15 Febbraio 2018 -

68. Berlinale – Internationale Filmfestspiele Berlin_15-25 Febbraio 2018_Presentazione

Berlinale vuole dire organizzazione. Non solo per l’efficienza tedesca che, nella capitale della Germania, è ovviamente all’ordine del giorno, ma anche e soprattutto per la logistica. Nessun Festival ha così tante sale come la Berlinale, e nessun Festival le ha così belle, comode, perfettamente attrezzate con schermi giganti che si estendono sull’intera parete e con sistemi audio che fanno tremare le poltrone. E poi c’è l’Arkaden, il centro commerciale sito esattamente fra il Palast e il Cinemaxx, nel quale è unica la varietà di cibo a prezzi contenuti, dalla pizza al sushi, dalle carni locali ai pasticci di patate. È tutto in poche decine di metri, alla Berlinale, oppure è tutto sparso per la città, con le repliche di ogni film visibili nel multisala di Alexanderplatz, allo Zoopalast, ovunque, in un tessuto cittadino ricettivo, appassionato, in coda ogni giorno sin dalla prima mattina per accaparrarsi i biglietti delle proiezioni che più interessano. Forse nessun Festival è profondamente territoriale come quello di Berlino, forse nessun Festival è così legato a doppio filo con la città che lo ospita. Viene in mente Venezia, il non-luogo costituito dal Lido, isolotto pressoché disabitato per 350 giorni all’anno e centro del mondo a inizio settembre. Viene in mente Cannes, blindata con i suoi metal detector per accedere al Palais, atterrita dal rischio terrorismo al punto da rendere pressoché impossibile ogni contatto umano, e soprattutto scollegata dalla normale vita in Costa Azzurra, pressoché inaccessibile per i non addetti ai lavori, e anche per gli addetti ai lavori spesso incubale nelle sue code e nei suoi colori dell’accredito – sempre ammesso che l’accredito venga concesso – che diventano vere e proprie classi sociali. Potrebbero essere ovunque, i Festival di Venezia e Cannes, ma la Berlinale non potrebbe essere in altro luogo che qui, a Berlino, in mezzo a quella cittadinanza a cui è dedicata e che ogni anno risponde in gran numero. Basterebbe la sigla che anticipa ogni proiezione, i fuochi d’artificio che finiscono per comporre l’Orso, profondo orgoglio che è ben diverso da quella grandeur un po’ arrogante ed egocentrica della scalinata cannense, nella quale l’unica cosa che conta è salire fino alla Palma d’Oro. Qui l’Orso è un simbolo, è un contenitore, non è un modo per sentirsi migliori. È un simbolo di appartenenza, è una passione che va avanti da 68 anni, è un qualcosa di profondamente radicato nella città e in tutto quello che, storicamente e culturalmente, rappresenta.

Ci sarà l’Isle of dogs di Wes Anderson in apertura, e poi sarà il turno del Dovlatov di Alexei German jr, del nuovo Lav Diaz con Season of the Devil, di Steven Soderbergh con Unsane, di Gus Van Sant con Don’t worry, he won’t get far on foot, di Transit di Christian Petzold, di Eva secondo Benoit Jacquot e del My brother’s name is Robert and he is an idiot di Philip Groening, curioso già dal titolo, senza sottovalutare la presenza italiana di Laura Bispuri, che con Figlia mia porta in concorso a Berlino, tre anni dopo Vergine giurata, anche la sua opera seconda. Parte sotto i migliori auspici il concorso dell’edizione numero 68 della Berlinale, sulla carta, in attesa della prova del buio in sala, uno dei migliori degli ultimi anni. Certo, c’è anche una buona parte di competizione che, come sempre, non si preannuncia irresistibile, e più in generale lo sguardo di Dieter Kosslick, direttore della kermesse teutonica sin dal 2001, è sempre quello, fatto di autori che ben conosce, senza quella capacità di osare nei guizzi e nelle aperture linguistiche che generalmente vengono lasciate alle sezioni laterali. Ma era da almeno tre anni, da quel 2015 in cui si diedero battaglia Pablo Larraín, Alexei German jr, Terrence Malick, Peter Greenaway, Radu Jude, Patricio Guzman e Andrew Haigh, salvo veder consegnare l’Orso d’Oro “politico” a Jafar Panahi, che non si vedeva una selezione ufficiale con così tanti nomi forti, segno di un anno cinematografico partito in quarta a cancellare la generale mediocrità di un 2017 non certo indimenticabile. Che poi, si sa, il concorso è solo una piccola, infinitesima parte della bulimica Berlinale. È solo la parte dei lustrini, quella che più brilla sotto i riflettori mediatici, quella che generalmente più viene seguita e coperta. Sarebbe profondamente sbagliato fossilizzarsi sulla competizione principale, mentre a Potsdamerplatz e nei suoi immediati dintorni, fra il Cinemaxx e il Cinestar, fra il Kino Arsenal e il Berlinale Palast, sono centinaia i film presentati nelle varie sezioni, da Forum – forse la vera Berlinale – a Panorama, dalla Retrospettiva – quest’anno incentrata sul cinema della Repubblica di Weimar – fino alle sperimentazioni di Expanded, passando per l’omaggio a Willem Dafoe che (ri)porterà sugli schermi del Festival, fra gli altri, Antrichrist e Auto-focus. Scorrendo il programma, già si pregustano i nuovi lavori di Kim Ki-duk e di Kiyoshi Kurosawa, di Hong Sangsoo e di Corneliu Porumboiu e di Sergei Loznitsa, di André Gil Mata e di Claire Simon, e poco importa se non sarà la vetrina principale a ospitarli, perché quello che conta, a Berlino come in ogni altro Festival, sono i film e i registi che li hanno concepiti, e non la collocazione in cui la selezione – o meglio le selezioni – della kermesse li hanno incasellati. Da oggi, per undici giorni, la settima arte passa da Berlino, sotto la Porta di Brandeburgo e poi a Potsdamer, luogo simbolico dove un tempo c’era il Muro e ora invece c’è il futuro. Basta avere voglia di coglierlo, godendosi ognuno dei 24 fotogrammi che, ogni secondo, si avvicendano a creare quella piccola e grande magia chiamata cinematografo.

Marco Romagna

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