“La stampa doveva essere a servizio dei governati, non dei governatori. Il potere del Governo di censurare la stampa venne abolito perché la stampa potesse essere sempre libera di censurare il Governo“
Estratto dalla sentenza del giudice Hugo Black, Suprema Corte, NY Times contro gli Stati Uniti
“Va bene, andiamo avanti. Pubblichiamo!”. La decisione, sofferta quanto rischiosa, è ormai presa, le quattro cornette di una delle telefonate più importanti della storia dell’editoria vengono riagganciate, l’ordine di partire viene girato alla tipografia. Si fonde il piombo, le matrici del linotipo compongono i caratteri da stampare, gli infiniti rulli di carta iniziano a girare spediti nelle rotative in attesa di uscire già tagliati e impaginati, ancora caldi a sporcare del loro inchiostro nero i polpastrelli dei lettori. Basta prendere le copie, raccoglierle, legarle insieme, caricarle sui camion e partire per la distribuzione perché la verità possa finalmente continuare a sostituire la menzogna, e ancor di più perché la libertà di stampa, fondamento di ogni democrazia, insostituibile strumento di controllo dei cittadini verso chi li governa, possa ancora una volta essere garantita, contro tutto e contro tutti. Fra gli ingranaggi degli enormi macchinari che girano proprio mentre una macchina ancora più grossa, quella statale, vorrebbe bloccarli, ad avere appena visto la luce è il Washington Post del 18 giugno 1971, quello che, per primo dopo l’ingiunzione censoria da parte del giudice federale imbeccato da Nixon contro il New York Times, aveva ripreso a pubblicare i Pentagon Papers, prova inconfutabile di oltre dieci anni di violazioni della Convenzione di Ginevra e di reiterate menzogne al Congresso e ai cittadini da parte di almeno quattro Presidenti degli Stati Uniti d’America. Il conflitto in Vietnam continuava a infuriare, i giovani continuavano a partire e non di rado a morire, e nel frattempo, nel morbido involucro della Stanza Ovale, i vari Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson (e ovviamente anche Nixon, ma le quasi 8000 pagine del dossier top secret trafugato e portato a conoscenza dei cittadini si fermavano al 1966 senza includere gli ultimi anni del conflitto) avevano sempre saputo di non poter vincere la guerra. Ma l’ammissione della prima sconfitta bellica statunitense sarebbe stata un’onta troppo grave, un’umiliazione da evitare a ogni costo, da rimandare all’infinito. Avevano sempre deciso di salvare la faccia, i presidenti, a costo di inviare sempre più soldati nell’inferno di Saigon millantando inesistenti progressi, a costo di perdite umane, a costo di mentire spudoratamente alla stampa e alla nazione mentre le forze militari a stelle e strisce di stanza in Sud Est asiatico manipolavano le elezioni locali e torturavano impunemente civili senza (poter) ottenere nulla.
