4 Settembre 2024 -

QUEER (2024)
di Luca Guadagnino

Sa tradurre insospettabilmente bene in immagini quelle parole “impossibili” con cui William Burroughs rappresentava il desiderio e la frustrazione, l’atteso Queer con cui Luca Guadagnino, mescolando l’omonimo romanzo breve (e privo dei suoi più tipici cut-up) redatto nei primi anni Cinquanta ma pubblicato solo nel 1985 dallo scrittore statunitense con l’eroina del suo precedente Junkie (noto in Italia come La scimmia sulla schiena) e il controllo telepatico del successivo Il pasto nudo già messo in scena (meglio) da David Cronenberg, torna ancora una volta al Lido per partecipare al concorso principale dell’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un aspetto sul quale il regista palermitano, internazionale ormai da quasi due decenni con i suoi film in lingua inglese interpretati da cast stellari (questa volta Daniel Craig, definitivamente libero dai panni che sentiva ormai pesanti di 007) ma spesso di ritorno non solo produttivo in Italia per girare in location o come in questo caso per costruire la sua personale versione pastello di Mexico City negli studi di Cinecittà, caricando la messa in scena di quella progressiva cupidigia carnale che forse mai in carriera era riuscito realmente a raggiungere impernia tutta la prima parte della parabola narrativa di Queer, già nel libro fatta di una costante ricerca di promiscuità e di seduzione, di incontri occasionali e di due di picche, di dialoghi espliciti, ‘sporchi’ e provocatori nei bar frequentati dalla comunità omosessuale e di (in)soddisfacenti rapporti a pagamento nei più squallidi alberghi a ore. Fino a quei due istanti già immaginati a parole da Burroughs nel suo romanzo ma dalla resa cinematograficamente semplicemente magnifica, di rare (e per Guadagnino in sostanza inedite) poesia, eleganza e delicatezza, in cui il protagonista William Lee, (già) alter ego dello scrittore in cui è abbastanza evidente come anche il regista Guadagnino cerchi una nuova specularità personale, mentre sta semplicemente parlando con  quel più giovane Eugene Allerton che brama più di ogni altra cosa per tentare di capirne l’orientamento sessuale, si scinde in una doppia esposizione incrociata nella quale sognare in dissolvenza di allungare una mano per accarezzare dolcemente il viso del suo (s)oggetto del desiderio. Per un’attrazione che questa volta nasce da un punto più profondo dell’anima, non per forza corporale ma (se necessario anche) fantasmatica, intima, viscerale, che si spinge (già) oltre la mera carne verso quel tragico innamoramento unidirezionale che in Burroughs porta(va) verso una sorta di Apocalypse now nel quale non trovare il Kurtz rappresentato dalle radici psichedeliche dell’ayahuasca, forse in grado di provocare connessioni telepatiche e quindi di condizionare all’amore, e che invece Guadagnino ribalta nella scienziata/strega che fornirà loro la sostanza e il rito antichissimo con il quale consumarla. Spingendoli oltre le porte della percezione e, come si diceva, al libro successivo e alla biografia stessa dello scrittore fra i padri della beat generation, ma anche verso il cattivo gusto delle (ahinoi consuete, o per lo meno di ritorno) derive più ineleganti e problematiche del suo immaginario cinematografico, verso il pastiche incontrollato di un repertorio creativo pacchiano che, man mano che progressivamente ci si inoltra sempre più in profondità, fa crollare tutto quanto di buono fatto fino a quel momento per lanciarsi in un’insistita citazione cinefila gratuita che, più che un omaggio, sembra piuttosto la spocchia egoriferita di chi si crede un genio uguale alle mutazioni corporali di Cronenberg, ai mondi alternativi di Lynch o al finale del 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick, proprio come nel precedente Challengers si appropriava fino a farne il verso di Come le foglie al vento di Douglas Sirk.

