Da una parte il ‘gatto fantasma’ Anzu, spirito percepibile e anzi deputato a interagire con gli umani fra i mille spiriti invece invisibili del regno dei morti, che entra in scena direttamente in sella alla sua motocicletta. Un gigantesco e tondeggiante gattone antropomorfo dai colori pastello e dal sorriso kawaii che in trentasette anni non è mai morto e non è mai invecchiato, ma che in compenso ha imparato a parlare e a guidare (senza patente), e soprattutto ha imparato a nascondere coraggio e bontà dietro a una folta cortina di furbizia, di indolenza e di sarcasmo spesso volgare con cui si diverte a rendersi a prima vista simpaticissimo eppure indisponente. Dall’altra Karin, l’undicenne protagonista, a sua volta disegnata in tratto kawaii nei suoi capelli viola e nei suoi occhioni verdi, e a sua volta molto più complessa e malinconica di quanto la sua indole e il suo character design vogliano dare a vedere. Una bambina lasciata con false promesse di ritorno da un padre vedovo, indebitato e inaffidabile presso il tempio del nonno monaco, e sempre pronta a trincerarsi dietro a un carattere apparentemente scontroso e glaciale che è invece l’unica possibile autodifesa dal dolore esistenziale per il lutto mai superato della madre, la maschera da indossare per sopportare la solitudine, l’angoscia e il senso di abbandono. È per questo che inizialmente sarà inevitabile uno scontro, in Ghost Cat Anzu, o per lo meno un attrito nei primi sfiorarsi fra due superfici così ostentatamente ruvide. Ma è proprio dal loro (avventuroso) incontro e dal superamento delle barriere che Karin riuscirà finalmente a elaborare l’inaffrontato e a «crescere in fretta», e il gattone Anzu a riscattarsi come vero e proprio eroe, come infinito amico, come «Anzu-chan» del magnifico, rapido, incisivo, maturo finale in cui scegliere come e dove proseguire la propria vita. Passando per un intero mondo di spiriti, di rane giganti e di funghi barbuti, di volti rugosi senza corpo e di demoni supremi con cui necessariamente dover trattare, per una bicicletta rubata e per una confessione, per un fiume di ricordi e per un ritorno insieme a Tokyo, per il regno dei vivi e per il regno dei morti, per il dio della povertà e per il più antico folklore shintoista. Per uno spettacolare inseguimento contromano in autostrada, e – perché no? – per una coppa del cesso che mette provocatoriamente in comunicazione i diversi mondi – vincere il disgusto, vincere la paura, vincere forse perfino la morte, o per lo meno riuscire finalmente a farci pace. Un florido immaginario che intreccia più immaginari, quello del sempre poliedrico Nobuhiro Yamashita (che nel suo esplorare generi e modalità narrative sin dai tempi del capolavoro Linda Linda Linda già nel live action aveva cercato e trovato l’altezza bambino nel 2016 con My uncle), ora al suo (nuovo) esordio nell’animazione, e quello della giovane animatrice Yōko Kuno che invece, dopo essersi imposta come key animator su diversi lavori e aver realizzato un pugno di corti a sua firma, compie ora il grande passo dell’esordio alla (co)regia di un lungometraggio. Ma anche quello dell’autore dell’omonimo manga e qui sceneggiatore Takashi Imashiro, uniti per trasformare i limiti produttivi in solida base da cui partire per trovare una forma da qualche parte fra la tradizione (degli anime, ma anche dei fumetti, non solo nipponici) e una nuova via di linee e fluidità magari non sempre perfette, ma non per questo meno efficaci.
Sta tutta qui la scelta, quasi inevitabile, di caratterizzare il gatto Anzu riprendendo le linee e alcuni colori (con il blu sostituito da un più caldo arancio, ma con gli stessi chiaroscuri nel pelo) di Doraemon, già a suo (lunghissimo) tempo realizzato dalla Shin-Ei Animation che insieme alla francese Miyu Productions co-produce a costo relativamente basso anche questo Ghost Cat Anzu, ed è per questo che l’ispirazione per il volto rugoso e baffuto del nonno monaco sembra provenire invece da qualche parte fra Poldo e Mr. Magoo. Figure semplici e in qualche modo già presenti nell’immaginario collettivo, da far (ri)vivere in un’animazione parziale splendidamente “mascherata” nel loro tratto buffo e gentile in movimento su fondali che alla precisione fotorealistica dei dettagli preferiscono un’espressività pittorica quasi impressionista, quando necessario sovraesposta e leggermente sfocata, in cui immergersi fra la realtà e il sogno, fra acqua, terra, aria e fuoco. Senza bisogno di cercare la perfezione di uno Studio Ghibli (anche se, fra il sovradimensionato Anzu che al di là della somiglianza grafica con il già citato gatto-robot nel suo cuore grande e nei suoi abbracci con la bambina quasi sembra una versione sfacciata di Totoro, e in generale il romanzo di formazione attraverso un intero mondo di spiriti che non può che richiamare alla mente La città incantata, qualche sguardo nella direzione di Miyazaki sembra abbastanza evidente e forse anche ineludibile), ma puntando semmai a un’estetica in qualche modo ibrida, meticciamento di più stili grafici (e probabilmente anche di più tecniche, “aiutando” l’animazione tradizionale con rotoscopio e motion capture) in un perfetto connubio di istanze. Il resto, presentato dai due registi portando in trionfo un tenero peluche di Anzu alla Quinzaine des Cinéastes 2024, come d’abitudine indipendente e come d’abitudine annessa al Festival di Cannes, è un’ulteriore chiave con cui giungere insieme all’elaborazione del lutto, a una nuova e piena consapevolezza, all’eroismo intrinseco nei valori più profondi dell’amicizia e dell’amore. A una tenerezza apparentemente impossibile, e invece solo da capire e da coltivare, da ritrovare nella memoria e nel fondo del cuore. In quel mondo di spiriti dove lo spirito Anzu ridiventa semplicemente un innocuo e normale micetto, ma ancora trova il modo di proteggere Karin distraendo i demoni-sentinella, e poi di nuovo nel mondo dei vivi in cui tornare nuovamente ai suoi poteri antropomorfi con cui seminarli. Lasciando a una madre a una figlia il tempo necessario per ritrovarsi e per crescere insieme. Senza paura di difendersi a vicenda dal pericolo e dall’ignoto, e soprattutto ancora capaci di amare per tutta la vita e fin dopo la morte, e di scherzare amorevolmente camminando sulle mani quando si ritornerà consapevoli nel proprio posto. Magari separato dal mondo da tre metri di terra, ma mai davvero reciso dai sentimenti di chi resta, per sempre parte di un’esistenza ancora tutta da vivere, del più prezioso dei possibili lasciti. Un film che – va detto – forse ci mette qualche minuto di troppo a ingranare, ma che poi entra negli inferi e proprio da lì inizia invece a volare, fra un padre da salvare e una madre con cui definitivamente chiarirsi, non più ombra ma corpo, sorriso, inestimabile transfert emotivo sulla figlia. Senza alcun bisogno di fronzoli, né di retorica. Basta il talento. Basta la fantasia. Basta il cuore. Di mamma, di figlia, di padre. Di gatto. Come un treno che si allontana senza (più) alcun rimpianto.
Marco Romagna