Sul globo d’argento rimane uno dei film più importanti della storia della fantascienza non solo perché è la più esplicita e clamorosa tra le incursioni nel genere da parte del suo autore, il grande Andrzej Żuławski, ma anche a causa della sua storia, che si incrocia più volte con la Storia. Żuławski, dopo aver lasciato la madre Polonia per paura della censura del nuovo governo (che gli causò problemi con la distribuzione del suo film Il diavolo), si rifugiò in Francia dal 1972 al 1975, anno d’uscita di L’importante è amare, suo film con Romy Schneider e Klaus Kinski la cui bellezza e importanza formale portarono il governo polacco a invitare il regista a ritornare in patria per produrre un film a sua scelta. Fu così che l’autore decise di farsi finanziare un adattamento cinematografico di un romanzo fantascientifico del suo prozio, Jerzy Żuławski, scrivendo con cura maniacale una sceneggiatura misticheggiante che sarebbe stata poi messa in scena in svariate riprese tra la Polonia, l’URSS e il deserto del Gobi nel 1977. Quando Janusz Wilhelmi, critico letterario e politico di spicco nella Repubblica Popolare di Polonia, nemico ideologico anche di Andrzej Wajda, notò nella storia del film (per la precisione nella lotta tra i Seleniti e gli Szern) una possibile allegoria della lotta del popolo polacco contro la dittatura socialista, le riprese furono interrotte dopo che più o meno quattro quinti del girato erano stati completati, e fu comandata la distruzione delle bobine esistenti, dei set, dei costumi, degli oggetti di scena. Tuttavia, le bobine rimasero intatte in mano agli studios cinematografici e ad alcune delle persone che hanno lavorato al film. Un amareggiato Żuławski, deluso dal proprio paese e da se stesso per il tempo perso dietro ad un film che pensava che non sarebbe mai esistito, tornò in Francia per dedicarsi ad alcune tra le proprie uscite cinematografiche più fortunate, cominciando con la produzione franco-tedesca Possession (1981), il suo film in assoluto più celebre e iconograficamente indimenticabile. Giungendo verso la fine della Repubblica Popolare di Polonia, con l’inizio di un dialogo tra il Partito Operaio Unificato Polacco e il Solidarność di Lech Wałęsa, il film fu distribuito solo dopo la fine del regime nel febbraio 1989, anche se una prima proiezione a Cannes ci fu nel 1988. In ogni caso, per completare il film, Żuławski usò un’incredibile idea che di per sé rivoluziona, a suo modo, questo film già estremo in ogni sua accezione tecnica: i buchi narrativi sono occupati da spezzoni fuori contesto, documentaristici e privi di elemento fantascientifico, in cui l’audio consiste nella voce del regista stesso che racconta i momenti di trama che non sono stati ripresi. Dopodiché, comunque, Żuławski continuò a fare film principalmente in Francia, e pure la sua unica altra produzione parzialmente polacca, La sciamana (1996), fu fatta in collaborazione con la Compagnie des Films. On the silver globe è, dunque, nella sua forma finale e definitiva, non troppo dissimile da Pasażerka (1963) di Andrzej Munk per ritmi narrativi, ma la schizofrenia del suo stile e il continuo incrociarsi di alti riferimenti spirituali, storici e cinematografici nella sua trama elevano il film nell’Olimpo della fantascienza d’autore, vicinissimo a Kubrick, Tarkovskij, Lang e Méliès.
