26 Dicembre 2018 -

COINCOIN ET LES Z’INHUMAINS (2018)
di Bruno Dumont

Il piccolo Quinquin di P’tit Quinquin è cresciuto, è arrivato in un’adolescenza insoddisfacente in cui i misteri praticamente insoluti del passato galleggiano nella memoria come sogni distanti ed è diventato Coincoin. Ma, come nella prima mini-serie del grottesco progetto di Dumont, Quinquin/Coincoin è più un simbolo di uno sguardo con cui immedesimarsi che il vero protagonista della storia. Certo, entrambi i prodotti hanno una progressione narrativa abbastanza corale, in cui più piani si sovrappongono, con come principali cardini il mondo di Quinquin e dei suoi amici da una parte e la coppia di poliziotti composta da Carpentier e Van Der Weyden dall’altra. In tutto ciò, tuttavia, in Coincoin più che in Quinquin il vero protagonista è proprio Van Der Weyden, qui più che mai circondato da un’aura tourettica e lisergica che tramuta ogni sua azione in uno sketch comico.

Ma, per chi non sa di che cosa stiamo parlando, è giusto ricapitolare: nel 2014 Bruno Dumont, professore di filosofia da due decenni impegnato con un cinema d’autore severo e umanissimo, ha firmato una mini-serie, P’tit Quinquin, diffusa globalmente in TV e nei festival cinematografici, giungendo fino al primo posto sulla classifica dei Cahiers du Cinéma dell’anno. Il prodotto seriale è corrisposto a un drastico mutamento stilistico per l’autore, una prima vera e propria incursione nella commedia e nella serialità. Dopo alcuni flirt con il cinema di genere (v. il poliziesco in L’humanité o il film storico in Camille Claudel 1915), per la prima volta P’tit Quinquin ha rappresentato per l’autore una vera e propria incursione in un percorso narrativo collettivo e complesso, una voce di un popolo invece dell’urlo disperato di un singolo. In un microcosmo popolato da loschi individui ai margini della società ma sostanzialmente incapaci di fare del male, un giallo violento e forse paranormale comincia a divampare e a mietere vittime in una società incomprensibile. Nessun mistero viene effettivamente risolto, e Quinquin e Van Der Weyden procedono nelle loro vite con l’unica certezza di non essere soli in questa lotta contro il nonsenso del mondo – nonostante sia ormai palese che anche loro contribuiscono a costruire questo nonsenso. Dopo un altro film ai margini, Ma Loute, un cannibalistico e grottesco potpourri di stilemi cinematografici europei tanto interessante quanto frammentario, Dumont ha firmato nel 2017 forse il suo lungometraggio più convincente, un musical industrial sulla gioventù di Giovanna d’Arco intitolato Jeannette e ritmato da una colonna sonora di Igorrr. E l’anno immediatamente successivo, quest’anno ormai agli sgoccioli, la sua opera più acclamata dalla critica, che verrà probabilmente ricordato a lungo come uno dei principali punti di svolta della sua carriera, è giunto Coincoin, un sequel inaspettato (il non-finale di Quinquin è caratterizzato da un’aura di completezza che ha turbato molti spettatori che si aspettavano una risoluzione del mistero) ma soprattutto imprevedibile all’interno della visione stessa. Se Quinquin dimostrava un piglio prevalentemente di ricerca sociologica ed esistenziale nella sua analisi di situazioni e personaggi, Coincoin sembra invece una spirale concettualmente violenta di sketch slapstick volti a creare un turbinio di suggestioni emotive più legate a un astratto senso dell’anarchia.

