27 Ottobre 2024 -

HEY JOE (2024)
di Claudio Giovannesi

Billy Roberts avrebbe composto solo nei primi anni Sessanta l’omonimo brano che Jimi Hendrix, fra il ’66 della prima registrazione con gli Experience e il ’69 della leggendaria performance con cui avrebbe chiuso ben oltre l’alba la tre giorni di Woodstock, avrebbe reso definitivamente immortale. Eppure, nella Napoli del ’44 che apre Hey Joe in un magnifico flashback fra macerie, puttane e la breve e intensissima storia d’amore del giovanissimo soldato americano Dean Barry con una bella coetanea dei Quartieri Spagnoli, per gli italiani ridotti in povertà dal fascismo e dal conflitto tutti i militari a stelle e strisce sono da chiamare «Hey Joe». Come una sorta di insistito richiamo per yankee che si sparge per il popolo alla stregua di un grido di speranza: un «Hey Joe» per vendersi e sperare di farsi salvare, magari per innamorarsi, sicuramente per sognare una vita diversa e un futuro migliore dopo la devastazione di una guerra che finalmente si stava avviando verso la fine. Un significato a ben vedere opposto rispetto alla disperazione dell’uxoricidio e della fuga che emergono del testo della canzone, ed è probabilmente per questo che Claudio Giovannesi, per quanto la maggior parte del film con cui torna alla regia a quasi sei anni di distanza da La paranza dei bambini sia ambientata nel 1971 e quindi ben dopo la pubblicazione e la cover di Hendrix, decide di non utilizzarla, preferendo inserire nella colonna sonora l’amore nascente di Can’t help falling in love o al massimo quello malinconico ma alla fin fine ritrovato della sempre stupenda Era de maggio. Per quanto di certo non manchi la disperazione, nella parabola attraverso cui si dipana Hey Joe. Un romanzo di formazione per lo meno triplo (il padre, il figlio, la prostituta Bambi, ma forse a crescere c’è anche qualcuno in più), che prima di potere far germogliare l’intensità umana di un’emozione reciproca e familiare non può fare a meno di passare inevitabilmente per il senso di colpa (personale, ma in un certo senso anche della Storia) e per il debito morale o di riconoscenza, per l’abbandono e per il rifiuto, per la condanna inalienabile a un’ereditaria vita criminale e per l’inevitabilità di una nuova colpa con cui definitivamente far slittare il film dai territori del melodramma neorealista fino a quelli del thriller-noir – del resto, come diceva Čechov, se si mostra una pistola prima o poi deve necessariamente sparare. Ma anche per il fallimento, per l’alcolismo, per le difficoltà economiche, per la sindrome post-traumatica da stress, per il disprezzo di un’ex-moglie americana, per un ricordo a cui tornare, per il (troppo?) tempo ormai perduto, per le difficoltà linguistiche e culturali, per un consuocero e boss camorrista sempre più ingombrante, per un figlio mai visto e con il quale tentare di ricostruire un rapporto, per un nipotino che nemmeno si sapeva esistesse. Per le conseguenze più estreme della Seconda Guerra Mondiale nei rapporti fra Italia e Stati Uniti, e in generale dei conflitti bellici su chi li subisce, fra ragazze madri, figli abbandonati ancora in grembo una volta finito il momento del reciproco bisogno, e padri che ritornano reduci a cercare di rimettere ordine fra i detriti più polverosi e sofferti del passato. Fino a una folle corsa in motoscafo fra i flutti, a un pranzo sulla spiaggia, a una visita al cimitero, a una partita a braccio di ferro. A una catenina con la medaglietta di Santa Lucia, «come la nonna», regalata «per la vita» e per un affetto finalmente sincero e inaspettato che emerge mentre ci si rende conto che, ben al di là della biologia, i figli e i nipoti sono di chi li cresce. Ma anche a uno sguardo silenzioso che dice più di quanto potrebbe fare qualsiasi parola, a una scaletta su cui decidere di non salire, e a una porta alla quale tornare a bussare rifiutandosi di ripetere gli errori del passato, pronti ad accettarne le eventuali conseguenze.