È il 17 febbraio 2017 ed è precisamente passato un anno dalla dipartita di Żuławski. Lo ricordiamo con questo film non solo perché è, forse, la sua ‘magnum opus’, ma anche perché in questi giorni il film è stato proiettato in una versione restaurata in DCP 2K nella Retrospettiva fantascientifica della Berlinale. Ed è giusto che questo sia il film scelto per ricordare il regista, non solo per motivi di genere, ma anche perché i demoni della Storia hanno inseguito il regista a causa della lavorazione di questo film per tutta la sua carriera, fino a portarlo a concludere la propria filmografia condividendo il proprio dolore metacinematografico con Cosmos (2015), un film in cui il regista si rispecchia in Witold Gombrowicz, autore del romanzo d’origine (Cosmo, 1965) e anch’egli figura di spicco nella storia dell’arte e della letteratura polacca, anche a causa di un auto-esilio innescato dall’invasione nazista del suo paese d’origine. Con questo paragone e questa specularità, che torna perfettamente con il continuo rimando nel suo cinema alla ricerca di un “doppio” e di un ordine nella natura (ove probabilmente non v’è altro che il caos, il dis-‘cosmos’), Żuławski ha riassunto la propria carriera e la propria vita con un ultimo atto sacrificale che dunque ha ripercorso una lunga sequela di grandi opere fatte di carne e sangue: e siamo stati felici, l’8 agosto 2015, di poter vedere il regista in lacrime di fronte ad una (nostra) standing ovation ancora prima della prima ufficiale del film a Locarno. Era come se quel pianto fosse un’anticipazione del suo abbandono di questo mondo così disordinato e drammatico. Quel mondo che, in Sul globo d’argento, Żuławski aveva provato ad abbandonare, andando sui lidi inospitali di pianeti sconosciuti. Durante il prologo innevato che rimanda alla mente il Brakhage attore-regista che scala la montagna bianca in Dog Star Man (1964), sentiamo il regista stesso raccontare di come ha riempito i buchi narrativi. La regia però si fa quasi subito confusionaria e instabile, tipicamente e riconoscibilmente schizofrenica, come se Żuławski stesso non riuscisse a concentrare il suo mondo disordinato e mortifero in immagini fisse e riconoscibili, facendo rapidamente degradare questi alien(ant)i primi piani sciamanici in filtro blu da semplici rappresentazioni umane e tragiche delle emozioni degli astronauti protagonisti a riflessione sulla profondità dello sguardo cinematografico, pronto a penetrare lo sguardo dello spettatore, cercando in esso un disperato attaccamento alla realtà. Ma è qui che il montaggio, che dai grandi costruttivisti russi fino al cinema sperimentale digitale è sempre ed è sempre stato il principale momento di distacco tra il cinema e le altre arti, riporta in effetti alla realtà, quella vera: la natura, i passanti nelle strade polacche, con la voce del regista che non solo ha la funzione di ricordare che quello a cui si sta assistendo è un film, ma ha anche e soprattutto la funzione di ricordare che il film che si sta vedendo (o vivendo, grazie ad una capacità di immedesimazione spettatore-immagine che è probabilmente il pregio più notevole del cinema di Żuławski: la regia diventa l’umore di chi guarda, lo spettatore si immedesima con la tragedia) è un sacrificio, un’opera martoriata dalla Storia, una tortura che Żuławski stesso ha subìto, una vera e propria demolizione della (sua) libertà d’espressione. Gli astronauti, e dopo di essi gli alieni e le loro varie derivazioni (in tribù e popoli che si scontrano, tra martiri fantascientifici crocifissi e orge demoniache), vengono ritratti in impressionanti primi piani in cui il confronto tra cinema e realtà finisce per essere inevitabile.
