Holdover
/ hold·over] n.
1. residuo (m.); avanzo (m.)
2. (spec. amer.) chi rimane in carica (allo scadere del mandato ecc.)
3. (amer.) ripetente (m. e f.).[Garzanti, Dizionario italiano-Inglese]
La dichiarazione di intenti è chiara sin dall’inizio accompagnato dal fruscio di quello che sembra la puntina di un giradischi: il logo della Universal e il bumper che segnala il divieto ai minori di 17 anni non sono quelli che vediamo oggigiorno in sala, e sulla stessa falsariga sono le firme della Miramax e della Focus Features, ben diverse da quelle che abbiamo imparato a conoscere. Il gioco si fa poi scoperto con la sequenza che accompagna i titoli di testa, le prove di un coro di ragazzi, scrupolosamente diretti affinché i timbri e i volumi si amalgamino tra loro, affinché le voci, che di sicuro erano bianche fino a poco tempo prima, raggiungano la polifonia: eppure l’audio è in mono, qualcosa di ben lontano dall’alta fedeltà e dalla stratificazione sonora che troviamo quotidianamente negli standard odierni.
Siamo nel 1970, nonostante di lì a poco risuonino le note di Silver Joy di Damien Jurado – unica pesante concessione anacronistica insieme alla strumentale A Calf Born in Winter dei Khruangbin –, in un’America idealmente e geograficamente agli antipodi del teatro della contestazione californiana, in un New England non meglio identificato che ha già fatto piazza pulita dei suoi Alice’s Restaurant e ha determinato il destino dei suoi figli: da una parte la maggioranza dei disgraziati, spediti a frotte a crepare a Saigon e dintorni o a bombardare la Cambogia a tappeto, dall’altra i rampolli dell’élite, che la guerra l’avrebbero vista soltanto in televisione e che avrebbero costituito il nucleo della futura classe dirigente.
Un contesto in cui Alexander Payne e il suo direttore della fotografia Eigil Bryld, che subentra al fedelissimo Phedon Papamichasel, ci calano anche sul piano puramente tecnico, per quanto abbiano dovuto rinunciare loro malgrado all’impraticabile idea iniziale di girare in 16mm: la strumentazione microfonica risale esattamente a quell’epoca, le grane, gli aloni e le imperfezioni, sebbene ricreati in post-produzione dal fondamentale apporto del colorist Joe Gawler, contribuiscono a dare al tutto una sottile patina vintage, gli obiettivi impiegati, le lenti della serie H Panavision, conferiscono una sfumatura intima e retrò, ricca di prolungati primi piani.
È pertanto un film che trabocca di nostalgia questo The Holdovers, presentato nella consueta atmosfera che prelude all’inverno del Torino Film Festival, il quarantunesimo, e a ridosso di una stagione premi che si preannuncia agguerritissima. Una nostalgia provata non certo nei confronti di un momento storico che ha lacerato il tessuto sociale degli Stati Uniti, bensì verso il fermento cinematografico di allora, quello di una Nuova Hollywood che stava reagendo con rabbia e disillusione alla fine dell’innocenza americana, quello degli Arthur Penn, dei Bob Rafelson, dei Peter Yates e dei Peter Bogdanovich, che Payne riproduce meticolosamente, tra una scuola privata, prima, che pare l’ideale anticamera di Esami per la vita di James Bridges, e una gelida Boston, poi, che sembra uscita direttamente dall’ultima mezz’ora de L’ultima corvé.
Arriviamo quindi ad Hal Ashby, il riferimento diretto e imprescindibile di tutta l’operazione, autore oggi colpevolmente semidimenticato di cui lo sceneggiatore David Hemingson – esordiente assoluto, a 59 anni suonati, dopo una vita di mercenariato televisivo – in fase di scrittura e Payne, in corso d’opera, sottoponendo cast artistico e tecnico a uno studio praticamente monografico, sono andati a recuperare quella visione empatica e quello spirito umanistico che l’hanno reso forse il più malinconico dei cineasti statunitensi dell’epoca: c’è la redenzione dal privilegio de Il padrone di casa, c’è l’improbabile amicizia che veniva a crearsi in Harold e Maude – evocato anche in colonna sonora dal passaggio di The Wind di Cat Stevens –, c’è lo spettro del conflitto in Vietnam a incombere e a schiacciare come in Tornando a casa. C’è, insomma, l’affettuoso tributo a un intero immaginario che non scade mai nel gratuito citazionismo e che non si fa sterile esercizio di stile, ma che assurge a fragile riparo da una scena contemporanea da cui Payne dà l’impressione di volersi dissociare, come hanno per molti versi dimostrato la brutta caduta del precedente Downsizing – Vivere alla grande e i sei anni di assenza dalle scene che sono seguiti.
