23 Febbraio 2025 -

KONTINENTAL ’25 (2025)
di Radu Jude

«Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti»
Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917

L’Italia del 1951, Roma, con i suoi salotti, con i suoi ghetti e con i suoi ospedali psichiatrici. La Francia del 2005, Clichy-sous-Bois, con i suoi incidenti sul lavoro e con le sue morti bianche di due operai. E ora la Transilvania del 2025, Cluj, con le sue speculazioni edilizie e con le sue tensioni mai del tutto sopite fra romeni e magiari. Come pietre miliari lungo il cammino (lineare? in tondo? concentrico? verso il baratro?) di un’Europa radicalmente cambiata, modernizzata, apparentemente evoluta nelle tecnologie quotidiane e negli scacchieri geopolitici, eppure (da) sempre rimasta quella medesima Europa iniqua e ipocrita dei primi anni del Dopoguerra. Un continente mai davvero unito nei suoi popoli chiusi e nelle sue differenze sociali, e anzi da sempre (o forse sempre più, nel generale inesorabile avanzare dei sovranismi e della gentrificazione più spregiudicata) classista, xenofobo, individualista, insensibile, al contempo vittima e aguzzino di un capitalismo fagocitante che tenta di nascondere sotto il tappeto le proprie prevaricazioni e la crudeltà con cui quotidianamente vengono perpetrate, dissimulandole dietro il volto rassicurante di un Occidente insincero ‘garante’ di equità e di democrazia. Un sistema che impunemente tripartisce il continente fra chi (ancora/di nuovo/sempre di più) soffre la fame, e magari direttamente muore di povertà e di sfruttamento, chi da lontano ne è direttamente colpevole ma è troppo occupato a contare i soldi e a moltiplicare i propri affari per mettersi una mano sulla coscienza, e chi sta in mezzo e probabilmente potrebbe anche fare qualcosa ma preferisce girare la testa, salvo magari, quando è ormai troppo tardi, sentirsi un po’ (ma nemmeno troppo, e comunque non per troppo tempo) in colpa per le proprie (collettive, individuali, dolose, preterintenzionali, perseguibili, impunibili: in ogni caso oggettive, e per ognuno di noi in quanto cittadini ineludibili) responsabilità. Eppure se vent’anni esatti fa, invitati da Enrico Ghezzi a realizzare un cortometraggio in occasione del centenario di Roberto Rossellini, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet avevano individuato la chiave per aggiornare e portare avanti il discorso politico e cinematografico del grande regista romano e del suo Europa 51 in una ben precisa panoramica, quella oggettiva-soggettiva da destra verso sinistra che per la prima volta squarciava i veli delle ipocrisie borghesi permettendo finalmente alla Irene di Ingrid Bergman di vedere la cruda realtà del popolo di borgata, fino a decidere di replicarla cinque (più cinque) volte nel loro capitale Europa 2005 – 27 Octobre, questa volta a Radu Jude non serve alcun movimento di macchina perché Kontinental ’25 ritorni sin dal titolo, e dalla splendida locandina in stile anni Cinquanta che guarda apertamente a quella originale (a sua volta ben visibile sullo sfondo in un lungo dialogo al bancone del bar), a ri-declinare all’indicativo presente la sempiterna e bruciante attualità del capolavoro rosselliniano al quale vuole rendere omaggio, in un tempo di ondate reazionarie e ultranazionaliste nel quale non c’è più modo di fare del bene fino a quella sostanziale santità che i borghesi degli anni Cinquanta preferivano internare come follia, ma solo per la breve transitorietà di un trauma da superare in un circolo vizioso di amoralità e di colpevole immobilismo.

