22 Maggio 2023 -

KILLERS OF THE FLOWER MOON (2023)
di Martin Scorsese

«Il nostro sangue sta diventando bianco», dirà poco prima di morire la madre a Mollie. Una frase che non vuole in alcun modo puntare il dito contro la figlia per essere l’ennesima donna indigena andata in moglie all’ennesimo uomo caucasico, ma che nel profondo sconforto di chi ha già visto giungere accanto a sé il simbolo ancestrale di morte del gufo che ben presto ne porterà via l’anima in qualche modo la inizia a mettere in guardia mentre, uno dopo l’altro, l’intera famiglia e l’intera tribù rimarranno uccisi in circostanze misteriose e sempre più violente senza che apparentemente nessuno, né lo Stato, né la legge, né il destino, sembri voler fare nulla per evitarlo. È l’Oklahoma post-coloniale degli anni Venti, quello a cui Martin Scorsese decide di tornare nel suo nuovo, fluviale e ambiziosissimo, Killers of the Flower Moon. Un Oklahoma in cui l’improvvisa fuoriuscita dal suolo dell’oro nero ha cambiato per sempre la vita e le condizioni economiche dei «selvaggi» Osage elevandoli da «primitivi» a ricchi e civilizzati proprietari, e in cui l’avido e viscido uomo bianco che magari si finge amico e anzi benefattore dei pellerossa è (stato) disposto a inganni e ripetuti omicidi fino a rasentare un vero e proprio genocidio pur di mettere le mani sulle loro ricchezze immobiliari. Un film politicissimo e con il respiro della grande epica americana, in cui Scorsese, giocando apertamente con i canoni del western crepuscolare, del gangster movie, del film storico in costume, del melodramma, del poliziesco, del thriller giudiziario, del (meta)cinema dei cinegiornali muti che illuminano i volti degli spettatori in sala e perfino del dramma radiofonico, ci mette la faccia per innestare in una delle pagine più nere e generalmente rimosse della Storia statunitense l’ennesima personale riflessione sulla memoria da recuperare, sulla menzogna prolungata e sull’oblio, sul senso della Storia e su quello della narrazione, sulla colpa atavica di cui finalmente farsi carico e sul tempo che scorre inesorabile, nei vent’anni circa che compongono l’arco narrativo del film fra amori, menzogne e manovre dall’alto ma anche nella carriera e nella vita dello stesso regista, che dopo le riflessioni esplicite sulla senilità e sulla morte dei de-aging sul gruppo storico di amici in The Irishman sceglie qui non certo per caso di convocare insieme Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, mettendo per la prima volta uno accanto (o forse contro) all’altro i due attori-feticcio simbolo delle diverse generazioni attraverso le quali sono passati i suoi per ora ottantuno anni di vita di cui cinquantasei dietro alla macchina da presa.