Parte da una lettera consegnata con tredici anni di ritardo, il viaggio di Hey Joe. Un viaggio che per andare avanti deve necessariamente tornare a ritroso nel tempo e nei ricordi, verso quell’amore giovanile in terra straniera, verso i fantasmi irrisolti di una vita, verso il rimorso per aver tentato di dimenticare e di passare oltre. Verso la propria inadeguatezza e il proprio colpevole egoismo, reo come molti altri soldati di aver sfruttato la povertà di una ragazza che cercava un avvenire diverso e di averla poi lasciata indietro e dimenticata appena finito il conflitto, nemmeno pensando alle proprie responsabilità. Ma adesso, e anzi in realtà da tempo, «Lucia è morta e il piccolo Enzo, 12 anni, sta bene e vorrebbe conoscere suo padre». Un figlio abbandonato prima ancora che nascesse e nel frattempo cresciuto e diventato prima ragazzino e poi uomo da solo, orfano di madre e con un padre biologico che non ha mai pensato a lui, sfortunato perfino nel disguido postale che ha allungato di un’altra metà della sua vita la sua solitudine. In mezzo Dean come un novello Ulisse irrequieto e alla deriva, a sua volta vittima della guerra, di se stesso e del proprio isolamento, che ha combattuto altri due conflitti e che è andato in congedo come veterano, che ha sposato e forse mai realmente amato una donna la quale ora vorrebbe pure portargli via pure la casa di famiglia, e che si ritrova strozzato dai vizi e dai debiti al punto di dover vendere la Mustang per poter acquistare il volo d’andata con cui ritornare dopo ventisette anni dal New Jersey a Napoli per cercare quel figlio mai incontrato, ma che ora potrebbe essere l’unico modo per rimediare a qualche torto e ridare senso e dignità alla propria vita. Una ricerca a cavallo fra due lingue e due differenti modi di vivere, trovando ogni volta il modo di comunicare e di comprendersi fra l’italiano un po’ stentato di James Franco al quale Giovannesi affida il ruolo del protagonista e l’inglese, comprensibilmente non troppo fluido ma fondamentale per fare affari con la base NATO ancora attiva, dei napoletani del ’71. Una ricerca nella quale girare per i Quartieri Spagnoli fino a trovare ben presto il figlio e scoprirlo legato al boss della malavita che lo ha cresciuto nella sua assenza, nella quale venire rifiutato e poi scegliere di «insistere», nella quale pagargli un debito e portare personalmente la barca nel mare agitato in cui deve recuperare il carico di sigarette di contrabbando. Una ricerca nella quale cercare disperatamente di salvarlo dal suo destino e di portarlo con sé in America, disposto a rinunciare a tutto pur di recuperare il tempo perduto, fra falsi alibi, (ultime) cene e fiori al cimitero, fra svendite delle proprietà, colpi di pistola e coltellate. Ma anche una ricerca nella quale venire truffato e derubato salvo poi scoprire la solidarietà di Napoli, la cooperazione del reciproco aiutarsi, e forse pure l’amore, finalmente legame umano puro e più forte di ogni egoismo e di ogni debito pregresso. Ben oltre quell’abbandono che porta inizialmente Dean a sentire l’obbligo di ritrovare Enzo, ben oltre quella riconoscenza che porta Enzo a non potersi allontanare dalle attività criminali imposte da don Vittorio che ora quotidianamente lo ricatta per avergli fatto da padre, ben oltre quel furto della prima sera insieme per il quale la prostituta Bambi non può esimersi dall’aiutare Dean, che nel frattempo continua a rifornirsi a prezzo esclusivo per i veterani di oggetti da rivendere insieme per potersi permettere il viaggio di ritorno e la possibilità stessa di redimersi. Fino a quella serata di fronte alla televisione in cui scoprirsi molto più vicini di quanto pensassero, e poi a una casa sul mare in cui forse scoprirsi famiglia, o per lo meno illudersi di poter (soprav)vivere.

Elementi di un film sorprendente, commovente, crepitante, semplicemente bellissimo nel suo giocare apertamente con i generi per poi piazzare le sue stoccate emotive, con cui Claudio Giovannesi sembra essersi definitivamente liberato dei limiti che ancora depotenziavano i suoi lavori precedenti, promettenti ma sempre con qualcosa che non permetteva loro di poter davvero volare, e finalmente trova la strada per innalzarsi fra i grandi autori italiani contemporanei. Con un lungometraggio, scritto insieme a Massimo Gaudioso e Maurizio Braucci traendolo da una vicenda realmente accaduta e diventata al tempo leggendaria per le vie di Napoli, e fotografato con i toni profondi dell’ormai fedele sodale Daniele Ciprì, che avrebbe ampiamente meritato la vetrina principale del concorso veneziano e forse pure qualche premio, e che invece alla fine è stato presentato nella sezione non competitiva Grand Public della 19ma Festa del Cinema di Roma, come una sorta di anteprima giusto poche settimane prima dell’uscita in sala. Rivelandosi un film ambiziosissimo e senza alcuna caduta di tono, ed anzi per tutte le due ore del suo scorrere in un costante crescendo emozionale ed espressivo capace di coniugare la dolcezza di Fiore con l’amarezza di Alì ha gli occhi azzurri, in cui Giovannesi costruisce le due Napoli storiche della metà degli anni Quaranta e dell’inizio dei Settanta per innestarle in archivi di guerra e (meta)filmati in Super8 del battesimo del piccolo con un “altro” nonno troppo ricco, potente e spietato per poter realmente competere, ma soprattutto in cui porta ai vertici la sua capacità, invero già più che apprezzabile nei lavori precedenti, di dirigere gli attori. Con il già citato e straordinario James Franco che prende sulle proprie spalle e sui suoi primi piani tutto il peso emotivo della vicenda, mentre intorno a lui Aniello Arena supera Reality trovando quella che è probabilmente la performance della vita, Giulia Ercolini sfrutta al massimo il suo primo ruolo importante regalando una Bambi indimenticabile, e Francesco Di Napoli già protagonista de La paranza dei bambini dimostra di essere cresciuto proprio come il cinema dell’autore che nuovamente lo convoca sul suo set. A Giovannesi basta impostarli e poi pedinarli, per rendere Hey Joe strabordante. Gli basta non allontanarsi mai da loro mentre, come di consueto nel suo cinema ma sempre meglio, passo dopo passo ed errore dopo errore i loro personaggi crescono e si scoprono finalmente migliori, capaci d’amare, liberi, redenti. Forse per la prima volta realmente vivi, fra il passato, il presente e una – probabilmente impossibile, o forse no – catarsi. Questione di testa, questione di cuore. Questione di (grande) cinema, che finalmente consacra un talento di fronte al quale non si può più in alcun modo girare la testa facendo finta di non vederlo. Come una lettera giunta magari un po’ in ritardo ma finalmente a destinazione, che recita più o meno «Claudio Giovannesi, 46 anni, non è mai stato così bene, e gli piacerebbe molto trovare il pubblico che merita».

Marco Romagna

“Hey Joe” (2024)
Drama | Italy
Regista Claudio Giovannesi
Sceneggiatori Claudio Giovannesi
Attori principali James Franco, Will O'Donnell, Amy Blackman
IMDb Rating N/A

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