È per questo che Kontinental ’25, presentato nel concorso principale della 75ma Berlinale (occasione per Radu Jude di sfruttare la tradizionale firma sulla foto di registi e cast per aggiungere di proprio pugno un ben chiaro «Fuck Putin, fuck Trump!» che non lascia spazio ad alcuna ambiguità) dove ha vinto l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura, è sin dalla genesi un film in qualche modo quasi clandestino, proprio come erano a tutti gli effetti clandestini i non-attori e gli stock di pellicola scaduta con cui Rossellini, pochi anni prima di Europa 51, aveva appena rivoluzionato per sempre il cinema con i vari Roma città aperta, Paisà e Germania Anno Zero. Un film girato in tempi ridottissimi, una decina di giorni, e a costi pressoché irrisori durante una breve pausa delle riprese dell’atteso Dracula che l’autore rumeno ha ancora attualmente in produzione, sfruttando proprio come la cineserialità “in contemporanea” back to back le medesime location e buona parte di attori e maestranze già sotto contratto per l’altro e principale lavoro, e snellendo al massimo la squadra e le attrezzature con la decisione di strutturare l’intero lungometraggio in lunghi pianisequenza fissi per filmarlo integralmente (e non più, come nell’incipit ‘piccante’ che dava l’avvio allo scandalo e alle speculazioni sull’osceno di Bad Luck Banging or Loony Porn, usando il telefono per un solo e isolato momento soggettivo in verticale) con un iPhone 15. Una scelta non certo casuale, verso un oggetto tecnologico che da una parte è simbolo stesso (o forse sarebbe meglio dire status symbol, con tutte le fascinazioni e distrazioni di massa che ne conseguono) di quel Capitale che Jude con Kontinental ‘25 ancora una volta sistematicamente demolisce dalle fondamenta penetrandone uno per uno i cortocircuiti più profondi, e dall’altra, quando l’ottica di quello che è pur sempre un cellulare perde e ritrova il fuoco, oppure quando finisce per sgranare i dettagli nel buio-non buio del rumore digitale, è aberrazione dell’immagine che sa essere miope proprio come la società che il film mette alla berlina. Perché non può che esserci lo sguardo, al centro di un film sulla sostanziale impossibilità di ritrovare una propria etica, di fare realmente del bene senza che sia l’ipocrisia di un servizio preconfezionato di una multinazionale telefonica o di un servizio bancario, di sfuggire al conformismo imposto dal ruolo di pedina del sistema, e poi ai propri dilemmi di coscienza come tardive lacrime di coccodrillo. Un film che nasce da un vecchio articolo di giornale sul suicidio di un disperato di mezza età, impiccatosi mentre gli ufficiali giudiziari e le forze dell’ordine aspettavano che sgombrasse lo squallido sottoscala nel quale aveva trovato rifugio, non perché qualcuno si fosse mai lamentato della sua presenza, ma perché il Capitale aveva deciso che l’intero palazzo dovesse essere demolito per fare spazio a un gigantesco hotel di lusso e di certo non poteva essere un uomo invisibile a fermarne i piani legalmente approvati dal Potere e dalla legge. Una vicenda che Radu Jude, sempre spiazzante nelle forme e sempre iper-stratificato in ogni singola inquadratura, riprende per filo e per segno per poi virare sulla crisi di coscienza di Orsolya, funzionaria esecutrice dell’ordine di sgombero, perfettamente innocente agli occhi della legge ma incapace di guardarsi allo specchio, o per lo meno di togliersi dal fondo degli occhi la visione di quell’uomo senza vita appeso con del fil di ferro al proprio termosifone, proprio come settantaquattro anni fa Irene/Ingrid non riusciva a togliersi dagli occhi quei palazzoni sovraffollati di bambini senza pane. O forse stavolta sì, in un progressivo ritorno a una sempre maggiore insincerità perbenista che riporta ciò che disturba verso i margini e poi fuori dal campo visivo, fra un tradimento che più che (botta di) vita trasuda una freddezza mortifera e un segno della croce con cui sentirsi di nuovo in pace e pronti per raggiungere la famiglia in vacanza, mentre la città continua a trasformarsi un palazzo dopo l’altro e ognuno (di noi), dentro le proprie quattro mura, volente o nolente è colpevole di esserne – appunto – sguardo. Parte di un meccanismo perverso e al contempo spietato nella sua scelta di distrarsi per non vederne le più evidenti storture, e cinicamente ignorarle mentre porta avanti la propria vita senza curarsi troppo di ciò che sta fuori dal perimetro della sua casa così diversa e così uguale a tutte le altre case, passate in rassegna nel loro eterno crescere e mutare proprio come una dopo l’altra scorrevano le croci a bordo strada nella sospensione prefinale di Do not expect too much from the end of the World.