Sarebbe però fare un torto al suo gigantismo cinematografico e ai suoi reali capolavori non alzare di conseguenza le aspettative e limitarsi a una mera genuflessione negando come, lungo lo scorrere dei duecentosei minuti (uno per uno necessari per lasciare il tempo alle mille evoluzioni di una narrazione densissima e che corre veloce fra azioni, reazioni, scarti, imprevisti, flashback ed ellissi) del pur bellissimo Killers of the Flower Moon, titolo di gran lunga più importante di Cannes76 anche se il Festival sembra aver fatto tutto il possibile per non farlo vedere, programmandolo una sola volta e lasciando a tanta costanza e un po’ di fortuna riuscire o meno ad aggiudicarsi un biglietto, sembri a tratti trasparire anche qualche momento un po’ più stanco, (consapevolmente) senile, che cerca ma riesce solo a intermittenza a raggiungere la potenza dei vari Toro Scatenato e Taxi Driver o l’energia vigorosa e travolgente dei Mean Streets, dei Goodfellas e dei Casinò (ma, rimanendo a esempi più recenti, si potrebbe citare anche il giovane e freschissimo The Wolf of Wall Street), o come il film non sia scevro, specialmente nei flashback della parte processuale, di qualche didascalismo che probabilmente nelle opere più ispirate di Scorsese sarebbe stato annullato dalla forza espressiva e dai continui deflagrare della narrazione. Eppure rimane un grande film Killers of the Flowers Moon, l’ennesima grande prova di uno dei maggiori autori nella storia del cinema, l’ennesimo affresco di un’America criminale che attraversa tutti i generi cinematografici per liberare la sua potenza politica e il suo guardare alla Storia e alla memoria come unico residuo barlume di giustizia, mentre il cast all-star formato da De Niro, DiCaprio e forse soprattutto la sublime Mollie di Lily Gladstone, ma pure Jesse Plemons e Brendan Fraser dai loro ruoli minori ma fondamentali, giganteggiano in ogni inquadratura e in ogni respiro del montaggio prendendosi il film sulle spalle. Un grande romanzo americano in immagini che forse si fa un po’ aspettare ma poi sedimenta, cresce con il tempo durante e dopo la visione, si innesta da qualche parte sul fondo delle retine e del cuore. Serve solo riuscire a regolare le attese, prendere il film per quello che è e saperlo incasellare dove merita di stare, nettamente superiore ai meno riusciti Shutter Island e The Aviator ma pure al buonissimo Silence, eppure a distanza di sicurezza dai principali capolavori scorsesiani degli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Un film che, nonostante lo sguardo evidente verso Cimino (ma forse anche verso Welles…) e i lunghi tempi di realizzazione interrotti per oltre un anno e mezzo dalla pandemia e ripresi solo a metà 2021, solo a tratti riesce davvero a toccare e a far toccare lo stesso cielo delle principali vette del suo autore, ma che non smette nemmeno per un momento di volare alto, per poi aprire all’improvviso ai suoi non pochi istanti di puro sublime cinematografico, come quando le figure umane si stagliano in silhouette dietro ai miraggi del fuoco, come in quel ralenti miracoloso sulla danza degli indiani intorno alla buca nel terreno che ha iniziato a sprizzare petrolio, come nel gioco di sguardi fra i futuri coniugi nello specchietto del taxi, ma soprattutto come nel magnifico finale, quello sì degno del miglior Scorsese, che dopo tre ore e mezzo deflagra improvviso per chiudere le fila delle narrazioni e fare esplodere l’asticella nella sua sarabanda di microfoni, volti, storie e rumori.

