27 Maggio 2019 -

IL TRADITORE (2019)
di Marco Bellocchio

Aveva sempre preferito fottere che comandare, Masino. Aveva sempre preferito fare il dandy, godersi la vita, viaggiare, spendere, sfornare figli, amare le donne. Da carcerato come da latitante, da evaso come da sicario, da (mai reo confesso) narcotrafficante come da collaboratore di giustizia. L’esatto opposto di Totò Riina, che per la sua ossessione per il potere ha finito per non godersi nemmeno per un giorno i miliardi che aveva illecitamente guadagnato. Proprio come all’opposto di Totò Riina e delle sue sostanziali pulizie etniche nelle guerre di mafia Masino, o se si preferisce Tommaso Buscetta, si è sempre considerato fino all’ultimo giorno un vero uomo d’onore. Un uomo pronto a delinquere, certo, ma che mai avrebbe toccato un innocente, che mai avrebbe compiuto una vendetta trasversale, che mai avrebbe rinnegato un amico, e proprio per questo un uomo che, nonostante la sua testa, nonostante la sua capacità di convincere gli altri, nonostante la sua parlantina poliglotta, nonostante il suo ruolo di “boss dei due mondi”, mai ha avuto modo di avanzare dal suo ruolo di soldato semplice, di subalterno escluso dalle riunioni del potere. Lui, Tommaso Buscetta, Il traditore. Lui, Tommaso Buscetta, che mai si è “pentito” ma che per primo ha parlato di una Cosa Nostra (che considerava) già morta, uccisa insieme ai suoi figli e ai valori fondanti dalla sanguinosa e spietata avanzata dei Corleonesi. Ma anche lui, Tommaso Buscetta, così ambiguo fra il suo senso di giustizia e quello di vendetta, fra il ‘cattivo’ e il ‘buono’, fra la verità e la menzogna, fra la certezza e l’«intuizione», fra le parole e i silenzi, fra le (non) ammissioni e le colpe, fra il criminale e il coraggioso testimone.
Lui, Tommaso Buscetta, lo sconfitto da sempre legato ai “perdenti”, che sarebbe stato semplice quanto sbagliato raccontare come un eroe e che invece Marco Bellocchio, al ritorno nel concorso principale del Festival di Cannes, trasforma in chiave per rileggere ancora una volta in uno dei suoi (capo)lavori più ispirati e ambiziosi l’Italia tutta, la sua Storia, le sue ombre e le sue contraddizioni innestandole, come già in Buongiorno, notte e in Vincere meglio ancora che in Bella addormentata, in quella grande e infinita famiglia che sin da I pugni in tasca fino al recentissimo Fai bei sogni è sempre stata il centro nevralgico e il deflagrare dei rapporti di forza di tutta la sua filmografia. Tutto passa per la famiglia, nelle dinamiche di vita de Il traditore. Una famiglia che è quella italiana lasciata a Palermo da Masino, è quella brasiliana con la sua terza moglie e l’ultimo degli otto figli, è quella mafiosa a cui ha prestato giuramento sin da bambino, e poi inevitabilmente è quella dello Stato, che saprà accogliere e proteggere, che saprà conservare fino all’ultimo le uniche figure realmente fidate in quei pochi uomini della scorta diventati ormai affetti, ma che saprà anche rivoltarsi contro quando, a seguito della strage di Capaci, verrà direttamente attaccata nelle sue reali posizioni di potere, nei suoi “intoccabili”, nel suo rappresentante più forte. Una famiglia, esplicitamente nominata centinaia di volte nei brillanti dialoghi, che per Masino era tutto, l’amore, la dignità, la passione, la molla scatenante ma pure, inevitabilmente, l’errore più tragico e un senso di colpa che non lo potrà mai abbandonare. Una famiglia di traumi da elaborare e dolori ai quali reagire, di tradimenti e di traditori, di mogli cornificate con puttane e con altre mogli, di “amici” che giurano di proteggere quei figli che ben presto scanneranno con le proprie stesse mani, di regole morali che cambiano nell’avvicendarsi fra Palermo e Corleone, di dialoghi (e di silenzi) con Giovanni Falcone che sarebbero stati probabilmente impossibili senza quel pacchetto quasi finito di sigarette a innescare la fiducia e di scene surreali al maxiprocesso, fra bocche cucite, uomini nudi, gabbie di vetro, espressioni dialettali, sigari e grida – «Sono un siciliano, un siciliano vero».