Parte come una tragedia intrisa della consueta pungente ironia di Radu Jude, Kontinental ’25. Con la prima sezione, terribile quanto irresistibilmente spassosa, dedicata al povero senzatetto che gira per la città pisciando per strada e cercando invano un lavoro ma finisce piuttosto per litigare con gli animatronix dei dinosauri al parco che diligentemente tiene pulito. Tuttavia, quando la narrazione si sposterà (in una sorta di espansione della prima parte di Bad Luck Banging or Loony Porn) su un personaggio del tutto privo di ironia come quello di Orsolya, di origine magiara e spartita fra i litigi con una madre fanatica di Orban che non ha mai digerito il 1918 e i clickbait ultranazionalisti rumeni che la raccontano come ungherese assassina, coerentemente anche il tono del film di Jude virerà verso una commedia sarcastica che non vuole più necessariamente fare ridere, ma semmai attraversare un crescente stridore di povertà morale e di spirito nei suoi incontri e nei suoi confronti, nella sua disperata ricerca di un conforto impossibile nella desolazione morale della società transilvana contemporanea, e soprattutto nel suo senso di responsabilità costantemente in bilico: attiva come quella di chi ha dato l’ordine quando forse avrebbe potuto temporeggiare ancora per qualche mese, e passiva come quella di chi ha agito secondo la legge eseguendo l’ordine di un tribunale; attiva come quella di chi non può più distogliere lo sguardo e non può fare a meno di vedere la desolante realtà appena al di fuori del proprio rasserenante giardino, e passiva come quella di chi invece riesce a continuare a guardare dall’altra parte, o a (ricominciare a) vivere nell’illusione di un mondo che non esiste. Senza, sia ben chiaro, che il punto sia in alcun modo giudicare. Il punto è semplicemente la consapevolezza, rendersi conto, sapere, e in qualche modo essere costretti a farci i conti e a sopravvivere. Magari, se possibile, un pochino meno stronzi ed egoisti. Consci che un sms da 2 euro al mese in beneficienza nient’altro sia che un modo per lavarsi la coscienza, consci che nemmeno una scopata con un ex-studente (ovviamente costretto a fare il rider) può realmente consolare o fornire una qualche risposta, consci che come nel Detour di Ulmer che passa in televisione non si può sfuggire al destino e alla colpa anche e soprattutto se ingiusta, ma solo continuare per sempre a fuggire, oppure genericamente trovare qualcuno o qualcosa su cui scaricarla e rifugiarsi nella solita ipocrisia. La stessa della legge, la stessa della società, la stessa della polizia che, con ragione, al di là del rimorso della protagonista non rileva alcun reato per cui indagarla. La stessa di un marito che minimizza il suo malessere e la stessa di una madre che ha invece riscoperto la xenofobia. La stessa di un’amica che si dice angustiata e invece è sollevata che un altro pover’uomo che «puzzava di merda» sia sparito dal suo isolato, mentre nel frattempo dona qualche spicciolo col cellulare per i campi rom e programma la prossima vacanza preferibilmente a scrocco. La stessa del sacerdote ortodosso che parla di carità e di amore mentre dà la colpa al suicida semplicemente in quanto suicida, e prendendo a calci la macchinina radiocomandata di un bambino dispettoso prende a calci tutta una modernità tecnologica che, come già il cane robot e i dinosauri meccanici per il suicida, sembra quasi un fastidio in un mondo che non ha mai realmente superato la sua arretratezza morale e culturale, e che anzi si sta rituffando a capofitto nei campanilismi reazionari, nelle ingiustizie sociali e nei più imperdonabili errori del passato. L’Italia del 1951, la Francia del 2005, la Transilvania di oggi. Ovvero la speculazione di palazzinari e bed and breakfast, la perdita della coscienza di classe, il ritorno degli antichi dissapori etnici. La ciclica flagranza di un intero continente, e i modi (il dramma, il saggio breve sperimentale, e ora la satira) con cui osservarla e ogni volta smascherarla. Continuando il solco di quel percorso cinematografico e politico, ma anche sociale e filosofico, che da Bad luck banging or loony porn aveva già trovato il suo (per ora) apice con Do not expect too much from the end of the World, e che ancora una volta grida a piena voce l’intelligenza assoluta, pura, cristallina, di un autore che anche in un film dichiaratamente minore per genesi e produzione si conferma di gran lunga fra i più indispensabili della contemporaneità.

Marco Romagna

“Kontinental '25” (2025)
109 min | Comedy, Drama | Romania / Switzerland / Luxembourg / Brazil / United Kingdom
Regista Radu Jude
Sceneggiatori Radu Jude
Attori principali Eszter Tompa, Annamária Biluska, Marius Damian
IMDb Rating N/A

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