15 Febbraio 2017 -

EL BAR (2017)
di Álex de la Iglesia

Homo homini lupus. Possono passare i secoli e i millenni, ma sempre sarà così. Quando gli uomini vengono messi di fronte a una situazione estrema finiranno prima o poi, inevitabilmente, per sbranarsi fra di loro, per salvare se stessi a discapito degli altri, per lasciar vincere l’istinto di sopravvivenza sul raziocinio, sull’altruismo, forse anche su sentimenti che sarebbero potuti nascere. O forse no. Nel cinema di Álex de la Iglesia, “eretico” regista basco di Bilbao, è tradizione che le acque in cui si muoverà il film vengano annunciate da alcuni fra i titoli di testa più belli della storia del cinema, autentici miracoli visivi ed eversivi, a volte concettuali, a volte narrativi, già grondanti di quella verve ironica pulp e multiforme, acidula e nerissima, su cui il regista spagnolo ha sempre basato le proprie migliori caratteristiche di scrittura e di messa in scena. Dopo gli ambienti circensi evocati dai titoli di testa del notevolissimo Balada triste de trompeta, premiato a Venezia 2010 da Tarantino e capace di dissimulare nelle sue forme di film di genere un vero e proprio trattato sanguinolento contro la Spagna franchista, dopo la donna/strega costruita fra la Venere di Willendorf e Angela Merkel in apertura del molto divertente ma meno ambizioso Las Brujas de Zagarramurdi – non chiedeteci di usare il titolo italiano Le streghe son tornate –, i titoli di testa di El Bar, nuovo lavoro di Álex de la Iglesia che giunge fuori concorso a Berlino, rappresentano un virus che si evolve, muta continuamente, cresce, fagocita, si prepara a uccidere. Nelle forme più impensate.

Intrattenimento purissimo che, fra terrore ed equivoci, non dimentica di interrogarsi sui rapporti umani e sociali, sulla politica e sui segreti di Stato, sulla manipolazione dell’informazione e sul controllo delle reti GSM, El Bar si apre sulla strada, nel centro pieno di Madrid, nel caos dei mercatini e di un rutilante pianosequenza che presenta già tutti quelli che saranno i personaggi del film: la bella e sofisticata Elena, Nacho e i suoi computer, Israel e la follia in fondo ai suoi occhi, Satur che lavora da tanti anni dietro il bancone di El Bar. Per i motivi più disparati, si ritrovano tutti nello stesso bar quando, all’uscita di un cliente, si sente uno sparo e l’uomo cade freddato a terra. La stessa sorte spetterà, pochi secondi dopo, a chi è uscito per soccorrerlo. Ma chi ha sparato? È forse un attacco terroristico? È forse un pazzo che ha perso la brocca nel caos madrileno? O forse, peggio ancora, è la polizia che sta coprendo qualcosa di molto più grosso? Ma cosa? “Stanno facendo come in Russia”, ride della situazione Israel, dimostrando nelle sue citazioni bibliche, nei suoi capelli unti, nei suoi denti marci e nei suoi gesti apparentemente inconsulti già di essere, in una simile situazione, abbastanza pazzo da risultare l’unico sufficientemente lucido. De la Iglesia denuncia apertamente l’attentato “sventato” dalla Russia di Putin uccidendo indifferentemente terroristi e ostaggi con il gas nervino, porta la memoria di un sostanziale atto criminale contro l’umanità giustificato dal “bene più grande” anche in un prodotto cinematografico, liberando ancora una volta nei suoi riferimenti tutta la sua vis politica e ponendosi da subito dalla parte di chi, in mezzo a quella situazione, è il più emarginato, il più sporco, il più animalesco. Quello che dalla vita ha sempre avuto meno degli altri, quello che adesso tutti vorrebbero che fosse il primo a morire, quello che sarà invece il primo – “Questa volta mi salvo io” – a iniettarsi l’antidoto, ma non farà comunque in tempo a testarne gli effetti.

