7 Settembre 2024 -

L’ORTO AMERICANO (2024)
di Pupi Avati

Bastano giusto un paio di sequenze specificatamente horror a Pupi Avati per ritornare ancora una volta, cinque anni dopo Il Signor Diavolo, dalle parti del suo glorioso Gotico padano. Del resto non cerca quasi mai l’effetto-sorpresa di un jumpscare L’orto americano, tratto dall’ultimo e omonimo romanzo pubblicato meno di un anno fa dallo stesso ottantacinquenne scrittore e regista bolognese, ma costruisce la sua atmosfera sempre più opprimente lavorando esattamente all’opposto sulle aspettative e sulla suspense dello spettatore, sul capire ciò che i personaggi devono ancora elaborare ma che sta per accadere sullo schermo con tutte le sue ovvie conseguenze, su una prevedibilità necessaria perché il senso di ansia possa avvinghiare chi guarda e già sa. Un sostanziale, per quanto non esplicito come in un Tenente Colombo, ribaltamento del whodunit per cui la tensione orrorifica può tranquillamente emergere da ogni singola inquadratura consapevolmente a cavallo fra i generi, in una storia d’amore disperato e mistero che parte da un (im)possibile melodramma storico nel secondo Dopoguerra per innervarsi progressivamente degli elementi di un thriller soprannaturale fatto di una spirale di voci dall’aldilà, mutilazioni, promesse, udienze, esecuzioni e manicomi, mentre la rivelazione (pre)finale verrà più volte suggerita da indizi sempre più evidenti fino a essere già perfettamente chiara a tutti nel momento in cui anche il protagonista metterà insieme i pezzi del puzzle, caricando così di puro brivido spettatoriale il suo inconsapevole inoltrarsi nella tana del lupo. Il resto, nella sospensione abbacinante di un bianco e nero digitale in cui tutto è talmente chiaro da apparire fosco e misterioso, lo fanno gli interni geometrici su cui si allungano le luci e le ombre espressioniste e splendidamente baviane dell’amore e della morte, della memoria e della malattia mentale, dell’Italia e dell’America; lo fanno le candele con cui scendere le scale fra scarpe e vestiti femminili, lo fanno le musiche di Stefano Arnaldi così profondamente inquietanti nelle modulazioni più acute del theremin, lo fa quella bara che si riapre all’improvviso con la sua morte solo apparente riportando come d’incanto ai ritorni in vita di Zeder. Dalle immagini d’archivio di un’Emilia occupata e non ancora liberata, già perfetto orrore (della guerra) nei suoi cumuli di cadaveri caduti in terra straniera, all’innamorarsi a prima vista di quell’infermiera militare statunitense entrata per chiedere un’informazione stradale dal barbiere, per poi ritrovarla inaspettatamente dall’altra parte dell’Oceano ma solo nei ricordi e nelle foto di una madre che la piange pur senza averla mai trovata, e rimettersi ancora sulle sue tracce fra Ferrara e la Romagna passando per un macabro ritrovamento, per un’etichetta da qualche parte fra Pindaro e Bacchilide, per un prete americano con cui tentare di decifrare i messaggi, per un lutto, per un decreto di espulsione che arriva forse un po’ troppo brusco ma non per questo meno narrativamente efficace. E poi per un’arcana locandiera, per una sorella, per una lettera, per un venditore di cadaveri, per un promesso sposo italiano, per un pretendente d’oltreoceano, per un processo pubblico, per un colpevole, per un innocente, per l’ipocrisia dei singoli e della società, fino a un nuovo ricovero in manicomio proprio quando si sarà definitivamente in grado di raccontare la verità ma nessuno ci vorrà (più) credere.