Ma, intelligentemente, a Steven Spielberg non interessano più di tanto i contenuti dei Pentagon Papers, già ampiamente noti e dibattuti nel corso degli anni, e nemmeno l’adrenalina dello scoop ai tempi delle prime fughe di notizie, che non fu del Washington Post, al tempo poco più che un giornale locale alla ricerca di espansione passando dalla qualità e dal lancio in Borsa, ma di Neil Sheehan del più noto e quotato New York Times. Ciò su cui The Post si focalizza, quello che conta per Spielberg, è invece il profondo valore paradigmatico costituito dalla decisione di andare avanti dopo l’esplicito divieto, il profondo coraggio nel rischiare di perdere tutto in nome dell’etica e della giustizia. I quotidiani, messa da parte ogni competizione, si sono stretti in un fronte comune contro quello Stato che, celatosi dietro la trincea della sicurezza nazionale, li voleva imbavagliare per poter continuare ad anteporre i suoi interessi a quelli dei cittadini. Non è certo un caso che un film come The Post, messa in scena di una vera e propria guerra fra il potere mediatico e quello politico, giunga proprio adesso, dopo i primi mesi di presidenza Trump, nel momento in cui negli Stati Uniti è ridiventato urgente vigilare sull’operato del Governo, è ridiventato urgente non credere a tutto ciò che viene detto, è ridiventato urgente lottare per conoscere la verità e per divulgarla senza filtri né bugie di comodo. È ridiventato urgente ricordarsi che “un pregiudicato non può possedere reti televisive”, o che, molto più semplicemente, il giornalismo è una missione, un servizio alla cittadinanza e non certo un’ulteriore protezione per chi la governa, un’istituzione che non deve piegarsi alle amicizie altolocate né agli interessi economici. Spielberg, con l’election day americano del 20 gennaio 2017 che ha ammainato l’ottimismo dell’era Obama, ha sentito l’urgenza di un film come The Post talmente pressante da decidere di sospendere un progetto già in postproduzione come la fantascienza di Ready player One, che vedrà il buio delle sale solo a fine marzo, per lanciarsi anima e corpo in un lavoro probabilmente mai così rapido e serrato, fatto di tempi di realizzazione talmente ristretti da non permettergli nemmeno di ascoltare le musiche del fido sodale John Williams prima di chiudere il montaggio. Negli Stati Uniti del 2017 in mano a un imprenditore un po’ narciso, quella decisione presa nella notte fra il 17 e il 18 giugno ’71 di “pubblicare per difendere il diritto di pubblicare”, acquista oggi per Spielberg un nuovo e ben preciso valore politico e morale: un evento storicizzato si specchia nel presente più bruciante, l’attacco a un governo per difendere una libertà è diventato la necessità di difendere l’intera democrazia, e la netta presa di posizione del regista sui fatti (e sulle fake news) del passato si pone come un messaggio chiaro, un apologo (non solo) alla nazione che invita a unirsi e a lottare sempre, dal basso, per la verità, per i diritti, per la libertà. Attraverso la collaborazione, attraverso le decisioni più sofferte per ciò che si ritiene giusto, attraverso l’etica, attraverso i rapporti umani. E ovviamente attraverso il verbo, la parola, quella redatta da quello stesso Stato deciso a secretarla al punto da violare apertamente il Primo Emendamento che garantisce la libertà di stampa, quella pazientemente fotocopiata un foglio dopo l’altro dall’ex analista militare Daniel Ellsberg ormai disgustato dal muro di gomma e menzogne intorno alla spedizione in Vietnam, quella fedelmente riportata, senza sensazionalismi ma con la stessa violenza di un uragano, prima dal Times e poi dal Post. Una parola che, seppure ancora una volta protesa verso il medesimo senso di giustizia, non è più quella di apertura di Lincoln, e non è più quella del compromesso che innervava Il ponte delle spie. La parola, in The Post, è verità ma è anche e soprattutto proibizione, e quindi pomo della discordia, aperto conflitto, offesa, minaccia, guerra. La parola pubblicata diventa atto stesso di resistenza, mentre la decisione di andare avanti a costo di rischiare di essere incriminati per tradimento, in barba agli ostracismi e alle vendette presidenziali, fa pulsare la missione stessa del giornalismo.
