9 Febbraio 2015 -

EL CLUB (2015)
di Pablo Larraín

La Genesi, nella quale Dio creò la luce ed il buio, decise di separarli e scelse la luce. I paesaggi quasi fatati delle scogliere sudamericane, immersi nell’alone indistinto della foschia mattutina. Un levriero corre e salta, purosangue allenato con cura, sullo sfondo di un’alba mozzafiato. Quattro uomini in cima ad una collina, il binocolo in mano, il cane che vince l’ennesima gara, la scommessa e quel gusto un po’ proibito del soldo facile. Dopo la trilogia su Pinochet, il cineasta cileno Pablo Larraín scava nei sordidi segreti della chiesa cattolica. El Club, in concorso alla Berlinale 2015, è una casa-carcere, luogo di pentimento e preghiera nel quale quattro preti esclusi dal sacerdozio per via dei loro istinti pedofili e criminali, in compagnia di una suora che ha perso i voti per maltrattamento di minori, vivono fingendo di espiare i propri peccati. El Club è una sorta di limbo, purgatorio al termine del quale non c’è paradiso, ma si aprono inevitabili le porte della dannazione. Un luogo in fondo al mondo, al di fuori dello spazio e forse del tempo, un luogo fatato e al contempo angosciante, mortifera condanna morale in un assordante silenzio sociale.

Non è la fede l’oggetto di indagine di Larraín, e forse neanche la pedofilia, né il vizio immondo in senso stretto. Il lavoro del regista sudamericano, in concorso a Berlino e principale candidato all’Orso d’Oro, si concentra piuttosto su un filosoficamente rispettoso quanto politicamente potente trattato sul sottile confine fra carnefice e vittima, sui fatti, sui motivi, sulle (non) contromisure, sul silenzio, sulle apparenze. Sulla repressione e sul potere. Gli ospiti della casa sono colpevoli, attori del peccato più inaccettabile, ma al contempo vittime di se stessi e di un sistema ipocrita che li sfrutta, li mastica e li sputa come carne da macello. Un sistema spersonalizzante, che trova conveniente condannarli ad una prigione dorata, quarantena in attesa della morte, piuttosto che fare i conti con la realtà, la colpa, la gogna ed il pubblico ludibrio. La necessità di cambiare affinché torni tutto come prima. L’arrivo di un nuovo ex parroco nella casa sarà il punto di rottura di un equilibrio già precario fra colpa ed espiazione. Durante il primo pranzo insieme, si presenta alla porta Sandokan, una sua vecchia vittima resa folle, che inizia ad urlare pubblicamente le sevizie subite. La necessità di farlo smettere per salvare l’omertosa facciata di luogo di preghiera, il sacerdote che scende per andargli a parlare, ma invece si punta una pistola alla tempia e, forse senso di colpa che si fa largo nella coscienza, forse unica via d’uscita, fa fuoco.

El Club è un film profondamente politico, elegia della violenza, greve quanto necessariamente ironica indagine sui danni psicologici e le drammatiche cecità che bigottismo e silenzio di comodo possono creare. Cupa tensione verso la morte, ineluttabile centro del labirinto, visione forse sadica ma mai bacchettona. Ecco che quindi, in una sorta di indagine interna condotta da un altro sacerdote, inviato dal Vaticano per capire le dinamiche del suicidio, emerge la vera e propria malattia dei preti reietti, la loro tensione criminale quasi atavica, la loro passione insana per l’alcool, il gioco d’azzardo ed bambini, ma anche la drammaticità dei danni su Sandokan, convinto di aver ricevuto lo sperma del Signore ed ora vero e proprio stalker in costante ricerca di sesso anale da parte degli ‘uomini di Dio’. Il personaggio di Sandokan è specchio e boomerang della colpa, inevitabile quanto inaspettata vicinanza, vaso di Pandora ed infine unica occasione di reale espiazione. Nei discorsi dei (con)dannati non c’è reale pentimento, non c’è giustizia. Non c’è una vera e propria consapevolezza, né una definita presa di coscienza. C’è solo l’omertà ipocrita ereditata dai piani superiori, il sentirsi vittime del sistema, la negazione dell’evidenza tesa alla strenua ricerca di giustificazioni. Ma anche la -condivisibile- insofferenza verso le regole precostituite, imposte da chi lancia la prima pietra tronfio nella propria convinzione di essere senza peccato, l’oppressione spersonalizzante dell’autorità come morsa che schiaccia l’umanità. Il potere, che dall’alto insabbia le storture e protegge se stesso dalla paura del confronto con la realtà. Il regista, in questo senso, è con loro, attento a bilanciare delitto e castigo, mai semplicistico o moralista. Nel cinema di Larraín anche il peggiore dei reietti è trattato con rispetto, non ci sono demoni né uomini malvagi da guardare dall’alto e condannare, ma solo vittime, perse nel gorgo di un male che rimane nell’ombra, sardonico ed infinito nel perpetrarsi.