Quello di El Bar, a costo di scomodare paragoni illustri, è in questo senso un de la Iglesia in odor di Buñuel, pronto non solo a prendere spunto dalL’angelo sterminatore nell’impedire alle persone di uscire dal luogo in cui si trovano, ma anche a sorridere a Il fascino discreto della borghesia quando i personaggi, ancora incapaci di risolvere il mistero, inizieranno a macerare e dilaniarsi fra loro, prima con i sospetti in cui de la Iglesia lascia deflagrare il suo assurdo più politicamente scorretto fra valigie piene di imbarazzante intimo femminile e innocui hard disc scambiati per bombe solo perché il loro proprietario porta una folta barba hipster, e poi, una volta capito che l’ex poliziotto trovato moribondo nel bagno aveva inoculato nel corpo un virus che aveva già contagiato tutti i presenti, nella decisione dei tre che si credevano migliori e sani, e che ovviamente saranno i primi a morire fra le fiamme appiccate dalle teste di cuoio, di rinchiudere nelle cantine chi aveva avuto un contatto fisico con il cadavere. Certo, le forme sono, fra richiami horror, thriller e d’azione, quelle del giocattolone a cavallo fra il pulp e la commedia nera, di sicuro sono diversi i tempi e ben più basse le ambizioni di de la Iglesia rispetto ai capolavori del genio surrealista, e fare un reale paragone fra i due autori non avrebbe semplicemente senso. Ma la spinta “popolare” di de la Iglesia – nel senso di stare dalla parte del popolo e contro quella mentalità chiusa dei salotti (o bar, in questo caso) buoni –, è in sostanza la stessa di Buñuel, e così è lo stesso, anche se ulteriormente virato verso il lisergico, il modo totalizzante in cui il grottesco si dipana, fra dialoghi e situazioni, fra echi politici e ironia sorniona, fra risate sadiche e uomini messi a nudo nella loro peggiore bestialità, fra attacchi di claustrofobia e deliri, fra pistole bollenti e siringhe che continuano a cadere sempre più in basso.

Appena chi è rimasto asserragliato dentro al bar si distrae, i cadaveri spariscono, e nel frattempo le televisioni non parlano dell’accaduto, se non quando qualcuno arriva, ignora le richieste d’aiuto, brucia alcuni pneumatici, e la notizia data dai telegiornali è quella di un incendio dalla causa sconosciuta e di tutta la zona evacuata. Álex de la Iglesia chiude i suoi personaggi in una montatura di Stato, in un segreto da coprire, ma soprattutto in spazi sempre più angusti e bui, sempre più schifosi, ma paradossalmente sempre meno pericolosi. Loro, però, da perfetti uomini in crisi di fronte alla situazione estrema di un mondo esterno che vuole eliminarli per fare terra bruciata, di un male che li sta mangiando dentro e che li ucciderà a breve e soprattutto di un numero di antidoti inferiore rispetto a quello delle persone contagiate e ancora in vita, non trovano nulla di meglio da fare che chiudersi in fronte comune per poi, appena possibile, tradirsi, ingannarsi, eliminarsi. Non trovano nulla di meglio che pensare a se stessi a costo di combattere e uccidere l’altro, a costo di perdere così drammaticamente la propria dignità e la propria personalità da spingere chi è più maturo al suicidio quasi più per sdegno e ripicca che per reale convinzione. Álex de la Iglesia affida all’abbacinante bellezza e al corpo oleato di Blanca Suárez l’ultima possibilità di salvezza, quando gli ultimi residui della vicenda si sposteranno inevitabilmente nelle fogne, perché quando gli uomini iniziano a sbranarsi fra di loro non possono che scendere fra le pantegane e la diarrea, non possono che lottare animalescamente fra gli animali, non possono che fuggire, ancora una volta, verso il tombino da cui si intravvede la luce, ma che sembra non volersi aprire. E proprio all’ultimo respiro, quando tutto sembra perduto, l’umanità farà la sua ultima apparizione fra le dita dell’hipster, con l’ultima siringa che passerà di mano, con il sacrificio finale, con l’ultimo volo, ma con la consapevolezza che Elena ce la farà.

El Bar non è il miglior film di Álex de la Iglesia, ma è finalmente, dopo troppi prodotti trascurabili fra i quali spicca verso il basso Messi, un “vero” film di Álex de la Iglesia, un calderone nel quale vale tutto e nel quale il pubblico può solo perdersi. Profondamente pulp, El bar è un film irresistibilmente divertente, dalla narrazione vorticosa e dalle mille trovate originali, capace di un intrattenimento intelligente e pop che mescola in un perfetto congegno narrativo terrore, azione, odio, avarizia, egoismo, solidarietà e, perché no?, quel necessario briciolo di eros. In fondo, El bar non è nient’altro che un film sull’uomo destinato a rivelarsi, volente o nolente, senza più maschere, animalesco e ferito, impaurito e arrogante, solo e perdente: homo homini lupus, così è da sempre, così sempre sarà.

Marco Romagna

201715522_6

201715522_2

“El bar” (2016)
Comedy, Thriller | Spain
Regista Álex de la Iglesia
Sceneggiatori Jorge Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia
Attori principali Mario Casas, Blanca Suárez, Carmen Machi, José Sacristán
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

HAVE A NICE DAY (2017), di Liu Jian di Marco Romagna
COLD SKIN (2017), di Xavier Gens di Marco Romagna
UNTITLED (2017), di Michael Glawogger e Monica Willi di Marco Romagna
CORPO E ANIMA (2017), di Ildikó Enyedi di Erik Negro
EL MAR LA MAR (2017), di Joshua Bonnetta e J.P. Sniadecki di Marco Romagna
THE TOKYO NIGHT SKY IS ALWAYS THE DENSEST SHADE OF BLUE (2017), di Yuya Ishii di Erik Negro