Basterebbe in un certo senso l’incipit che lancia nel cuore della battaglia, folgorante nella marcia notturna, nella violenza insostenibile, nell’umidità infernale vietnamita che mescola il sangue al sudore. Per poi spostarsi sull’Air Force One, con la consapevolezza che il conflitto va peggiorando in attesa che McNamara sfoderi il suo miglior sorriso per mentire ancora una volta spudoratamente alla nazione. Steven Spielberg innesta, sullo script firmato da Liz Hannah con la collaborazione di John Singer, ormai “esperto” nei thriller d’inchiesta giornalistica dopo aver co-sceneggiato Il caso Spotlight, un perfetto film neo(classico) hollywoodiano, che del perfetto film neo(classico) hollywoodiano ha i molti pregi (la capacità di mescolare i generi dal bellico al giornalismo d’inchiesta, il ritmo narrativo incessante, i movimenti di macchina calibrati e mai altezzosi, la messa in scena asciutta, la minuziosa direzione del cast stellare, la sorprendente ricostruzione storica di quegli anni e di quelle redazioni, i ticchettii delle macchine da scrivere, i telefoni neri con la selezione della linea, la magia del processo di stampa, l’afflato politico), ma anche qualche difetto, a partire dalla (tipica) semplificazione hollywoodiana di tematiche complesse in una sorta di lotta buoni contro cattivi (o meglio, paladini dell’informazione libera e della verità contro uno Stato mendace e corrotto) senza che ci siano reali sfumature fra ragion di Stato e libertà di stampa, senza che si affronti realmente la possibilità che le rivelazioni del Times e del Post potessero rischiare di mettere in pericolo i soldati in quel momento in Vietnam svelando qualche posizione o strategia al nemico. In un film che ribolle di conflitti e di difficili decisioni da prendere (la Costituzione contro il Governo, la Libertà di Stampa contro lo scudo della sicurezza nazionale, la dicotomia impossibile fra fonte e amico nelle frequentazioni fra politici e giornalisti, la voglia di giustizia contro le accuse di tradimento, il giornalismo come missione contro le leggi dell’editoria-azienda, e non certo in ultimo i tanti conflitti incarnati dalla figura di Kay Graham, unica donna in un mondo esclusivamente maschile e spesso maschilista costretta a trasformarsi in poco tempo da casalinga insicura a grande e coraggiosa editrice) Spielberg non vuole interrogarsi sui fatti, non vuole mettere in dubbio eventi ormai storicizzati: sceglie un lato dal quale stare, e da lì punta l’obiettivo della macchina da presa sul passato per lanciare un monito sul presente. Ha un’opinione netta, monolitica, granitica, e da questa si muove, portando avanti le sue ragioni a costo di trovare anche i suoi limiti, e finendo per incappare in qualche puntualizzazione retorica probabilmente evitabile. Ed ecco che quindi The Post, in mezzo alle tante soluzioni di messa in scena rigorose e che mai perdono un briciolo di eleganza, in mezzo alla narrazione implacabile quanto piana e straordinariamente lineare, in mezzo allo splendore dell’incipit bellico e del finale in altalena fra Storia e noir, scivola a tratti nel didascalismo simpatetico di una figlia ormai cresciuta che ricorda alla madre i principi base su cui il Post era stato fondato e portato avanti da nonno e padre. Ecco che una stagista viene ingiustamente rimproverata solo per far vedere che nella macchina statale anche la giustizia è composta da uomini malvagi, ecco che la discesa dalla scalinata della Corte Suprema viene accompagnata dai più invadenti archi di John Williams, ed ecco che la telefonata che annuncia la vittoria degli organi di stampa contro il Governo non manca di riportare in tono epico l’intera sentenza del giudice Hugo Black, comprensiva di tutte le sottolineature già ampiamente espresse dal film e quindi ormai pleonastiche. Ma si tratta, va detto, di sbavature veniali, quasi inevitabili nel linguaggio cinematografico del quale The Post fa parte, non certo in grado di sminuire la riuscita di un buonissimo film fatto di etica, di giustizia e di quella funzione eroica dell’inchiesta giornalistica che sin dai tempi della New Hollywood è filone cinematografico a sé. È però difficile non notare – e non rimpiangere – la quasi mancanza di contraddittori che avrebbero potuto rendere ancora più interessanti le numerose sfide dialettiche portate sullo schermo. Persino la figura di Nixon, ben più che come quella di un (pessimo) Presidente con il quale avere (necessariamente) a che fare, viene rappresentata come una losca silhouette che trama al telefono dietro le finestre della Casa Bianca, illuso di essere protetto dal suo ruolo proprio mentre altri due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, stanno iniziando a frugare nelle stanze del Watergate. Come andò a finire quell’episodio, oltre alla Storia, ce lo aveva detto già nel ’76 Alan J. Pakula con il magnifico Tutti gli uomini del Presidente, del quale The Post si pone in un certo senso come una sorta di prequel. Ma se l’urgenza del film di Pakula, uscito solo quattro anni dopo le dimissioni di Nixon, stava nella stessa vicinanza della vicenda messa in scena, nella necessità di conoscere e capire gli eventi che avevano portato al più grande scandalo presidenziale della Storia d’America, quella del film di Spielberg ha radici differenti, più universali, fatte di ricerca spasmodica di giustizia e di scelte morali in difesa dei valori democratici.