È una famiglia di uomini che hanno perso tutto, quella messa in scena da Marco Bellocchio. Una famiglia di criminali, di carcerati, di responsabili (in)diretti della morte dei propri figli e del proprio fratello per la propria silenziosa assenza o per la propria fragorosa decisione di parlare aprendo per la prima volta uno squarcio nell’omertà della mafia, di quell’«invenzione giornalistica che non esiste, semmai si chiama Cosa Nostra». Il traditore tradisce accusando chi ha già tradito, attaccando quella ‘nuova’ Cosa Nostra di Riina che ha annullato le regole morali d’onore sterminando quella vecchia, attaccando Giulio Andreotti (non certo per caso incontrato per la prima volta in mutande) che ha frantumato la fiducia degli italiani e la rettitudine del suo ruolo istituzionale nelle connivenze mafiose, e per questo si ritrova con un fratello seppellito vicino ai figli e con una cognata che sputando veleno ne abiura il cognome, oppure senza più la protezione e la fiducia di quell’unico uomo dello Stato, cresciuto negli stessi quartieri ed esploso a Capaci, realmente in grado di capire tutti i linguaggi verbali e non verbali di Masino. È una famiglia che (non) si ritrova sin da subito nella villa di Stefano Bontade durante i festeggiamenti del 1980 per Santa Rosalia, mentre la vecchia Cosa Nostra palermitana e quella nuova di Corleone e di Totò Riina cercavano accordi sulla spartizione dell’eroina per tentare (invano) di evitare quella seconda guerra di mafia che di lì a pochi mesi sarebbe esplosa con la sua tremenda conta dei morti, in una riunione che il “soldato semplice” Masino, appena evaso dal carcere di Torino e pronto a tornare in Brasile, può solo intuire attraverso una finestra subito prima di andare a recuperare il figlio Benedetto – la famiglia (palermitana) intossicata dai traffici della famiglia (mafiosa) – strafatto e ancora con il laccio emostatico sulla spiaggia. «Sono irrecuperabili» dirà ben presto a Cristina, la terza moglie che avrebbe volentieri accolto e portato in Brasile anche i figli di primo letto di Buscetta, prima di affidarli all’amico di una vita Pippo Calò che, una volta passato con Riina, sarà il loro boia, vittime numero 156 e 157 dopo lo stesso Stefano Bontade, i fratelli Inzerillo e l’attentato, fallito, a Salvatore Contorno.
Una frase che rimbomberà per sempre nella testa di Tommaso ‘Masino’ Buscetta, l’«infame», il «fango», il «cornuto», come per sempre gli rimarranno appiccicate quelle mani di Calò sulle spalle, amichevoli e abominevoli mani di Giuda, nella foto ricordo della serata. Nel ritratto di famiglia in un interno, o più probabilmente delle sue serpi già avvinghiate nelle spire della morte, che sarà prova in tribunale di fronte alle negazioni dell’evidenza e al contempo indelebile alone sulla coscienza di un padre. Una foto che ritrae insieme i morti con i loro assassini, i futuri nemici abbracciati, l’incompatibilità del sangue, la cupola e il suo avvicendamento, i (non) vincitori e i vinti. Con in mezzo un padre senza più figli, un affiliato senza più famiglia, un uomo senza più un posto dove stare. Una foto che è il punto di innesco, la miccia, il detonatore che non potrà che aprire all’immagine uguale e opposta, quella della solitudine dell’anziano Buscetta destinato a morire imbracciando il fucile, nella paura e nell’attesa di quel sicario che non arriverà mai a ucciderlo in quegli Stati Uniti che non potranno mai in alcun modo essere la sua vera casa. A Bellocchio interessa l’uomo (di famiglia) Tommaso Buscetta, ben più che “il pentito”. Quell’uomo al centro della foto, con quei baffoni retaggio degli anni Settanta che ancora (per poco) sormontano il vestito bianco, con quegli occhi austeri di profondissima dignità nei quali forse è già possibile, sin dalla primissima inquadratura, trovare già una punta di quell’amarezza fragile e commossa che, plasmata dallo sguardo brunito dai Carrera del processo, si insinuerà di sotto del cappello di lana sul tetto del sublime finale.

