31 Agosto 2025 -

GORGONÀ (2025)
di Evi Kalogiropoulou

Il lungometraggio d’esordio di Evi Kalogiropoulou, regista atenese nata nel 1985, è il divertissement allegorico Gorgonà, cugino distopico di quel cinema inerentemente storto e (linguisticamente prima che in sesso e politica) ‘queer’ che, decenni dopo i vagiti del cattivo gusto volontario e antagonistico di John Waters, si è trasformato in una creatura in teoria addomesticata. Al giorno d’oggi, nel mondo post-Me Too in cui le quote Netflix sono diventate un modello esemplare dell’industria e la destra che avanza si accanisce sulla famigerata (cosiddetta) teoria gender, è facile dimenticare che la fluidità sessuale è, oltre al discorso fisico individuale, innanzitutto un gesto d’insurrezione: non rientrare nei canoni della sessualità consiste in un vero e proprio travalicare dei confini. Confini più fisici di quelli che dividono le nazioni, e altrettanto “statali”, governativi, sociali. È facile dimenticarselo perché la narrativa corrente del cinema popolare, anche giustamente, muove l’attenzione su quella che ormai è nota come ‘normalizzazione’, che sposta l’interesse sulla comunità, sulla (presunta) vicinanza tra persone diverse, più che sulla (presunta) stranezza e diversità. Per esempio i film di Julia Ducournau sono l’eccezione che conferma la regola, tra i pochi lavori del panorama cinema contemporaneo in cui la diversità, che potrebbe essere il più complesso tra i pregi del genere umano, non è un tema appiattito da logiche dem-liberali, come accade quasi sempre nel cinema americano industriale (e ormai anche in quello indipendente) — opere afflitte dalle stesse prassi macinate e compattate per pubblicizzare le ideologie spesso senza crederci, quelle di chi (e qui parafraso una recente canzone satirica scritta da Lundini sull’epidemia di cortometraggi a tema bullismo) «di fare un bel film non ha l’ambizione» e anzi gli «diranno ‘bravissimo’ perché c’è un tema sociale». Gorgonà nasce in parte da quello spirito, per il mondo allegorico ed estetizzante che racconta, ma soprattutto per la struttura tutto sommato prevedibile dell’intreccio centrale, vicino al filone definibile “saffico-weird”, sottogenere queer, quello di The Handmaiden Love Lies Bleeding, anche se il capostipite rimarrà sempre Bound, esordio delle sorelle (allora note come fratelli) Wachowski. Se la prevedibilità può essere un limite della sceneggiatura, tuttavia, l’appartenenza a quello che ormai non è un pensiero politico(/sessuale) ma un vero e proprio genere nel senso letterario del termine invece aiuta a incasellare il debutto di Evi Kalogiropoulou in una struttura con le sue regole, il che non è necessariamente un male. Anche perché è strabordante la creatività dell’impianto scenografico, la violenza della tamarrissima colonna sonora, il ritmo dei movimenti sottilmente coreografati, la capacità di osare (e di sfidare), il rifiuto sprezzante di ogni (auto)censura… ma andiamo con ordine.

Sinossi: in un presente ucronico, un piccolo paesino senza nome, senza tempo, con pochissimi abitanti, sopravvive solo grazie al petrolio. È una distopia in cui sono tornate a vigere regole patriarcali primitive, e Nikos, il capo militare dell’area, un incestuoso e muscoloso archetipo di machismo con la pistola sempre in mano, è ormai invecchiato e ha bisogno di un erede che possa prendere il suo posto. Tra i suoi “fratelli”, ovvero i suoi sottoposti addestrati militarmente e avvezzi all’uso smodato di steroidi, quello che si rivelerà più forte attraverso una serie di test otterrà il titolo di dittatore dell’isola che Nikos ha detenuto per lungo tempo, quando questi morirà. Tra i “fratelli”, tuttavia, c’è molta perplessità: perché Maria, protetta/schiava/prostituta in mano a Nikos, sta partecipando a questa corsa al trono? E perché l’acquisto (come “articolo di baratto” in cambio di petrolio) della giovane cantante da bar Eleni sta creando così tanto scompiglio tra gli abitanti del villaggio? I personaggi sono una fauna di creature curiose — alcuni sembrano i soldati di Beau Travail di Claire Denis, altri mostri umani degni di Korine, santi tossici in un presepe degradato. Si muovono, ingabbiati, in uno spazio irreale: un non-luogo di sudore, vestiti firmati e texture leopardate, attraversato da zoom-in in stile spaghetti western, invaso da una luce solare che uniforma l’architettura, col mare vicino ma sempre impallato da navi e cantieri. Gorgonà, terzo film in concorso alla 40esima Settimana Internazionale della Critica annessa a Venezia82, è ambientato in una tirannia del corpo, una realtà deformata dal materialismo in cui la carne è merce e strumento. Le donne sono innanzitutto vittime ma in quanto tali anche uniche possibili agenti di riscatto in uno scenario post-catastrofico, ancora vittima dei fantasmi del capitalismo nonostante il ritorno a ruoli simbolici. È soprattutto nella costruzione dell’impianto che Gorgonà riesce a elevarsi, certo con derivazioni evidenti, ma senza mai apparire già visto od obsoleto. La regia è spesso paratelevisiva, ma si accende improvvisamente quando mette in scena una forma rituale, un’immersione, una danza, una soglia di tensione. Il sesso. La scenografia sempre vivace risalta la figura umana: se i dialoghi sono troppo didascalici, è vero che la storia probabilmente si capisce alla perfezione anche senza leggere i sottotitoli, facendo parlare solo i movimenti dei corpi, appunto, la carne umana, quella maschile che esercita la volontà e quella femminile che da merce diventa agente. L’erotismo (tra donne; solo tra donne) diviene gesto liberatorio: ogni scena è una piccola coreografia che lavora sugli archetipi, destrutturandoli con ironia e furia.

Come immaginando una tragedia di Euripide in un contesto di periferia punk/trap decadente (ma con protagoniste capaci di trasmutarsi in eroine mitologiche), Gorgonà insiste sulle dinamiche di desiderio e potere enfatizzando forse la narrazione più che la visione, ed è questo forse l’unico vero problema alla base dello sguardo di Evi Kalogiropoulou. Ma l’impianto non elimina la costruzione del discorso amoroso attraverso l’immersione in un mondo altro, che invece è un punto di forza, anche tenendo in considerazione che l’elemento fantastico (che include superpoteri simil-Medusa) non esclude mai i divari sessuali e di classe. Il complesso industriale-militare viene ridotto a un teatrino di ometti ridicoli e fumettosi, pantomima patetica da ridicolizzare. Grottesco e pseudo-morale, eppure orgogliosamente arrapato, il film dimostra anche un legame slabbrato con la misantropia assurdista della new wave greca (Tsangari, i primi film di Lanthimos): non come citazione, ma come fratellanza teorica. L’assurdo è un modo di guardare il mondo, dichiararne la rovina, forse tentare di rifondarne i valori, anche se si è fieramente consci di non aver ancora capito niente delle evoluzioni del mercato e dell’autorità.

Nicola Settis

“Gorgonà” (2025)
N/A | Greece
Regista Evi Kalogiropoulou
Sceneggiatori Louise Groult, Evi Kalogiropoulou
Attori principali Aurora Marion, Kostas Nikouli, Christos Loulis
IMDb Rating N/A

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