Sbaglia, dunque, chi ha frettolosamente accostato il film, puntando tutto sulla comune ambientazione in un collegio maschile, a L’attimo fuggente di Peter Weir o, ancora peggio, a The Breakfast Club di John Hughes, trovando un parallelo fra i due nuclei di scolari costretti a cui è impedito lasciare l’istituto, spunto che in The Holdovers si esaurisce nei primi tre quarti d’ora e che, piuttosto, trova il suo antecedente diretto nell’assai più cronologicamente remoto Vacanze in collegio di Marcel Pagnol, di cui la prima parte è praticamente un rifacimento non dichiarato. Esaurita questa falsa pista, infatti, semplice pretesto per garantire un maggiore approfondimento di caratteri, l’intreccio si concentra subito sui tre protagonisti, a partire dal misantropo professor Hunham, affetto da un’invalidante patologia oculare e accompagnato da uno sgradevole odore di pesce – esattamente come il Merlusse del film di Pagnol –, odiatissimo dai suoi studenti, zimbello del corpo docenti, vittima prediletta del rettore (che a sua volta era stato suo allievo), uomo di principio fino a rasentare l’ottusità, innamorato della sua materia, le civiltà antiche, al punto da accumulare copie dei Colloqui con sè stesso di Marco Aurelio da sbolognare come regalo a chiunque gli capiti a tiro: una figura assai più vicina ai piccoli, grandi falliti della didattica al cinema, come il Mr. Harris di Michael Redgrave, che alla stucchevole idealizzazione del professor Keating, insomma.
Ed è nell’unione della sua solitudine con quella del bulletto Angus, unico alunno non recuperato dai genitori prima della chiusura festiva, e quella dell’addetta alle cucine Mary, che ha visto il figlio poco più che adolescente tornare dal fronte asiatico dentro una bara, nella convivenza forzata di questi residu(at)i di una guerra ora metaforica, ora letterale, che The Holdovers (preferiamo glissare sul sottotitolo Lezioni di vita che gli è stato appioppato nella versione italiana) trova la sua compiutezza e quell’equilibrio che gli permette di tenersi a debita distanza dalla melassa e dalla retorica dei più triti feel-good movies, impreziosito da una cornice natalizia che – per quanto il regista si ostini a liquidarla come elemento minore – è lo scenario più appropriato in cui inquadrare le vicende, quel periodo dell’anno in cui, dietro alle luminarie, agli alberi addobbati, alle decorazioni e alle formule di rito, fanno capolino le nostre amarezze, le nostre sconfitte e le assenze che quella finta panacea che è il tempo non ci colmerà mai.
Un risultato a cui il film, senza dubbio quanto di meglio realizzato da Payne dopo A proposito di Schmidt, perviene con la complicità di un terzetto di interpreti che è impossibile immaginare diverso, con una Da’Vine Joy Randolph che, nonostante l’intensa drammaticità del suo personaggio, lavora tutta per sottrazione e ipoteca una sacrosanta statuetta come miglior attrice non protagonista, con un’autentica rivelazione come Dominic Sessa, alla prima esperienza sul grande schermo, una faccia da schiaffi dalla voce profonda e inquieta dal sicuro avvenire, e soprattutto con un meraviglioso Paul Giamatti, che torna a collaborare con Payne a vent’anni da Sideways – In viaggio con Jack, trovando solo ora, nel corso di una carriera che dopo La versione di Barney sembrava essersi inspiegabilmente arenata, quello che può dirsi il ruolo della sua vita.
C’è tanta tristezza, vera, inguaribile, in The Holdovers, stemperata certo dai brillantissimi dialoghi e da qualche sequenza davvero esilarante, come l’inseguimento nei corridoi dell’istituto e le sue conseguenze, la confessione nel negozio di liquori e la dissertazione nella sala da bowling sulle origini di San Nicola, una tristezza che in scene come il colloquio nell’ospedale psichiatrico tra il ragazzo e suo padre può arrivare a far male sul serio: siamo sicuri, però, di voler affrontare il prossimo Natale e quelli che verranno, siano essi lieti o mesti, solitari o affollati, sereni o tormentati, sottraendoci all’abbraccio caloroso e compassionevole di un grande film come questo?
Andrea Bosco