Del resto a ben vedere iniziano già da ben prima della svolta narrativa che ribalta l’opera originale di Burroughs e che così tradisce nel suo senso, i problemi di Queer. Già dal momento in cui quel desiderio così splendidamente rappresentato nella prima mezz’ora o poco più del film, fino a farlo sembrare quasi un antidoto alla programmatica insincerità e agli stereotipi di Call me by your name, virerà al sesso con o senza amore ma con la (sempre) rivedibile scelta di tornare, a diciannove anni da Melissa P, a filmare le fellatio inquadrando i movimenti della parte superiore della testa tagliata giusto un paio di centimetri più in alto della bocca per lasciare gli organi sessuali appena fuori dal campo, e poi all’inerte viaggio in Amazzonia delle altre due ore con il quale, in un progressivo sfilacciarsi narrativo, tematico e stilistico (basti pensare alla dipendenza dagli oppiacei del protagonista, che appare praticamente dal nulla dopo più di un’ora di film e con la stessa rapidità sparisce poco dopo dalla narrazione), lasciare inabissare sempre più il Queer cinematografico verso i più ancestrali limiti di immaginazione, di inventiva e di sguardo del suo autore, troppo patinato e lezioso per ritrovare realmente l’osceno e l’urticante degli ambienti putridi e drogati di Burroughs, e al contempo troppo kitsch e volgare per avvicinarsi all’(omo)erotismo elegantissimo e barocco di un Almodóvar o, a sessi invertiti, della Céline Sciamma del magnifico Ritratto della giovane in fiamme. C’è invece, molto semplicemente, un ininterrotto sprofondare nel brutto, fra inerti tunnel onirici che non vanno oltre la superficie della mente di un junkie e cuori vomitati in disgustose placente di sangue, fra temporanee mutazioni carnali (ma non realmente spirituali) e imbarazzanti unioni body-horror di più corpi in una sola e unica pelle che sembrano quasi fare il paio con l’inavvicinabile sabba finale di Suspiria, fra corpi (questa volta femminili) immotivatamente mutilati e modellini nei quali rivedersi dall’esterno immersi nel proprio mondo. Fra serpenti che si mordono la coda e pistole con cui rievocare nel finale il tragico e accidentale uxoricidio commesso dallo stesso Burroughs come fondamentale trauma mai direttamente ricordato nei suoi libri eppure alla base di quasi tutta la sua produzione letteraria, in cui per salvare il film dal suo crescente naufragare non può in alcun modo bastare qualche buona inquadratura subacquea, qualche sfondo caldo e ipercolorato che guarda dichiaratamente dalle parti di Powell e Pressburger, la presenza nel cast di Lisandro Alonso e David Lowery o la (notevole, ma in qualche modo anche pretestuosa) playlist di canzoni alternative anni Ottanta-Novanta da Come as you are dei Nirvana a Leave me alone dei New Order passando per Puzzle dei Verdena, rigorosamente anacronistiche nel loro giungere dal futuro ma di fatto incapaci di stratificare in alcun modo il discorso. Fino a quel volo nello Spazio fra luci e colori apparentemente casuali al termine del quale definitivamente cadere, proprio come il film, di nuovo a Città del Messico, e poi per le derivazioni dell’epilogo in cui giocare, impunemente e in maniera pure più che un pelo arrogante, a rifare quelli che si ritengono essere i propri maestri senza probabilmente nemmeno rendersi conto di depotenziarli fino all’inconsapevole parodia di idee di cinema e autorialità troppo più grandi delle proprie. Un racconto in due capitoli, Ti piace il Messico? e Compagni di viaggio, seguiti da un finale separato che è probabilmente il momento in assoluto più disastroso di Queer, con cui Luca Guadagnino compie un illusorio passo avanti e poi svariati indietro che, dopo il percorso di crescita intrapreso con i comunque problematici ma decisamente più riusciti e consapevoli Bones and All e Challengers, lo riportano ai difetti più antichi e forse immutabili della sua autorialità impossibile da negare eppure finora mai del tutto convincente nel gusto e nelle scelte narrative e di messa in scena su cui si fonda. Per l’ennesimo lavoro a budget e ad ambizioni altissime del regista, che pur con le basi di un ottimo testo di partenza e un incipit che per una volta tanto riesce in un aspetto in cui gli altri suoi film avevano fallito finisce inevitabilmente per rivelarsi un’ulteriore occasione sprecata, funestata dalla sua idea di non avere idee proprie ma di doversi sempre riferire a opere e autori del passato, con un egocentrismo troppo radicato e probabilmente troppa poca umiltà per impararne e farne realmente proprie le lezioni.

Marco Romagna

“Queer” (2024)
135 min | Biography, Drama, History | Italy / United States
Regista Luca Guadagnino
Sceneggiatori William S. Burroughs, Justin Kuritzkes
Attori principali Daniel Craig, Lesley Manville, Jason Schwartzman
IMDb Rating N/A

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