Basterebbero, per gridare al capolavoro, le pennellate di puri e potentissimi bellocchismi che il sempre più fondamentale regista di Bobbio, eterno ragazzo del ’39 ancora in grado di stupire e di spiazzare nella sua straordinaria coerenza, regala nello scorrere, ora dilatato e ora contratto, ora riflessivo e ora rapidissimo nella narrazione, ora intimista e ora processuale, ora storico e ora simbolico, ora lirico nei consueti confini con l’onirismo e ora meticoloso nella ricostruzione, delle quasi due ore e mezza de Il traditore. Basterebbero quei due elicotteri che volano affiancati sul Cristo Redentore di Rio de Janeiro poco dopo l’arresto del latitante Masino nel Brasile ancora sotto dittatura, sul primo Tommaso Buscetta pesto e insanguinato dopo le ripetute torture subite e sull’altro Cristina, la sua amata moglie, minacciata di fronte ai suoi occhi di essere lasciata cadere nell’Oceano come ulteriore tortura trasversale con la quale convincerlo a parlare. Oppure basterebbero quei figli destinati a emergere dagli sfondati bluastri della magnifica fotografia di Vladan Radovic per tornare più volte come fantasmi, prima sul volo che, dopo il tentativo di suicidio (o forse no…) con la stricnina riporta Buscetta in Italia, e poi nella Questura di Roma, nella stanza/dormitorio del tempo dei suoi dialoghi con Falcone, con l’incubo di Masino che immagina di essere vivo e sveglio al momento della chiusura a zinco della sua bara fra le lacrime e le grida di tutta la famiglia. O ancora basterebbe il finale, uguale e opposto alla redenzione del “come sarebbe potuta e dovuta andare” di Buongiorno, notte, con quello sparo che invece questa volta vuole dire quella colpa mai ammessa, ma al tempo stesso anche la più profonda dignità di un uomo che è rimasto coerente ai propri principi e che proprio nel suo tradimento alla mafia ha trovato l’unica via per non tradirli. Passando per quel momento cinematograficamente rischiosissimo e invece straordinario della strage di Capaci, momento della reale consapevolezza (e della sostanziale fine con quello che sarà l’effetto-boomerang innescato) di Masino che di fronte alla televisione si rende conto di dover tornare in Italia per affrancarsi del tutto dalla mentalità e dalle dinamiche d’omertà mafiosa, dove ogni possibile pornografia o retorica vengono annullati dallo sguardo, dal punto di vista audace e straziante scelto da Bellocchio, da quella scelta di rimanere per tutti gli infiniti secondi dell’esplosione, del volo e dello schianto sull’asfalto dentro l’abitacolo di Giovanni Falcone inquadrandolo dal sedile posteriore, da quel posto idealmente occupato anche da Buscetta con la sua stima, con la sua fiducia, con il suo affetto. E passando, ovviamente, dalla ricostruzione minuziosa del maxiprocesso che già nella realtà fu un teatro dell’assurdo al di là di ogni possibile fantasia cinematografica, integrato con le immagini d’archivio, con i telegiornali d’epoca, con i titoli dei giornali che appaiono a caratteri cubitali sullo schermo. E con i nuovi simboli, con tutto quello che cambia, con il linguaggio di sottintesi e interpretazioni di Cosa Nostra, con la tripletta di Paolo Rossi nella storica Italia-Brasile dell’82 trasformata nel momento delle prima telefonata di silente minaccia mafiosa a raggiungere proprio in Brasile Masino, oppure con il successo internazionale raggiunto nell’anno successivo da Toto Cutugno con (l’orribile quanto cinematograficamente perfetta) L’italiano che diventa per Tommaso Buscetta la consapevolezza di essere stato trovato anche negli Stati Uniti magari proprio da quel Pippo Calò peggiore depositario possibile di fiducia.
