8 Settembre 2023 -

MALQUERIDAS (2023)
di Tana Gilbert

«Presto, nascondi il telefono!» dice una detenuta all’altra intenta a filmare quando si iniziano a sentire i passi minacciosi della guardia in arrivo. Solo uno tra i non pochi cellulari dei quali, ovviamente, ogni regolamento carcerario vieta esplicitamente il possesso durante il periodo di reclusione, ritirati all’ingresso per impedire a chi sconta la pena di avere contatti non autorizzati con il mondo esterno, eppure in qualche modo fatti lo stesso entrare e tenuti nascosti riuscendo a eludere ogni controllo e ogni ispezione. Telefoni clandestini che sono fondamentali, tanto per continuare a sentire quotidianamente i propri figli quanto come occhi meccanici attraverso i quali sono le stesse detenute a mostrare, dall’interno del carcere, la loro quotidianità e il loro senso di comunità, i loro drammi di vita che le raggiungono dietro le sbarre e il profondo senso di emancipazione del loro condividerli, del vicendevole tendersi la mano. Malqueridas, annunciato proprio mentre si scrive come freschissimo e meritato vincitore della 38ma Settimana Internazionale della Critica annessa all’80ma Mostra del Cinema di Venezia, è il potente esordio al lungometraggio della documentarista cilena Tana Gilbert; un’opera magnifica che cuce insieme sei anni di immagini proibite, provenienti da quasi una ventina di differenti sguardi in silicio, con i resoconti delle esperienze vissute da quasi altrettante testimoni in un racconto che è al contempo collettivo e perfettamente unitario, narrato fuori campo da una sola protagonista (Karina Sánchez, a sua volta ex-detenuta) che racchiude nella sua parabola tutte le altre fino a trasformare il particolare (personale e del Cile) nell’universale di ogni donna incarcerata nel mondo. Un film che incarna orgogliosamente una forma di umanità e di Resistenza attiva, che sfida apertamente le regole e i divieti per ricostruire una memoria collettiva delle zone d’ombra della detenzione partendo proprio da quelle (micro)storie dimenticate di donne costrette alla temporanea ed emotivamente dolorosissima rinuncia al proprio ruolo di madri, e da quella polifonia di sguardi e di immagini “evase”, tanto espressamente illegali da dover accreditare nei titoli di coda pseudonimi per non far rischiare alle loro autrici ulteriori inasprimenti di pena. Immagini prima rubate di nascosto fra le celle e le ore d’aria del carcere femminile, filmando se stesse in cattività e le dinamiche interne di reciproca solidarietà, di reciproca consolazione e di reciproco e sincero affetto, oppure quei neonati cresciuti pure loro come detenuti per poi, al compimento del secondo anno di età, essere strappati da quella loro madre destinata a rimanere reclusa ancora per un po’, e poi riscritte in forma di narrazione da Tana Gilbert, per un accorato ritratto di (sostanziale) famiglia (rinchiusa) in un interno con cui far emergere dal buio e dalla claustrofobia una dignità umana profondissima, ben più forte della colpa e del castigo. Sempre vigorosa e pulsante, nelle gioie e nei dolori, di un’insospettabile vitalità.

C’è chi ha dovuto delinquere per necessità e chi lo ha fatto per scelta, nel campionario umano “male amato” (e quindi odiato) e nella maternità carceraria di Malqueridas. C’è il racconto dell’isolamento, con le punizioni più ciniche e le ispezioni intime più umilianti. C’è il trauma del ritrovare la compagna di cella morta impiccata, ci sono le depressioni che diventano tossicodipendenze, ci sono le figlie costrette a nascondersi nell’armadio di casa per rispondere al telefono perché nemmeno il padre vuole che abbiano ancora rapporti con la loro madre galeotta, e ci sono i bimbi piccoli ancora dentro con la madre che si mettono a piangere quando sentono avvicinarsi le chiavi del secondino che dopo l’ora d’aria sta per rinchiuderli nuovamente in cella. Ci sono gli intercorsi sessuali fra detenute che iniziano brucianti e spesso si consumano nel tempo di una consolatoria avventura con cui riempire un momento di vuoto, e ci sono quelli che invece diventano una vera e propria relazione duratura, un rapporto amoroso, un reale sentimento. Ci sono le tragedie più atroci e inaspettate, comunicate da qualcuno in lacrime nel parlatorio, e ci sono i rari momenti felici, eppure a loro volta malinconici: fuochi d’artificio guardati rigorosamente attraverso le sbarre, sporadiche concessioni di qualche momento danzante per capodanno, o la vasca a uso bagno (vestite) in piscina piazzata nel centro del cortile per un’ora d’aria alternativa. Ma soprattutto c’è la condivisione di un resistere quotidiano, c’è la solidarietà interna di una comunità, c’è il reciproco accudirsi, c’è l’entrare diventando ‘figlie’ delle detenute più umane e carismatiche, trovando una spalla su cui piangere nel calore del loro abbraccio per poi ritrovarsi a sostituirle diventando a propria volta ‘madre’ di quelle più giovani, e c’è l’uscire per buona condotta guardando commossa la ‘figlia’ prediletta che prende il ruolo di ‘madre’. Fino magari a dire alla figlia “vera” (quella biologica che si attende di poter rivedere per non lasciarla mai più) che quella “adottiva” del carcere è ormai una figlia da vegliare e proteggere esattamente allo stesso modo, come se all’imposizione di lasciare una vita e le sue emozioni più importanti si fosse scelto invece di rilanciare e raddoppiarle, dentro e fuori dalle mura circondariali con il medesimo trasporto. E poi ovviamente c’è il filmare per puro senso di ribellione, per non dimenticare e per non essere dimenticate, per gridare a tutta voce il proprio esistere e la propria più intima dignità. Un filmare per riuscire a sopravvivere a quei giorni, a quei mesi e a quegli anni sempre uguali nel loro scorrere, realizzando immagini per lo più verticali e in bassissima definizione nelle quali la fluidità imperfetta, la leggera sfocatura e la grana digitale diventano progressivamente astrazione e quindi universalizzazione, immaterialità, ulteriore rifiuto delle regole, vera e propria utopia di salvezza a cui aggrapparsi con tutte le forze come a un vagito di libertà. Immagini statiche e in movimento, che possono essere mostrate così per come sono fortunosamente arrivate sul tavolo di montaggio di Tana Gilbert oppure nemmeno esistere, con il sonoro che sin dall’incipit emerge già dallo schermo nero e con le fotografie che fanno da sfondo al prosieguo della narrazione là dove il footage video si ferma. Per un’ora e un quarto ardimentosa e lacerante, sorprendentemente politica (ma tutto fuorché assertiva) nel suo straziato grido anticarcerario e nella furia espressiva delle sue immagini sporche e amatoriali, lontane sin dal formato “sbagliato” dei video in verticale da qualsiasi regola accademica ed estetica del cinema eppure proprio per questo così profondamente vere, così smaccatamente vive, così violentemente straripanti nella loro ostinata libertà. Così dolorose nel loro consapevole assestare un pugno in faccia allo spettatore, semplicemente sbattendogli di fronte quelle che sono le realtà della vita e della maternità mozzate da una condanna, e quelli che sono i volti, i nomi, le situazioni e gli intrecci delle vite costrette ad affrontarla.

Marco Romagna

“Malqueridas” (2023)
74 min | Documentary | Germany / Chile
Regista Tana Gilbert
Sceneggiatori Paola Castillo Villagrán, Tana Gilbert, Karina Sánchez
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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