Non è difficile vedere una nuova proiezione delle malinconie senili dell’ultimo Pupi Avati, nel giovane e anonimo protagonista che il regista bolognese affida al già Fabietto/Sorrentino di È stata la mano di Dio Filippo Scotti. Un aspirante scrittore, dopo Dante ancora una volta poeticamente innamorato di una figura angelicata e irraggiungibile, ma soprattutto, dopo Lei mi parla ancora e La quattordicesima domenica del tempo ordinario, un animo sensibile (che il mondo dei sedicenti “normali” tenta di curare con «la doppia» insulina ed elettroshock) che ancora dialoga con i suoi morti, che ne percepisce la presenza residua nelle fotografie e negli ambienti, che ne sente la voce, le grida disperate nella notte, la paura, l’angoscia del trapasso. La memoria. Un personaggio che, nella sua malattia mentale specchio di un intero Paese ancora troppo vicino alle ferite di guerra per poterle veder cicatrizzare, o forse nella sua capacità emotiva di andare oltre i tre metri di terreno che separano la menzogna e l’ingiustizia dalla verità, incarna quella sorta di ponte fra la vita e la morte nel quale affonda le sue radici L’orto americano, presentato in chiusura dell’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e sostanziale trait d’union che lega l’Avati del filone La casa dalle finestre che ridono con quello più autoriflessivo e autobiografico delle ultime sortite. Un Avati che, inevitabilmente, sente avvicinarsi il momento del congedo dal cinema ma soprattutto dalla vita, e che nel disturbo psichico del suo protagonista innesta in qualche modo il proprio guardarsi indietro, verso i suoi morti e le sue nostalgie, verso i suoi affetti lasciati per strada e i suoi ricordi a cui dare una nuova forma – cinematografica – per sentirli di nuovo vivi. Ma anche verso un’Italia vissuta da bambino e finora mai messa personalmente in scena, un’Italia ancora in macerie che cercava disperatamente di uscire dall’incubo bellico, un’Italia ancora impaurita e ancora affamata che viveva l’urgenza impellente di ridare a se stessa un’immagine di sé finalmente pulita e rassicurante dopo i crimini del fascismo e paradossalmente proprio per questo ancora ingiusta, pronta a giudicare sommariamente, di pancia, e ad eseguire le sentenze prima che le fosse necessario rendersi conto dell’eventuale errore. Un’Italia oscura e decadente, a cui L’orto americano contrappone la fondamentale sezione nel midwest americano, tanto luminosa nella sua apparente tranquillità in cui mettersi a partorire un libro in un luogo lontano sia dallo stereotipo dei grattacieli newyorchesi sia da quell’Italia che tentava timidamente di ricostruirsi dalle sue rovine, quanto capace di rivelarsi allo stesso modo nerissima appena calano le tenebre, appena una madre chiamerà ancora quella figlia che non c’è più (o forse sì) e ne guarderà per un’ultima volta i sorrisi in 8mm, appena un barattolo di resti umani in formalina griderà da sotto terra il suo dolore e segnerà, con una misteriosa etichetta letteraria in italiano, il suo indissolubile legame con il delta del Po. Elementi che porteranno l’amore idealizzato e platonico del protagonista verso una torbida e indicibile storia di omicidi seriali e mutilazioni, di incubi notturni e di sentenze della corte, di ipotesi alternative nemmeno prese in considerazione e di inevitabili sguardi di minaccia da un’automobile in campo lungo, con cui Pupi Avati apre ancora una volta le porte del suo immaginario al genere (e ai suoi attori-feticcio, da Massimo Bonetti ad Andrea Roncato passando per Chiara Caselli) per ridipingere sullo schermo la tensione, il brivido, l’aspettativa (dis)attesa, ma anche il confine sfumato con l’Aldilà, quello fra la verità e la menzogna, e ancora quello fra il sentimento e la mancanza. Un omaggio accorato e consapevolmente terminale a un cinema che non c’è più, da qualche parte fra le atmosfere di Mario Bava e la gestione della suspense secondo Alfred Hitchcock, che fra (tanti) pregi e (pochi) limiti segna il senso ultimo di un film al quale è semplicemente impossibile non volere un gran bene, pronti a sfoderare le unghie per difenderlo a spada tratta da tutte le ingenerose sottovalutazioni e da tutti i frettolosi fraintendimenti a cui, proprio come il suo protagonista e come spesso nella carriera di Avati, andrà quasi inevitabilmente incontro.

Marco Romagna

“L'Orto Americano” (2024)
107 min | N/A | Italy
Regista Pupi Avati
Sceneggiatori N/A
Attori principali Rita Tushingham, Chiara Caselli, Robert Madison
IMDb Rating N/A

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