WHY DON’T YOU PLAY IN HELL? (Jigoku de naze warui), dir. Sion Sono
Uscire da una sala urlando di gioia, ed abbracciando persone a caso, pervaso dal più genuino godimento cinematografico. Questo è Why don’t you play in Hell?, capitale opera del giapponese Sion Sono, genio multiforme, capace di cambiare e cambiarsi totalmente da un film all’altro. Metacinema allo stato più puro, quello della passione cinefila d’assalto, che si dipana attraverso una costante fagocitazione bulimica di generi, situazioni, personaggi. Risulta una sorta di summa di quella che è l’opera del regista, deflagrazione dinamitarda degli schemi, e forse anche degli schermi.
Ci sono i primi super8, da I am Sion Sono a Bicycle Sights, dei quali era Sono stesso il protagonista, l’aspirante regista che si vota al Dio del Cinema per fare magari un solo film, ma un capolavoro. Ci sono i drammi adolescenziali, le difficoltà, lo scoramento, l’amore contrastato, le prove da superare, c’è in questo senso Suicide Club, ma soprattutto balza alla mente l’immane Love Exposure,. Ci sono gli stilemi dello yakuza movie, c’è l’inarrestabile escalation di violenza che stravolge la vita all’uomo comune, già propria di Cold Fish ed Hazard. C’è l’introspezione, pur filtrata dai paletti del B-Movie e riproposta in forma quasi parodistica, che dall’esasperazione del doppio di Strange Circus arriva fino al melò di Guilty of Romance, a braccetto con l’inquietudine (non solo) adolescenziale di Himizu. Tematiche che hanno fatto e fanno una filmografia, riprese e frullate in un calderone di dinamite.
Altro elemento fondamentale è l’autocitazione, palese o nascosta, che qui parte sin dalla primissima inquadratura, chiara riedizione e ricontestualizzazione del videoclip iniziale di Suicide Club. Metacinema ed autocitazioni si cristallizzano anche nella proiezione, accompagnata da appassionati dettagli sullo scorrere degli ingranaggi del 35mm, di The Room, forse il film di Sono che più si accosta, complice anche un magnifico bianco e nero a grana grossa, al Giappone classico di Ozu e Mizoguchi.
Non manca nemmeno qualche riferimento (o frecciatina, chi lo sa…) al più orientale e metacinematografico regista di Hollywood, quella tutina gialla già vista in Kill Bill che sembra chiamare “Quentin!”, forse per una sorta di (meta)omaggio, o forse per riaffermare, qualora ce ne fosse stato bisogno, la superiorità giapponese nel cinema di genere. Sono mostra -ed in questo modo dedica- a Tarantino il film che Tarantino vorrebbe fare, rendendo innegabile il legame, quantomeno culturale, fra i due. Occidente ed Oriente si camminano incontro, vertendo verso una giustapposizione che si fa a tratti sovrapposizione, perfetto matrimonio fra le due culture, i due modi di vestire, i due modi di combattere, i due modi di girare. Non si tratta, però, di un film piacione o autocelebrativo, ma al contrario di un fulgido esempio di cinema moderno, dove la più colta cinematografia giapponese si fonde con quella occidentale, diventando altro. Kurosawa incontra Leone, e poco importa la maschera anfetaminica da pura exploitation, il film non perde un briciolo del proprio substrato culturale.
C’è tutto Sion Sono, insomma, in un film che gioca con la storia del Cinema con lo stesso luccichio degli occhi di un bambino felice davanti al suo primo trenino. Dopo la personalissima e dolorosa sortita sull’incubo Fukushima, prima integrato in extremis nella sceneggiatura dell’ottimo Himizu (Sumida era per molti versi il Giappone, dilaniato da tsunami e centrale nucleare), poi vero protagonista di The Land of Hope, epopea del vecchio uomo (altro simbolo del Giappone e delle sue tradizioni) pronto a morire per le radiazioni piuttosto che abbandonare la propria casa, il regista torna al cinema di genere, e lo fa mosso dalla più libera ispirazione.
La vicenda narrata parte in realtà da una serie di topoi cinematografici e prima ancora letterari: due clan yakuza, Muto ed Ikegami, sono in guerra da anni. Il primo ha una figlia che vorrebbe diventare star del cinema, ed un debito di riconoscenza sempre aperto nei confronti della moglie, in galera per avergli salvato la vita. Il secondo, parafrasando la migliore tradizione shakesperiana, è ossessivamente innamorato della figlia del primo. Un boss messo in ridicolo da un amore comico e grottesco, cinicamente mai corrisposto. Nel frattempo Hirata coltiva da sempre il sogno di fare il regista con gli amici Fuck Bombers, fra gioie e dolori, ma sempre con speranza, pazienza ed assoluta fede nel Dio del Cinema. La fortuna, la costanza, credere nelle proprie possibilità e capacità. Le varie realtà non possono che incontrarsi, confluire, e fondersi. Fino al capolavoro promesso.
La resa dei conti non può infatti che essere un film, combattendo e girando fino all’ultimo sangue, dove Effetto Notte diventa Mucchio selvaggio di samurai, 35mm, luci, sangue, suono, spade, motore. Azione.
Why don’t you play in Hell? è un film vesuviano, in costante fase parossistica. E’ un’esplosione, un punto di rottura, uno scatenarsi di emozioni, un concatenarsi di eventi sui quali è il solo Dio del Cinema ad avere il controllo, con la stessa forza di una possessione dei Maitres Fous di Rouch. E, per il Dio del Cinema, bisogna essere disposti a tutto: danzare spensierati in un lago di sangue, dare e ricevere vetriati baci d’addio, amputarsi, autoflagellarsi, dissanguarsi, uccidere, perdersi, uccidersi, lanciarsi fra le spade armati di sole macchine da presa e microfoni. Per un film si può e si deve morire. Velocissimo, corale, è una matrioska cinefila, dove il Cinema è punto di partenza ed arrivo, ma si lascia a noi, spettatori commossi, felici e spaventati dalla portata sublime di tale fiume, qualsiasi tipo di teorizzazione. Questi brevissimi 119′, ritmati e divertenti, sono al contrario un manuale di pratica. Le riflessioni critiche sul passato, il presente e l’ipotetico futuro del Cinema sono chiaramente alla base, ma si riscoprono a posteriori: durante il film non c’è tempo per pensare, c’è solo da sedersi, e goderne.
L’unica cosa che conta è che qualcuno possa poi correre, folle e spiritato, portando via felice i rulli di pellicola insanguinati, lasciando tutto il dolore indietro, impresso e compresso nello spazio di 24 fotogrammi al secondo, ognuno con quattro forature per lato.
Il dolore è sparito, la morte non c’è più, vinta dalla catarsi che si cristallizza nell’applauso di fine proiezione. Dopotutto, era ‘solo’ un film!
E’ raro succeda, ma a volte la parola “capolavoro” non viene usata a sproposito.
Marco Romagna