22 Febbraio 2024 -

L’IMPERO (2024)
di Bruno Dumont

«Senza corpo non siamo niente». Un corpo, parte umana che rimane come una sorta di «bilanciamento» all’interno di alieni-virus mutanti e non più doppelgänger come in Coincoin et les z’inhumains, che può perfino ritrovarsi ad amare e desiderare il nemico eterno di una battaglia intergalattica che, è chiaro sin da subito, non potrà che condurre all’inevitabile Apocalisse – o forse al nulla e al mantenimento della (nostra) mediocrità, che poi è per molti versi la stessa identica cosa. Perché senza la parte umana, fatta di contraddizioni e amplessi selvaggi nella natura, di errori di valutazione e di sostanziale impossibilità di contrastare o per lo meno comprendere ciò che arriva dall’alto, niente avrebbe senso. Né il (sedicente quanto in realtà ambiguo) Bene né il (consapevole e assoluto) Male, né la filosofia né la caciara, né l’alto né il basso, né l’aulico né il volgare, né il maschile né il femminile, né la risata né la profondissima amarezza che rimane costantemente in filigrana. Né l’opera seria né l’opera buffa, che Bruno Dumont ormai da anni alterna nel procedere mirabolante del suo cinema. È per questo che inizia con un corpo nudo che prende il sole in campo lunghissimo, il “folle” e straordinariamente spiazzante L’Empire, in versione italiana semplicemente L’Impero, con cui il regista francese, due anni dopo il meraviglioso France probabilmente per ora all’apice della sua intera filmografia, ritorna al Nord della Francia e al suo filone più farsesco e sfacciatamente iconoclasta, racchiudendo in una dichiarata parodia della prima trilogia di Star Wars (ma in realtà un po’ di tutta la fantascienza, virando in intelligente caricatura intrisa dei volti putridi e veri che da sempre nel suo cinema popolano la Côte d’Opale tanto L’invasione degli ultracorpi quanto Arrival) una sorta di summa che riecheggia tutta la sua carriera, partendo dalle stesse inquadrature di Twentynine Palms, passando per i colori pastello di Hors Satan, per i primi piani di Jeannette/Jeanne e per le campagne di Flandres, e infine, con il ritorno della coppia di poliziotti inetti e pieni di tic composta dal tenente Rudy Carpentier e dal capitano Roger Van der Weiden (ma volendo già prima, dal “solito” incidente che dopo pochissimi minuti ribalta l’auto in fuga dopo il rapimento del bambino-Anticristo che, nel suo incarnare il Male più puro, sarà il motivo della battaglia finale fra gli Zero e gli Uno con cui Dumont costruisce non certo per caso in codice binario le caricature di Sith e Jedi), svelandosi come terzo capitolo di un’ideale trilogia con P’tit Quinquin e appunto Coincoin et les z’inhumains. Non un vero e proprio seguito, ma questa volta un film a latere ambientato nello stesso universo, in formato cinematografico e non in quattro puntate televisive, e soprattutto che non ha più bisogno del protagonista Quinquin/Coincoin (né degli zombie finali, perché a ben vedere a essere zombificata nella sua impotenza è già l’intera umanità) per ritrovare il medesimo costante sentore di morte e Apocalisse imminente, che in una comicità irresistibilmente scorretta e personalissima ma non per questo meno amara si instilla fra le pieghe apparentemente più demenziali e invece più intelligenti e profonde nel lavorare sui contrasti, sulle incoerenze, sulla distruzione e ricostruzione postmoderna di un intero immaginario.