Del resto, non è certo quella sui sottintesi l’unica direzione dello straordinario lavoro che Il traditore fa sul linguaggio, sugli accenti, sui mille modi di comunicare, di farsi capire, di intimidire e di non farsi intimidire. Non solo con un Pierfrancesco Favino in stato di assoluta grazia attoriale, semplicemente perfetto – da romano – nell’incarnare Tommaso Buscetta nelle sue anime di siciliano, di sudamericano, di esule negli Stati Uniti, di padre, di marito, di mafioso e di (consapevole) traditore, ma anche con Luigi Lo Cascio lasciato libero di instillare nella parlata (e nell’impossibilità di cambiare e di uscire dalla mentalità mafiosa) di Totuccio Contorno tutta la sua palermitanità più verace, anche con il silente sorriso sardonico di Nicola Calì a fare suo lo sguardo malvagio di Riina, anche con il sudore di Fabrizio Ferracane a rendere ancor più viscido Pippo Calò, anche con un rassicurante Pier Giorgio Bellocchio a cercare la parte sana dello Stato, e anche con un acido e sferzante Bebo Storti che invece incalza e dichiara Masino «inaffidabile» dal ruolo di «quello stronzo» dell’avvocato Franco Coppi, principe del Foro che – si lasci al Genoano ferito e ripetutamente umiliato un piccolo sfogo – riuscì a fare assolvere Giulio Andreotti ma nulla potè fare per evitare la serie C quando l’imputato era l’evidentemente indifendibile Enrico Preziosi. Tutti al massimo delle loro capacità attoriali e alle vette assolute degli ultimi anni italiani per mettere in scena l’ennesima famiglia bellocchiana che implode, seppellita dalle trattative Stato-mafia e dal ritorno al segreto, ai pizzini, a un non-cambiamento, a Bernardo Provenzano che continuerà il lavoro di Riina da un buco sotto terra, a Giovanni Brusca che sarà ancora in libertà per anni, e poi a quella Seconda Repubblica che saprà rivelarsi identica alla Prima, con le stesse zone d’ombra, con gli stessi silenzi, con gli stessi accordi, con gli stessi stallieri. Con la stessa mafia Capitale. Non rimarrà che una festa triste, ancora al centro, ancora sotto i riflettori, ma ormai vecchio, malato, ubriaco, tradito, deposto, sacrificato, per sempre solo. L’ultimo momento di Tommaso Buscetta, uomo imperfetto e punito con un ergastolo di paura e abbandono, in quell’Italia in cui non potrà tornare mai più se non con il pensiero, con il ricordo, con quella dignità mai abdicata. Aveva sempre preferito fottere che comandare, Masino, e proprio per questo è stato fottuto. Dall’Italia, dallo Stato, da tutti noi, che distratti prima da Tangentopoli e poi dai culi televisivi abbiamo fatto «passare di moda» la lotta alla mafia. E forse, se alle doverose genuflessioni e ai più scroscianti e meritati applausi per quello che è probabilmente il più importante film italiano degli anni Duemiladieci realizzato da quello che per distacco si conferma il maggiore autore vivente del Belpaese aggiungessimo anche qualche sana autocritica, male non faremmo.

Marco Romagna

“The Traitor” (2019)
135 min | Drama | Italy / France / Brazil / Germany
Regista Marco Bellocchio
Sceneggiatori Marco Bellocchio, Valia Santella, Ludovica Rampoldi, Francesco Piccolo
Attori principali Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Luigi Lo Cascio, Alessio Praticò
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