«Se potessi ritornare indietro conseguirei la laurea senza margine di dubbio, non dico ciò perché avrei voluto un altro tipo di vita, no, io sono soddisfatto della vita che ho avuto e la rifarei, vorrei la laurea solo per me stesso e non per altro. Oggi mi ritrovo ad avere letto davvero tanto e di tutto, essendo la lettura il mio passatempo preferito, a livello culturale mi definisco un buono a nulla (visto che non ho le basi) che se ne intende un po’ di tutto»
Matteo Messina Denaro, pizzino destinato ad Antonio Vaccarino successivamente pubblicato in Lettere a Svetonio, a cura di Salvatore Mugno
È ancora una volta una Sicilian Ghost Story, il cinema di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Pure in un film quasi del tutto privo dell’aspetto mistico e fiabesco in cui era immerso l’imperfetto ma affascinante lavoro precedente, e che si concentra invece sulla ricerca di una prospettiva inedita, o per lo meno inconsueta, dalla quale riflettere con sguardo cupo e originale non tanto su Cosa Nostra, quanto sugli equilibri di un intero sistema di potere, corruzione, segreti, menzogne di Stato e compromessi di cui le mafie e in generale la Sicilia – ma prese singolarmente pure la politica, l’economia, l’esercito e la massoneria – non sono altro che semplici ingranaggi di un gioco enormemente più grande e stratificato. Ma soprattutto sul ruolo dei padri, vivi e morti, assenti e presenti, vicini e lontani. Padri che crescono i figli e padri che li abbandonano, padri nemmeno conosciuti e padri putativi, padri che insegnano e padri che uccidono, padri che tradiscono e padri che muoiono. È per questo che, come si diceva, sono ancora e a tutti gli effetti figure fantasmatiche i personaggi che, come in una nuova “storia siciliana di spettri” da qualche parte fra il melodramma esistenziale del protagonista e la commedia grottesca che ruota attorno al suo traditore, animano questo nuovo Iddu ben al di là del suo sottotitolo, non solo pleonastico e didascalico ma proprio fuorviante, L’ultimo padrino. Fantasmi che dal loro buio continuano a influenzare la realtà di tutti gli altri, a riplasmarla, a ri-raccontarla giorno dopo giorno sempre diversa. Per ridiscutere quotidianamente i propri rapporti di interdipendenza e mancanza, e per proteggere un segreto (di Stato) di Pulcinella che, proprio nell’omertà, nella paura di dire ciò che è ovvio e nel continuo do ut des fra le parti in causa che vicendevolmente si coprono e si compenetrano, trova l’eterno e immutabile rinnovarsi della sua forza lungo lo scorrere delle (de)generazioni. È inevitabilmente un fantasma il boss superlatitante, Matteo, mutuato dalla vita e dalla latitanza di Messina Denaro ma mai direttamente identificato con Messina Denaro, e anzi sin dai cartelli che aprono il film personaggio dichiaratamente «di finzione» affidato a Elio Germano per ripercorrere fatti veri tentando di squarciare l’aura di ghiaccio dello spietato criminale, alla ricerca di qualche sua inaspettata debolezza umana, di punti deboli emotivi con cui metterlo più a nudo, e tentare così di portarlo a esporsi fino a compiere magari il decisivo passo falso. Un uomo sempre assente e sempre presente, così forte e inafferrabile proprio perché apparentemente incorporale, a capo di un impero economico e criminale eppure costretto dal suo stesso potere a vivere nascosto «come un sorcio» in uno stanzino segreto delle dimensioni di un armadio, a non poter presenziare nemmeno al funerale di quell’amato padre-re (ora a sua volta fantasma nei ricordi e nelle ossessioni) del quale ha appena ereditato il regno, e a non aver mai nemmeno conosciuto il suo unico figlio come se pure lui stesso fosse l’ennesimo fantasma, questa volta di un rimpianto. Così come è un fantasma, allo stesso modo finzionale per quanto allo stesso modo ispirato all’ex-sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e poi collaboratore dei Servizi in corrispondenza epistolare diretta con Messina Denaro, anche il Catello Palumbo di Toni Servillo, padrino (di battesimo) del Padrino (mafioso) e parallelamente ex-sindaco, ex-preside, ex-massone, ex-imprenditore, ex-benestante, ex-carcerato “bruciato” in ogni possibilità pubblica e privata, e per molti versi anche ex-uomo messo spalle al muro dalla vita, dalla rovina economica e dalla legge. Una figura profondamente comica eppure tragica, sola, disperata, «infame», che sulla promessa di una via di fuga da almeno parte di tutto questo accetterà di tradire il boss per collaborare con il SISDE e cercare invano di favorirne la cattura. Fantasma fra altri fantasmi che sono le alte sfere dell’esercito prestate ai Servizi, i parlamentari affiliati o comunque in costante contatto e trattativa, le ampie reti di informatori, i rapporti top-secret, e dall’altra parte i membri della famiglia criminale e i contatti più diretti del latitante, la sorella sin da bambina più battagliera e sanguinaria perfino di lui, la donna che lo nasconde e che dattiloscrive sotto dettatura le sue missive, gli autisti e i leccapiedi che lo proteggono e lo scortano. Pure il prezioso Pupo di pietra simbolico scettro del potere è del resto a ben vedere un fantasma, nascosto dentro a un pozzo che ormai appartiene a definitivamente a “Iddu”, lui, Matteo, forgiato da Piazza e Grassadonia su un episodio realmente accaduto e sui pizzini originali scritti e ricevuti nei primi anni Duemila da Matteo Messina Denaro – successivamente raccolti da Salvatore Mugno e pubblicati nel 2008 nel volume epistolare Lettere a Svetonio – per poi staccarsene e volare liberi verso altri lidi, perché nel loro cinema «la realtà è solo un punto di partenza, e non la destinazione».
Parte dal sorriso crudele di Matteo bambino nel flashback della prima pecora sgozzata come una sorta di rito di iniziazione criminale imposto come imprinting dal padre, la caratterizzazione del personaggio superlatitante di Iddu. Eppure, quando diversi anni più tardi e sempre su ordine di quel padre-padrone amatissimo dovrà uccidere un amico galoppino sospettato di avere tradito la cosca, sembrerà non provare più alcun piacere nell’omicidio, ma semmai irrequietezza, turbamento, rimorso, mano che trema ma che deve eseguire l’ordine – «Perché lo hai chiesto proprio a me?». Lo stesso dolore esistenziale, così lontano dallo stereotipo narrativo del vertice di Cosa Nostra, di quando ricorderà a voce il primo omicidio commissionatogli a soli 17 anni, di quando smetterà persino di leggere i pizzini della sorella che vorrebbe molta più violenza, e soprattutto di quando, già nell’incipit, si ritroverà di fronte al letto di morte di quel genitore così ingombrante e fondamentale nella sua formazione e nella sua vita, il cui trapasso lo rende definitivamente erede del ruolo ma anche irrimediabilmente solo, emotivamente perso nel suo inevitabile senso di vuoto e nell’inaspettato emergere delle sue più profonde fragilità e insicurezze. Una prospettiva con cui Iddu si immerge fra le campagne più semi-desertificate del trapanese alla ricerca del proprio punto di vista, ben lontano tanto dall’apologia spettacolare del boss mafioso quanto da qualsiasi volontà di giudicarlo, con cui ribaltare il socialmente periglioso pseudo-eroismo post-Gomorra (specialmente seriale) nell’altra faccia del crimin(al)e e della latitanza, nell’emotività negata e nel senso di isolamento e abbandono, nei traumi giovanili e nell’intimo dolore di chi è oramai prima vittima di se stesso e del proprio ruolo piramidale, nel paradosso di una ricchezza smisurata da non potersi godere per vivere nella più totale ristrettezza di spazi, di qualità della vita, di anche minime occasioni sociali, e forse pure del dubbio, del senso di colpa, dell’insoddisfazione, dell’inadeguatezza, del non volere la non-vita e la non-umanità per cui si è stati da sempre addestrati. Lo spalancarsi della voragine esistenziale di chi, nella sua solitudine e nella sua mancanza, non può fare a meno di inoltrarsi continuamente in nuovi ricordi d’educazione paterno-mafiosa e spietatezza, e magari dall’altra parte cercare proprio nei pizzini scambiati con il padrino Catello, chiaramente senza potere ancora sapere come siano frutto di una collaborazione coi Servizi, quella nuova figura paterna con cui riempire la propria asfissiante