Il direttore responsabile Ben Bradlee e l’editrice Kay Graham, ben prima di essere rimessi in scena dal democratico Tom Hanks e dalla liberale Meryl Streep, entrambi non certo a caso fieri oppositori di Trump dalle loro differenti posizioni politiche, hanno consapevolmente rischiato accuse formali proprio nei giorni in cui il Washington Post si stava liberando delle difficoltà economiche nelle quali versava. La quotazione in Borsa prevedeva una settimana di diritto di recesso, e proprio in questa settimana, per combattere per ciò che ritenevano giusto, Bradlee e Graham non hanno esitato a lasciare da parte l’azienda per concentrarsi sulla funzione primaria di un giornale: dire la verità, mettere in luce le storture del potere, denudare il re. Per salvaguardare l’etica del giornalismo, hanno messo da parte ogni tipo di interesse personale ed economico, rischiando di dover rinunciare al salto di qualità ormai raggiunto e costringendosi a una profonda autocritica esistenziale. Kay Graham, in quegli anni, era amica intima di Bob McNamara almeno quanto Bradlee lo fu di John Fitzgerald “Jack” Kennedy, ed entrambi si sono fidati troppo della loro amicizia, senza rendersi conto fino a quel momento di essere stati troppo morbidi nei giudizi, senza rendersi conto fino a quel momento di essersi lasciati manipolare, senza rendersi conto fino a quel momento che “Non si può essere fonti giornalistiche e amici”. Ma se per Bradlee il dilemma etico è stato solo il convivere con i ricordi delle cene alla Casa Bianca e del tailleur di Jackie ancora sporco di sangue, quello della Graham è, nei confronti dell’ambiguo McNamara, un dramma presente, pressante e annichilente, che passa dai cocktail condivisi alla consapevolezza che il suo “amico” le aveva mentito guardandola negli occhi anche nel momento in cui per il Vietnam stavano partendo i suoi figli. È proprio questo trauma ciò che le permette di trasformarsi, di passare dalla passività al ruolo attivo, di diventare quell’eroina dell’informazione che mai avrebbe pensato di poter essere, raccogliendo il testimone del New York Times e proseguendo nella pubblicazione del loro reportage proibito. Finendo per vincere anche come azienda, come posto di lavoro per tanti cronisti, come organo di stampa degno di essere comprato, perché “La qualità fa gli utili”. Già dalla locandina, che vede i due protagonisti di spalle a salire una scalinata apparentemente infinita, The Post è una scalata verso il giusto, verso la verità, verso l’etica, messa in scena nel grigiore fumoso degli abiti di sartoria e dei tailleur, nella mascella un po’ sporgente di Tom Hanks e nei drammi morali della donnona fragile Meryl Streep, nel tuffo nel passato che emerge dalla grana della pellicola, dagli ambienti e da quei colossali macchinari di stampa che, nell’era dell’impaginazione al computer, non torneranno più. Certo, rimangono quei piccoli limiti, quelle incursioni nella retorica o nel miele, quelle banalizzazioni che troppo spesso Hollywood prevede in nome della spettacolarizzazione e della leggibilità del film. Ma The Post è molto altro, e molto di più. Nel suo scorrere sembra quasi di sentire il profumo della carta stampata, quella fotocopiata da Ellsberg e trasportata con cura da Ben Bagdikian fino a casa di Bradlee, e poi quella che Kay Graham, all’apice del suo coraggio, decide di mandare in stampa in quella telefonata a quattro che è già storia del cinema: “Va bene, andiamo avanti. Pubblichiamo!”. E questa sensorialità espansa, ben al di là delle piccole sbavature di scrittura, sono ben pochi i registi in grado di portarla sullo schermo. Come sono ben pochi i registi in grado di far emergere dal loro trentesimo film una così vibrante necessità.
Marco Romagna