Larraín, nella straniante durezza del suo sguardo, evita accuratamente qualsiasi tipo di giudizio e di retorica, consapevole, come nei film precedenti, che non esiste mai una verità assoluta, e che i compromessi fanno inevitabilmente parte della società e della vita. Il regista, una volta dichiarata attraverso la citazione della Genesi la necessità di perseguire la luce, si inoltra in un film che si fa al contrario sempre più oscuro, nel quale la violenza prima parrossistica e poi pliniana delle danze infernali di Tony Manero incontra il groppo alla gola, il malessere claustrofobico già straziante alone dell’obitorio di Post Mortem. Il potere, per Larraín, è oggetto di indagine ed entità quasi astratta, metafisica, ingabbiata nella sua stessa inevitabilità. Un mosaico grande e osceno, dai contorni sfocati, un mostro indefinito da analizzare e smontare, canzonare, teorizzare al di là delle sue manifestazioni. Con No!, ultimo capitolo della trilogia su Pinochet, il cineasta cileno aveva saputo declinare e portare a compimento le tematiche dei primi due film attraverso l’estetica degli anni ’80. Con il geniale utilizzo di videocamere low fi nel formato 4/3, il regista era riuscito a suggerire che la tanto agognata fine del regime di Pinochet fosse in realtà una semplice evoluzione verso un altro ed altrettanto pericoloso potere, quello delle immagini, della retorica, della pubblicità. Un’altra dittatura, priva di armi, subliminale, subdola nella sua capacità di muovere le folle. Qui, il più sadico è colui che dovrebbe investigare, li vorrebbe in carcere ma “ama troppo la chiesa”.

El Club, dal punto di vista visivo, cambia radicalmente direzione, compiendo in questo senso un passo forse ancora più importante. Larraín dimostra ancora una volta la capacità del regista di adattare stile filmico e modalità del racconto alla tematica affrontata, per un lungometraggio cupo e sardonico quanto fine ed elegante. Con una grazia nella messa in scena che deborda, dalla raffinatezza formale, impegno politico e sociale, El Club è un film dalla straordinaria potenza induttiva, spiazzante, sovraesposto, in grado di virare nelle atmosfere thriller del sangue la complessità di una difficile restaurazione. Un film dalla straordinaria cura fotografica, maniacale nel restituire sullo schermo il profondo dramma di una matassa esistenziale della quale è impossibile trovare il bandolo. Larraín gioca con i chiaroscuri ed i controluce, con i confini indefiniti di un grandangolo pronto a degradare sui bordi dell’inquadratura, con il punto di fuga spostato e a volte inesistente, sospeso fra asimmetrie e rigori. Le lentissime carrellate verso la tavola, strumenti di indagine discreta ed emotiva indirizzata non ad una reale soluzione, ma che piuttosto tende la mano ai rapporti di forza atti a restituire l’equilibrio perduto. La cupezza della grana scelta, viva eppure polverosa, sporca, fantasmatica. L’indagine stessa è illusione, semplice passo necessario verso un nuovo ritorno alle origini, che -come la pubblicità in No!– nient’altro è che nuova manifestazione del potere precostituito. La conclusione, amara ed obbligata, ad indicare che una soluzione probabilmente non esiste.

El Club è un film pungente e beffardo, militante e raffinato, ma al contempo intriso di pietas e rispetto verso la complessità del mondo, del peccato, delle non ammissioni. Le ipocrisie meschine della Chiesa vengono portate a galla senza una reale volontà di condanna, ma piuttosto con un disperato tentativo di farne emergere la fallibilità umana. El Club è Cinema militante, fatto di natura ed orizzonti quasi infiniti contrapposti ad una chiusura geografica e mentale che tende all’oscurità visiva e morale. El Club è un grandissimo film, di pancia eppure di rara finezza visiva, capace di contestualizzare le storture della chiesa cattolica senza mai cadere in facile retorica o moralismi. El Club è un lavoro tecnicamente impeccabile, nel quale la messa in scena riesce ad essere funzionale all’antropologia.
El Club è opera di assoluta importanza, che consacra definitivamente – o meglio conferma, perché già l’intera filmografia precedente sfociava nel sublime – Pablo Larraín nell’Olimpo del Cinema contemporaneo. Un film duro e necessario, stilettata al cuore e speranza per un futuro migliore.

Marco Romagna

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“The Club” (2015)
98 min | Drama | Chile
Regista Pablo Larraín
Sceneggiatori Guillermo Calderón, Pablo Larraín, Daniel Villalobos
Attori principali Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic
IMDb Rating 7.4

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