in grado di mentire né a se stessa né agli altri. Il resto è semplicemente l’uomo, debole e imperfetto, nervoso ed emotivo, impaurito e brutale. Animalesco, forse, ma proprio per questo ancora vero, caldo, pulsante. Vitale. Proprio come il (grande) cinema di Guiraudie.
Marco Romagna