Pur considerandoci fan di Dumont, non abbiamo avuto modo di recuperare Coincoin durante il festival di Locarno, ma forse avremmo dovuto perché è veramente una delle cose più interessanti viste in quest’anno cinematografico. Un oggetto alieno e folle, che decide istericamente di mandare a quel paese tutti i paletti della “prima stagione” per dare puro sfogo al desiderio di Dumont di esprimere un punto di vista nei confronti del mondo che è quanto di più… inaudito, nell’audiovisivo. Sembra un Twin Peaks fatto dai Coen, ma anche un film di Harold Lloyd in chiave biblica o un Don Matteo fantascientifico con un cast pasoliniano; e già da queste definizioni che convergono verso un postmodernismo umoristico e decadente presuppongono una libertà artistica e un’eccentricità di pensiero non indifferenti. I misteriosi omicidi legati a mucche e maiali sono qui sostituiti da possessioni aliene, sdoppiamenti corporei, automobili pericolosamente patetiche, scoregge metafisiche e un perpetuo senso di pericolo apocalittico imminente. La storia comincia riprendendo i filoni dal finale della prima stagione, ovviamente col dovuto passaggio del tempo, ma si notano subito le differenze a partire dalle coreografie delle gag e dall’imprevedibilità della matassa dell’intreccio. In un accumularsi sempre più caotico gli eventi fuori dal comune rappresentati il più possibile in maniera legnosa, automatica e robotica per creare senso di straniamento, Coincoin di minuto in minuto si avvicina sempre di più a tramutarsi in un loop di ripetizioni programmatiche; ma è proprio la ripetizione programmatica a caratterizzare le azioni compiute da questi fantomatici alieni. In ciò, il loop diventa ironico: la ciclicità che viene accusata come sintomo dell’Apocalisse diventa il fulcro della storia in modo quasi impercettibile. La ripetitività dei tic di Van Der Weyden e delle espressioni di Carpentier, delle frasi pronunciate dai preti, dei tentativi di Quinquin di riconquistare l’amata Eve diventata lesbica prima e di sedurre la nuova arrivata Jenny poi. L’evoluzione degli eventi finisce improvvisamente per implodere in un’isteria fantascientifica da marcia funebre, in cui l’eccesso prevarica il senso di raggiungimento e l’unica maniera per fuggire dalla follia è scappando nella follia stessa, perdendosi in un eterno anti-finale sciamanico che dà vita alla più catastrofica delle danze felliniane o jodorowskiane, un girotondo ultra-pop di maschere, zombie, cloni, stonature e strombazzamenti rumorosi.

Forse i quattro episodi di Coincoin sono un urlo disperato, un ultimo tentativo di attestato esistenziale ribelle per un uomo disarmato, o forse è uno dei tanti passi di un percorso che Dumont sta costruendo tassello per tassello sulla crescita dei suoi eroi, visto e considerato che il suo prossimo lungometraggio, Jeanne, altro non sarà che una continuazione della storia di Giovanna d’Arco proprio come Coincoin fa evolvere Quinquin. Eppure Coincoin sembra un’opera testamentaria e senile, che tratta con affetto l’uomo, pur bloccandolo in una superficialità antipsicologica da cartone animato. Non sia mai che anche il ‘leben Jesus’ del suo film d’esordio possa sfociare in un futuro prossimo o remoto in una cosmogonia della maturità umana – sembra proprio che Dumont sia giunto a una fase della sua carriera in cui ormai non può che stupire. Ma comunque non sembra che Coincoin si ponga la possibilità di un futuribile, perlomeno all’interno del suo grottesco, piccolo universo. È tutto immerso in un labirinto poco meta e molto fisico di incapacità di prendere sul serio le relazioni e le connessioni interne della società, al punto che un Dharma razionale, come spesso in Dumont, sembra più che mai irraggiungibile. Il cielo manda segnali ma non dà risposte. E così il regista sfrutta la freddezza composta della cinepresa per immergersi egli stesso nel labirinto, sottilmente lasciando passare la sua angoscia collerica mediante la sontuosità simbolica e fotografica dei movimenti di macchina e della composizione delle immagini, la leggerezza degli stacchi di montaggio e l’asciuttezza cartoonesca del sound design. Non sarà una lucido testimonianza sull’esistenza nel mondo moderno, e anzi ci viene sempre più da pensare che la cosa interessante del cinema di Dumont sicuramente non è la lucidità, ma Coincoin è potente, unico, folle. Una visione che riesce incredibilmente ad avere senso nei nostri tempi nonostante non sembri porsi il problema di voler proporre un messaggio, una soluzione, una prospettiva. E nel caos dell’audiovisivo circostante, non c’è niente che più possa rappresentare alla perfezione quel 2018 che a breve sarà un cadavere.

Nicola Settis

“Coincoin et les z'inhumains” (2018)
52 min | Comedy | France
Regista N/A
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

SEDUÇÃO DA CARNE (2018), di Julio Bressane di Erik Negro
JEANNETTE – L’ENFANCE DE JEANNE D’ARC (2017) di Bruno Dumont di Nicola Settis
A LAND IMAGINED (2018), di Yeo Siew Hua di Marco Romagna
FRANCE (2021), di Bruno Dumont di Marco Romagna
ORO VERDE - C'ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA (2018), di Cristina Gallego e Ciro Guerra di Marco Romagna
THE NIGHT EATS THE WORLD (2018), di Dominique Rocher di Andrea Bosco