Tre episodi, uniti in intenti e dialettica ma con protagonisti che non si conoscono, non si toccano né si vedono, abitano in città diverse, appartengono a diverse classi sociali. Sei tra fratelli e sorelle di varia origine, due genitori ancora in vita, due genitori morti. Jim Jarmusch, pioniere del cinema indipendente statunitense, sbarca a Venezia82 col suo nuovo lungometraggio antologico, opera solo apparentemente “piccola” e dalle ambizioni scarne, e ben diversa in intenti e forma agli ultimi tre film di finzione (lo pseudo-horror-vampiresco passatista Only lovers left alive, lo slice-of-life poetico Paterson, lo zombie-movie politico The dead don’t die: tre “eccezioni che confermano la regola” di respiro sempre meno convincente). Father Mother Sister Brother, prodotto da Yves Saint Laurent e MUBI, anzi, piuttosto che eccedere in pretese si fa quasi beffa della percezione di significato e significante, e lo fa con spontaneità, senza filosofeggiare, meramente essendo quello che è, ovvero uno studio comportamentale travestito da commedia. Il cast stellare è la prima delle prese in giro: Tom Waits è il “Father” del primo episodio e Adam Driver con Mayim Bialik (di Big Bang Theory [sic]) sono i suoi figli, sì, e Charlotte Rampling è la “Mother” del secondo con figlie Vicky Krieps e Cate Blanchett, ma è ai giovanissimi Indya Moore (“Sister”) e Luka Sabbat (“Brother”) dell’ultimo capitolo che Jarmusch tiene davvero. Ma andiamo con ordine. Letteralmente:
Questa pragmatica scissione in sezioni riassunte può sembrare fredda, e in parte lo è, ma è necessaria a comprendere di base la natura unitaria dei tre capitoli, e il modo in cui si disfa questo gelo. In Coffee and Cigarettes, nella sua semplicità forse ancora la summa di Jarmusch, il regista ha abituato (nel “genere” antologico) il suo pubblico a un divertissement di divagazioni che sembra filosofeggiare per sbaglio (lo scenario è unito a una serie di temi, in un flusso continuo, tra il casuale – o apparentemente tale – e il pre-programmato), ma Father Mother Sister Brother prende la via quasi opposta. È tutto programmato, sceneggiato con minuzia, basato sullo studio più o meno volontario di interazioni e rapporti interpersonali. Non aversi niente da dire, e dire tutto senza dire niente.
Father sembra una parodia di come dovrebbe funzionare uno sketch comico. Ogni possibile crescendo comico (o drammatico) è disinnescato, svuotato di senso, eppure comunque veicolante un senso mediante vuoti e silenzi. Regna un’assenza di comunicazione demoralizzante, presentante un’umanità priva di capacità di conoscersi — ma è soprattutto un progetto di sospensione del senso dell’umorismo, e una sorta di breve barzelletta che introduce l’idea. Mother reitera ed esibisce la formula, aumenta i tempi d’attesa e accorcia i tempi dell’incontro, spinge sulla diversità tra generazioni, sui segreti, senza punch-line. È la sezione meglio recitata, la più cortese, l’unica situazione che sembra davvero stare per esplodere. Alcune scene sono ricorsive e si ripetono eguali o con variazioni su tema: Rolex finti e falsi, ed espressioni come «Nowhereland» o il detto inglese «and Bob’s your uncle» (slang nonsense brit per dire ‘e questo è quanto’).
Se nei due episodi precedenti il minimalismo quasi nasconde il vero grande mestiere che c’è dietro, in Sister Brother il meccanismo dell’assenza di comunicazione si sfalda, tradisce le aspettative, ritorna sui soliti leitmotiv di cui sopra, ma attraverso gli occhi di un ben diverso modo di comunicare. Moore e Sabbat interpretano gemelli in corpo e pensiero, a tratti sembrano stare per parlare all’unisono. La rottura del meccanismo è spiazzante, ma rivela il reale piano alla base, un’ottima teoria messa in pratica: divertire con l’imbarazzo del divario generazionale, per poi arrivare al triste nocciolo della questione. Oltre il divario generazionale, quando il senso di quella parentela non c’è più, rimane la materia. L’eredità, anche delle generazioni precedenti, coi misteri e la confusione del lutto. Ritornano simili soggettive delle automobili, o ralenti sugli skater, ma negli altri momenti c’è un’ispirazione e una consapevolezza diversa, non del mezzo ma della materia: il film si permette raffinati cambi di registro, con battute (davvero) pesate al millimetro per entrare profondamente in una dialettica interiore che continua a lungo dopo la visione, per quanto possibile nella frenesia del Lido. C’è molto affetto, e ricerca d’effetto, e messinscena mascherata per assenza di messinscena. È genuinamente un film esilarante, cinico ma emozionante, con geniali mis-casting volontari nei primi due capitoli a ulteriormente creare sorpresa con la genuinità del terzo. Tuttavia, da aggiungere: l’accumulo di attori importanti dà una visione illusoria, meno intima di quello che avrebbe forse tirato fuori un umore da vero film “piccolo”, come Permanent Vacation o appunto Coffee and Cigarettes, che pur colmo di grandi nomi esibiva la sua povertà nei mezzi. Leggere i titoli di coda fa impressione — la troupe è eterna, anche per la miriade di assistenti, truccatori, aiuti e autisti delle star, e per la decisione (sensata) di lavorare separatamente ai tre capitoli come tre corti a sé stanti, girandoli in location nelle città che fanno da sfondo vitale alla vicenda.
La sincopata (e sintomatica…) alienazione dalla realtà con cui queste interazioni tristemente realistiche si inanellano sembra anche intuire il presente e il futuro della comunicazione. È un tema anche di After the Hunt, il film di Guadagnino fuori concorso alla Mostra del Cinema di quest’anno, e anche in modo diverso dell’intera filmografia di Baumbach, un altro che, come e più di Jarmusch, è nato indipendente per poi entrare nel vivo del mestiere industriale: l’incapacità di esprimere l’emozione, di confessarsi anche al prossimo più immediato. Ma se Baumbach (e in modo ben diverso After the Hunt) è un dialoghista, Jarmusch predilige un occhio post-umano, una percezione cadaverica. Il confronto è sconforto, il presente è rivelatorio anche se plastico. Sono pochi i momenti di meraviglia e molti i momenti di incertezza, tutto ritorna uguale a sé o si ripete. Dietro al film c’è una progettazione profondamente teorica, e un pensiero sulla forma tremendamente preciso. Anche vecchio, si potrebbe dire. Ma oltre l’impalcatura, c’è il cuore: tornando all’inizio, Mother Father Sister Brother si fa beffa della percezione di significato e significante perché illude lo spettatore che il senso del film sia nell’impalcatura teorica, quando invece tutto è nel suo affettuoso, dolce, profondo deflagrarsi per aprirsi al futuro.
Nicola Settis