Questo anche grazie ad una struttura che all’inizio è legata allo stile cinematografico del found footage, attraverso i video-diari degli astronauti: una logica, questa, che riesce spesso ad essere interessante per dare perlomeno un’idea di base di scelta di punto di vista, e che ha avuto una certa popolarità pure commerciale, dagli horror (esempio illustre The Visit (2015) di M. Night Shyamalan) fino alle serie TV fantascientifiche (come l’episodio Sleep No More (2015) della serie britannica storica Doctor Who), ed in entrambi questi esempi il punto di vista viene usato, in maniera più o meno esplicita, come distorsione della realtà, per non dimostrare in modo immediato chi è chi, dove sta il bene e dove sta il male. Ma di solito, in particolare nell’ambito horror più becero, il punto di vista è quello del protagonista, che osserva gli orrori che subisce, li documenta, mostra la propria condizione di vittima. Chiaramente, nel cinema di Żuławski, dove non c’è una vera e propria distinzione tra Bene e Male (basti pensare a Possession, in cui Dio viene rappresentato come un affluente di Satana, una “lebbra” tentacolare che stupra Isabelle Adjani in un atto spirituale e drammatico che si conclude con un disgustoso parto), l’assunzione di un punto di vista non può che essere un depistaggio. La riflessione sulla sopravvivenza diventa riflessione sul colonialismo (fisico e mentale) e la vittima diventa involontariamente carnefice. Alla fine, il pianeta colonizzato dagli uomini altro non è che una “immagine ideale” della Terra, un suo doppio, una violenta e inospitale replica del caos terrestre in una sua versione cinematografica, in cui il disordine è più evidente anche se non viene esplicitamente cercato. Semplicemente, il disordine c’è. L’inquadratura lo insegue perché non può fare altrimenti, e vi si perde, tra i movimenti drastici e i colori gelidi, attraverso i quali il rosso del sangue e delle budella è solo più evidente. Il desiderio della luce di cui parlano gli astronauti si manifesta attraverso una privazione della luce allegorica, una privazione delle buone speranze: il caos primordiale degli astronauti profeti o dei selvaggi alieni è sostituito da una logica narrativa relativamente convenzionale, allontanando sempre di più la luce della ‘grandeur’ che gli astronauti ci tenevano ad ottenere, ma avvicinando alla macchina da presa gli stessi, orrendi volti deformati, corrompendoci, facendoci soffrire con loro. L’interazione tra personaggio e spettatore è come se lentamente cercasse di allontanarsi, creando un disordine mentale in noi che non riusciamo più ad orientarci, più che nella storia (o nella Storia) stessa. Tra jump-cuts godardiani e monologhi mistici, Sul globo d’argento può risultare egualmente stravagante e brullo, ma la sua critica drastica alle organizzazioni religiose e politiche in Polonia viene quasi soffocata dalla potenza dello sguardo schizofrenico zulawskiano: la follia diventa lo sguardo della Storia, e la realtà subentra, quasi come un lampo, tramutandosi nell’unica vera fonte di luce in mezzo all’assenza di ‘cosmos’.
«Nel frattempo, il piccolo dramma di questa pellicola e il grande e, speriamo, dignitoso dramma della nostra vita continueranno a incastrarsi in un mosaico condiviso di voli riusciti e di atterraggi disastrosi. Il mio nome è Andrzej Żuławski, e sono il regista di Sul globo d’argento.» con queste parole si conclude il film, mentre il regista si specchia in un vetro, si osserva, riflette sulla propria esistenza e sul proprio spazio. Vede se stesso, o meglio vede un suo doppio cinematografico (decide, dunque, di non presentarsi di fronte alla macchina da presa in quanto sé, ma di presentare una sua versione distorta, finita), e scappa, scomparendo nel fuori campo, scomparendo pure dal riflesso nel vetro, fuggendo dal mondo che ha costruito, troppo più simile di quanto lui non voglia al mondo che invece ha distrutto il film, ha distrutto Żuławski, ha distrutto una lotta, una rivoluzione. Eppure, quest’incompiutezza dona al film un fascino “maledetto” che non turba, e che anzi è un valore aggiunto da un punto di vista puramente cinematografico: il sacrificio reale di Żuławski lo vediamo e lo percepiamo massimamente attraverso la propria sofferenza nel montaggio. Ed è per questa ragione, forse, che Sul globo d’argento rimane forse il suo film più epocale. Non per la regia rivoluzionaria o per l’approccio impeccabile alla fantascienza, non per la critica crudele alla società polacca o per lo sguardo che va dall’incubo al sogno, dall’horror a I 400 colpi: Sul globo d’argento, forse, è un capolavoro principalmente perché mai, nel cinema narrativo, è stata così palpabile la frustrazione di un autore nei confronti del mondo tutto; quello del film, quello fuori dal film, e quello dentro se stesso.
Nicola Settis