Ogni volta che ti affacci sul Tago, lasciandoti alla spalle il centro di Lisbona, rifletti gli occhi nella fredda e vergine liquidità dell’acqua stagnante, e pensi a tutte quelle storie che ancora una volta resteranno così sommerse fino al tuo nuovo passaggio. È la prima immagine che mi si dipana nella mente quando penso a un certo cinema portoghese, alla sua unicità di essere nel figurare l’essere, alla sua drammatica tensione al destino inesorabile, nella dialettica sensuale e corrosiva che spesso trasla l’amore in perdizione, appunto. «Uma Raparìga no Verão è un film costruito con inquadrature molto brevi, registrate da una cinepresa quasi fissa. Se ogni inquadratura contiene in sé la possibilità di durare di più, tutto ci fa pensare che questa durata non sarà permessa. Come se attorno a essi (attorno alle inquadrature come attorno ai personaggi) ci fosse un’inesorabile fatalità. […] Le immagini scorrono e non le afferriamo. Scorrono come la vita, di cui l’esistenza stessa è lo scorrere. Non è anche l’essenza del cinema?». Così João Bènard da Costa parlava del magico e misterioso esordio di Vìtor Gonçalves, film straordinario e cardine nella lettura del nuovo cinema lusitano in cui cooperarono una generazione di autori (Pedro Costa assistente alla regia e Joaquim Pinto al sonoro, tanto per citarne due), le cui tracce spesso si sono poi perse. Teresa Villaverde allora aveva appena venti anni – già comparsa appena maggiorenne come attrice in À Flor do Mar di Cèsar Monteiro -, e avrebbe esordito alla regia cinque anni dopo con lo splendido A Idae Maior, altro abbozzo di formazione e mancanze in cui la giovinezza è la rappresentazione stessa dei propri spettri. È passato più di un quarto di secolo dal germogliare di quella fertilità cinematografica portoghese, e Colo pare fondere questi due film, e postularli in un contemporaneo più asettico e astratto, riavvolgendone il nastro, oltrepassandone i detriti e rivivendone i frammenti, perché sulle sponde di quell’estuario ci saranno sempre storie da raccontare.
Un padre, una madre e la quotidianità di una figlia, nella nuova Lisbona decentrata, riflettono la crisi economico e uno stile di vita discutibile. Vivono in un lussuoso appartamento nel piano più nobile di un bel palazzo, dal quale dominano la città, ma ormai non se lo possono più permettere: il terrazzo è ormai sporco, la crisi avanza, e nemmeno la bolletta della luce è una spesa ancora sostenibile. È una ripetizione ossessiva delle giornate, in cui lui si aggrappa ad atti disperati dall’orizzonte senza futuro cercando denaro in maniera ancora più discutibile, lei sempre più esausta di lavori saltuari inizia a cedere a livello nervoso e la giovane si chiude in se stessa nel disperato tentativo di ascoltarsi e scoprirsi, in compagnia dell’inseparabile e adorato uccellino. Sarà la comparsa dell’amica incinta della figlia a far deragliare questo equilibrio totalmente instabile, mentre la luce diventa forzatamente quella di una candela, l’esperienza psichedelica distorce percezioni prima inibite e l’acqua di quel Tago non aspetta altro che rivelare nuovi misteri. I ruoli finalmente si rivelano con una sottigliezza e sensibilità magistrale, nessun tentativo di riconciliazione oramai appare possibile, ogni figura in questo paesaggio, nonostante la deriva, pare aver preso la propria vita tra le mani per essere rimodellata. Nessuno potrebbe più riconoscersi, la crisi da economica è divenuta morale, e infine esistenziale, e l’epifania spesso si paga a caro prezzo, come quella lucidità astenica mostrata prima in campi lunghi, quasi fosse un passo indietro necessario a non violare uno stato d’animo, e poi avvicinandosi alla provvisorietà che sono gli stessi protagonisti a mostrare con le loro scelte. Presenti e forse anche passate, fra verità inconfessabili e ruoli ribaltati, fra verità e sensi di colpa, ma Teresa Villaverde lascia la cornice sfumata, perché chi davvero le interessa è lei, la ragazza, fra uccellini da tumulare e ritorni sui luoghi, anch’essi uguali e mutati per sempre.
Colo in portoghese potrebbe significare grembo o anche la voglia di calore, di coccole e affetto. Tutti ne avremmo bisogno, soprattutto al cinema. Questo film senza dubbio lo restituisce attraverso immagini, suoni, montaggio che acquistano una evidenza palpabile, sconosciuta a molte opere che dalla modernità vanno verso la contemporaneità. Le tonalità costantemente calde (gamma fittissima di gialli e arancioni) ma costantemente tenui, la musica che interviene diegeticamente in maniera magistrale solo in due scene rendendole subito caratterizzabili, il montaggio apparentemente così lineare ma che tende a incrociare queste anime con l’avanzare della narrazione, la poetica di un uomo nudo nell’oceano, perso fra le onde, e di una moglie che nonostante tutto se ne prende ancora cura. Opera di tempi e spazi prosciugati, modulati, nel continuo tentativo del punto di fuga – un tentato suicidio asettico, o una corsa disperata nell’alba di Bairro Alto – che possa oltrepassare questi paesaggi fisici e umani definiti per renderli spiazzanti. La macchina si muove anch’essa un paio di volte, solo quando la tragedia pare imminente, e poi torna lì, ferma, a disegnare lo spazio dove la ragazza può cercare se stessa, sperimentare quel desiderio già malinconico che parrebbe essere la vita, in cui lo spazio della finzione converge in un movimento nel tempo di un pensiero e nello spazio di un azione. Quello di Teresa Villeverde è un cinema che riesce al tempo stesso essere corpo e idea, fisicità e sentimento, un cinema che galleggia su una superficie melmosa, ma che riesce sempre a cogliere qualsiasi raggio di luce possa illuminarla. Il crescere spesso può essere un’esperienza devastante, e questo film né è la contemplazione espansa come finestra tangibile e scomposta da un velo sottilissimo che intorpidisce l’anima di coloro che vorrebbero guardare oltre. Scorre come un filo d’acqua o una lacrima accennata, lascia interdetti nel profondo, corrode goccia a goccia la nostra adolescenza passata e torna a espanderla lacerandoci. Nel finale si torna sul fiume, quel Tago che ancora tante storie avrebbe da raccontare. Una casa, un piccolo carrello avanti, un altro piccolo indietro; la macchina da presa torna a muoversi, un’esperienza si sta per concludere e un’altra si sta per aprire, le persone spesso crescono, e si evolvono nella flagranza continua del divenire. Non ci sono più i pesci a seccare, ora c’è lei alle prese con gli stravolgimenti, con i dubbi, con le sfumature, con il futuro. Anche questo film scorre, come fa la vita, soprattutto a quell’età, e in fondo non è questa l’essenza del cinema?
Erik Negro