mancanza mentre passa ogni suo singolo giorno nel costante buio di una persiana che deve rimanere rigorosamente chiusa. Un’oscurità (delle anime, degli ambienti, ma soprattutto del sistema siciliano e statale che ovunque nel mondo lega insieme nel disegno generale i vari tasselli del puzzle sociale e del potere) che la coppia di registi, giunti dopo Salvo (già a sua volta ‘figlio in controcampo’ del cortometraggio Rita) e il già citato Sicilian Ghost Story al loro terzo lungometraggio (e, dopo la Semaine de la Critique di Cannes del lavoro precedente, per la prima volta in concorso a Venezia nella sua edizione numero 81), mette in scena in un film di interni necessariamente squallidi e di continue rifrazioni, di specchi e di superfici scure che restituiscono la loro versione alterata della realtà, di un mondo esterno che si proietta sulle lenti degli occhiali del boss che tutto guarda senza essere visto, nascosto in un luogo (s)conosciuto che magari è un buco in terra o che magari (come nella realtà, per quanto il film sia stato concepito e scritto ben prima dell’arresto e della morte di Matteo Messina Denaro dello scorso anno) è semplicemente quella casa in cui chi di dovere fa in modo di non trovarlo, di fatto già detenuto e anzi ergastolano eppure (lasciato volutamente) libero di (anzi, per) svolgere il proprio ruolo di ingranaggio dell’apparato. Riflessioni magari non così necessariamente illuminanti negli assunti, ma il punto di Iddu è proprio come la Sicilia (anche se si potrebbe dire del mondo intero) funzioni basandosi esattamente sul perfettamente noto a tutti ma non detto, sul silenzio, sulla reticenza, sulla divisione fra complici e pedine. Sulle parole pronunciate e trattenute, false e sincere, orali e scritte, che proprio per questo è così importante finalmente esprimere e rimettere al centro senza che serva necessariamente arrivarci chissà dove: quello che conta è spezzare la catena di omertà. Quelle parole da ricalibrare a seconda del destinatario delle missive, quelle parole registrate nelle intercettazioni con cui liberarsi dei nemici politici nel coordinarsi del potere criminale con quello giudiziario, quelle parole degli acronimi e dei nomi in codice da estrapolare, a dispetto della scarsa formazione scolastica del boss, dai più alti riferimenti culturali – del resto «ormai si legge solo in carcere». Quelle parole di minaccia che rimarranno forse per sempre sospese come una condanna all’oblio e al rifiuto sociale ben peggiore della morte, mentre l’ultimo tassello completerà definitivamente il mosaico. Poi, sì, specialmente nelle sequenze oniriche forse sarebbe stato lecito aspettarsi qualche guizzo registico in più da Piazza e Grassadonia, che maneggiano la materia confermando ancora una volta i loro pregi ma anche i loro difetti, inserendo in una narrazione tutto sommato calibrata e coesa qualche elemento più brusco, confusionario e forzato nei disvelamenti, o in una scrittura per il resto ben soppesata qualche simbologia a grana un filo troppo grossa e qualche dialogo che a volte cede alla superficialità o all’inutile spiegone. Eppure, anche se non proprio tutto in Iddu funziona, e ben al di là della diffusa e immeritata freddezza (quando non immotivato ludibrio) con cui è stato accolto al Lido nelle sue prime proiezioni stampa, viene assolutamente naturale difendere il lavoro di Grassadonia e Piazza. Un film, come si diceva, non sulla mafia ma su tutto il sistema e ancor di più sui padri e sui figli, magari non esattamente straordinario ma senza dubbio ben più che dignitoso e interessante, di fronte al quale non ha senso incancrenirsi sugli aspetti e dettagli meno riusciti ignorando la sua ambizione di un’assoluta libertà di sguardo sulla Storia. Una libertà per cui è possibile empatizzare perfino con il più feroce fra i boss, del quale Iddu distrugge programmaticamente la mitologia per restituirne un’immagine diversa e assai più stratificata, fragile, eterea, malinconica, ambigua, dolorosa, complessa. Insospettabilmente umana, al di là del vero, del falso e del simbolo, del possibile e dell’impossibile, del bene e del male.
Marco Romagna