A partire dalla scelta di ribaltare il punto di vista dell’omonimo romanzo del 2016 di David Grann da quello dell’investigatore del neonato FBI che indagherà sulle circostanze a quello dell’Ernest Burkhart interpretato con mimica facciale à la Vito Corleone da un gigantesco DiCaprio, al contempo vittima e carnefice, reduce dalla Grande Guerra che si rende esecutore materiale di omicidi, truffe, ipocrisie e bugie prolungate ma al contempo sostanziale inetto manovrato come un burattino da uno zio criminale – «You can call me King», e poi giù di battipanni – al quale non sa dire di no né disubbidire, Martin Scorsese lavora da subito sulle sfumature e sulle contraddizioni del protagonista, sulla verità e sulla menzogna, sulla colpa e sull’ipocrisia, sul suo compiere materiale per poi far finta di non sapere e di «prendersi cura» preoccupato, ma anche sul dolore esistenziale e romantico degli assassini del titolo, perché la Storia non ha mai una sola chiave di lettura, ma è sempre più complicata e stratificata di quanto possa apparire. Certo, anche Ernest, incapace o quasi nella sua sfrontata ottusità di prendere decisioni autonome né di rifiutarsi di prendere attivamente parte al corso degli eventi fino a sterminare personalmente parte della sua stessa famiglia o a essere proprio l’uomo designato a prendere accordi con il sicario di turno, ma al contempo sinceramente innamorato di quella moglie indiana quasi impostagli per vampirizzare le ricchezze della sua famiglia e, se possibile, da avvelenare lentamente per incassare qualche premio dalle assicurazioni sulla vita, ama i soldi più dell’etica e probabilmente anche dei suoi stessi affetti, ma basterebbe il momento della sua sincera e straziante disperazione quando, già in carcere, gli viene comunicato il decesso della figlioletta, per sentire l’esplosione più fragorosa della sua complessità umana e morale. Eppure non vuole assolutamente essere imparziale, Martin Scorsese. Riportare alla memoria collettiva i massacri degli Osage come paradigma di tutte le colpe coloniali e post-coloniali del razzismo e del Capitale bianco è già un intrinseco schierarsi dalla parte degli indigeni, una ben precisa presa di coscienza in cui ritirare fuori dalle pieghe della Storia le responsabilità ataviche di tutti gli eurodiscendenti nel loro massacro per chiedere personalmente scusa, e per tentare di restituire un minimo di giustizia alle vittime, alla loro cultura millenaria, alle loro leggende e litanie più antiche, alla loro lingua quasi scomparsa, alle loro credenze panteiste e animiste che nessuna (in)«civilizzazione» e sostanziale imposizione del Cristianesimo potrà mai fermare nelle sue manifestazioni mistiche e misteriche. A quei fiori della luna che crescono lungo le pendici della collina, come figli del Sole, del Fuoco, del satellite che cresce e cala nel cielo rischiarando le notti col suo brillare. Un popolo depredato, senza possibilità di redenzione, della sua autonomia, della sua cultura, della sua terra, delle sue ricchezze, delle sue giovani vite, e infine magari non più ucciso ma confinato nelle riserve, senza nemmeno un cartello per ricordarne i massacri. Il resto sono cadaveri che valgono 25mila dollari e truffe assicurative, (tragiche) rapine in banca e testamenti da far firmare per assicurarsi le eredità, investigatori privati e primi agenti federali coordinati da lontano da J. Edgar Hoover, ma anche sparatorie, bombe che esplodono nella notte, auto rubate e ritorni in flashback a ribaltare le prime impressioni. Cinema purissimo, per l’ennesimo fiume scorsesiano, come d’abitudine sontuosamente fotografato da Rodrigo Prieto e genialmente raccordato dalla grande montatrice Thelma Shoonmaker, di indagini e di pentiti, di riunioni e di patteggiamenti, di avvocati e di testimonianze, di lavori sporchi e di lavori puliti. Di lacrime e di preghiere, d’amore e di menzogne, di tradimenti e di cortocircuiti, di crudeli disvelamenti e di dolorose verità che non si potranno mai più nascondere, di fiale di insulina e di fiale di veleno che forse, o forse no, Ernest crede sia davvero morfina con cui poter alleviare il dolore. La stessa ambiguità della Storia, specialmente quando per troppo tempo, colpevolmente, non viene narrata.

Marco Romagna

Ci è gradito comunicare che il film KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin Scorsese, distribuito da 01 Distribution, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente
Motivazione:
L’ennesima riprova di un gigantesco autore che, anche quando è prodotto da una piattaforma è capace di reinventare il proprio grande cinema: un film fluviale, dal ritmo disteso eppure impietoso, in grado di dialogare con le forme della serialità televisiva riuscendo a riprodurre la propria limpida visione del mondo. Un’opera sulle origini dell’America, il capitale che la consuma, l’homo homini lupus tra culture che la anima e la strema, in una storia americana, che grottescamente e implacabilmente racconta la scomparsa dolosa dei nativi, con un finale sardonico sulla società dello spettacolo.
(uscita 19 ottobre 2023)
“Killers of the Flower Moon” (2023)
206 min | Crime, Drama, History | United States
Regista Martin Scorsese
Sceneggiatori Eric Roth, Martin Scorsese, David Grann
Attori principali Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

ANATOMIA DI UNA CADUTA (2023), di Justine Triet di Marco Romagna
THE IRISHMAN (2019), di Martin Scorsese di Marco Romagna
POVERE CREATURE! (POOR THINGS) (2023), di Yorgos Lanthimos di Nicola Settis
PRISCILLA (2023), di Sofia Coppola di Donato D'Elia
MAY DECEMBER (2023), di Todd Haynes di Marco Romagna
KEN JACOBS - FROM ORCHARD STREET TO THE MUSEUM OF MODERN ART (2023), di Fred Riedel di Erik Negro