Tanto che non è assolutamente un caso che i luoghi-simbolo e quartier generali delle due forze aliene, che fra proiezioni in 3D e consigli di anziani bifolchi sdentati a cavallo si contendono il “lucasiano” Impero scegliendo proprio la Terra come luogo della battaglia finale e gli uomini come esseri ibridi di cui prendere possesso della mente e della fisicità (ma come si diceva in apertura non delle emozioni e dei desideri che ancora fanno vibrare il loro corpo) inondando del proprio blob nerastro già di Coincoin le loro membra, siano astronavi con la forma della Reggia di Caserta e della Saint-Chapelle cattedrale gotica di Parigi. Come se l’unico possibile nemico del potere temporale e politico che aleggia per i giardini reali, di quel Male assoluto che si fa vanto del suo potere distruttivo e della sua perfidia, fosse un Bene solo apparente che in realtà nasconde fra le sue guglie un altro Male, quello del potere religioso, che ipocrita parla di voler donare al mondo pace e prosperità ma nel frattempo si interessa esclusivamente del proprio tornaconto, del proselitismo attraverso il quale espandersi e quindi di fatto controllare i popoli, della propria vacua autocelebrazione anche dopo i più tragici fallimenti. Della medesima spietatezza, per lo meno contro i nemici dichiarati, di cui è capace l’altra parte. Due parti capaci di attecchire sull’umanità con una semplicità disarmante, e poi inquietantemente di nascondersi diventando invisibili, incarnate in esseri indistinguibili (se non per qualcuno in grado di captare l’odore del nemico) gli uni dagli altri così come da chi ancora è rimasto semplicemente umano. Come un virus che si espande, mutando innocenti e trasformandoli in soldati di un qualcosa di più grande e potente, viscido, inafferrabile, inarrestabile come il destino e come la morte. Un consapevole e lucidissimo cinedelirio, presentato alla 74ma Berlinale e probabilmente vetta assoluta di un mai così ottimo concorso, che come spesso capita a Dumont verrà fortemente frainteso e sottovalutato se non proprio sbeffeggiato e che invece è semplicemente magnifico, con cui il regista e professore di filosofia francese non ha la minima paura di osare, di inoltrarsi nel genere spingendo a tutta fino al limitare del kitsch, per poi dimostrare ancora una volta proprio da lì – da intellettuale vero e senza pose quale è sempre stato – di essere un autore straordinario e ambiziosissimo, capace ancora una volta di stratificare le domande più profonde dell’umanità frullando insieme il nichilismo con la caricatura, la ricerca del senso della vita (e dell’inizio, e soprattutto della fine del mondo) con le spade laser e i veri e propri Spazi sottomarini che senza soluzione di continuità diventano universi del cielo, il senso dell’istinto più ancestrale (e quindi la passione, la violenza, l’amore, l’umanità) con un culo da palpare mentre ci si riprende per l’ennesima volta il figlio anti-Messia, o con il grottesco ed eccitato saltellare gigioneggiante di Fabrice Luchini, corpo rubato dal Re del Male a un’attempata guida turistica perché «la forma umana ha i suoi vantaggi», quando arringherà la schiera di malvagi Millennium Falcon pronti per la battaglia finale. L’ennesima e ormai consueta commistione dumontiana di attori famosi e celebrati (appunto Luchini, ma anche Camille Cottin regina degli Uno e Anamaria Vartolomei che riemerge da L’Événement come soldatessa del Bene con una bellezza talmente abbacinante da folgorare al primo sguardo persino gli antagonisti) e di volti non professionisti presi dalla strada, per la maggior parte abitanti di zona a partire dal villain Joni interpretato da Brandon Vlieghe che nella vita fa il meccanico in un’autofficina. Per un film lisergico, pirotecnico, ostinatamente folleggiante e imprevedibile, che proprio come l’umanità impossibile da salvare che racconta e mette in scena si pone costantemente in cerca di un punto di equilibrio. Fra il perfettamente noto e il mai visto, fra l’estetica vintage delle astronavi e la continua spiazzante invenzione di registro e di trama, fra il simbolismo e la furia iconoclasta, fra l’aulico e l’impertinente, fra il corpo e la mente, fra l’alfa e l’omega. Fra l’uomo e la bestia, che allo stesso modo si attrae, si annusa, si seduce, si ama e si detesta. Un uomo inutile e inadeguato come le sue forze dell’ordine, che si limitano a vagare facendo domande che non potranno mai trovare risposta. Rimarrà solo un grande buco nero, oscuro e vaginale nello sconvolgere e nel riprendersi la terra e il cielo, e poi a ri-creare e ri-partorire ciò che ha distrutto. O forse nemmeno (più) quello.

Marco Romagna

Ci è gradito comunicare che il film L’IMPERO di Bruno Dumont, distribuito da Academy Two, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione:
Sotto la superficie di esilarante parodia di fantascienza, declinata con lo stile stralunato e grottesco tipico dei suoi lavori e nei luoghi a lui sempre più cari, Bruno Dumont firma l’ennesimo film sulla condizione esistenziale dell’essere umano. La capacità e il coraggio di essere leggero, perfino demenziale di fronte alla complessità delle questioni in ballo, è il segno inconfondibile dell’intelligenza di un autore e del suo cinema
(uscita 13 giugno 2024)
“L'Empire” (2024)
110 min | Comedy, Sci-Fi | France / Germany / Italy / Belgium
Regista Bruno Dumont
Sceneggiatori Bruno Dumont
Attori principali Camille Cottin, Lyna Khoudri, Anamaria Vartolomei
IMDb Rating N/A

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