25 Novembre 2020 -

THE LAST HILLBILLY (2020)
di Diane-Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe

Redneck e hillbilly. Li abbiamo imparati a conoscere, al cinema, soprattutto con le pellicole della New Hollywood, negli anni in cui le lotte per i diritti civili e i movimenti di protesta trovavano nell’America retrograda e rurale il loro principale avversario interno. Dai redneck di Easy Rider, quelli del diner di Morganza, Louisiana, in cui si consuma una delle scene del film più rappresentative del contrasto sociale imperante nell’America della fine degli anni Sessanta; o quelli del drammatico finale del film, responsabili della morte violenta dei due protagonisti. Agli hillbilly di Un tranquillo weekend di paura, ostili e ritratti in maniera quasi caricaturale, alla stregua di freaks, anche in questo caso per far emergere il contrasto sociale (che diventa antropologico) tra popolo rurale e abitanti delle città. Hillbilly è un termine apertamente spregiativo, che identifica un preciso gruppo di persone. Se con redneck si indicavano (e ancora si indicano) i reazionari degli Stati del Sud, coloro che abitano nelle campagne o comunque nei piccoli centri urbani di quella fascia geografica che va dal Texas alla Florida, e che sono portatori di un’ideologia fortemente conservatrice, quando non apertamente razzista, con il termine hillbilly si fa invece riferimento agli abitanti delle aree rurali e montuose della parte centro-meridionale degli Appalachi, quelle regioni di cui ci si ricorda soltanto quando si sentono suonare le note di Take me Home, il classico di John Denver. Regioni storicamente sottosviluppate, quanto meno dai tempi del New Deal, quando smisero di stare al passo con il resto della nazione, e che sono assurte agli onori delle cronache dopo l’elezione di Donald Trump, diventando simbolo di quelle aree del Paese che vengono dimenticate fino a quando non fanno sentire la propria voce esprimendo un voto di protesta e antisistema – e risultando in ciò determinanti. Sono le aree rurali e montuose dell’Alabama, della Carolina del Nord e del Sud, della Georgia, del Tennessee, della Virginia, del West Virginia e del Kentucky. E proprio in Kentucky è ambientato The Last Hillbilly, il documentario dei francesi Diane-Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe  già selezionato, ma ovviamente mai proiettato a causa della cancellazione dell’evento, all’interno della sezione indipendente Acid per il (non) Festival di Cannes 2020, e ora presentato al trentottesimo Torino Film Festival nella gloriosa sezione Internazionale di TFFdoc. Esordio al lungometraggio per lei, che era già stata a Torino nel 2017 con il mediometraggio Je ne me souviens de rien. Terzo documentario per lui.
Siamo nel Kentucky orientale, a Talcum, remota comunità degli Appalachi, per l’appunto. I due registi seguono la quotidianità di colui che si definisce l’ultimo degli hillbilly, Brian Ritchie, discendente delle generazioni che popolarono e colonizzarono quelle zone remote, prima come avventurieri, poi come minatori, negli anni del boom delle estrazioni. L’immancabile declino economico ha portato quelle regioni a impoverirsi, e coloro che hanno deciso di restarci sopravvivono di lavoretti e di agricoltura o allevamento. Brian è padre di quattro figli, membri di una generazione per la quale non si intravede alcun futuro all’orizzonte, cantore della propria condizione e di quella dei suoi simili, con parole in versi e in prosa che accompagnano alcuni momenti del film come suggestiva e potente voce narrante. Come quella dell’incipit, con parole recitate alla stregua del vaticinio di un predicatore, ma rivolto al passato anziché al futuro. Un inizio folgorante, che dà modo ai due autori di mettere in scena le proprie doti registiche e la propria abilità nel montaggio, tra riprese aeree e plongée sui verdi paesaggi del Kentucky, con almeno una dissolvenza decisamente memorabile, quella che introduce l’inquadratura dall’alto di una foresta appalachiana facendola sembrare un fronte nuvoloso in avvicinamento alla precedente ripresa paesaggistica (chapeau!). La voce quasi delirante del protagonista si amalgama alla perfezione con un accompagnamento sonoro che non è mai puro score, e che spesso cede il posto a un tombale e surreale silenzio che fa risaltare ancor di più dialoghi e voce fuori campo.

Un’introduzione che lascia presto spazio all’illustrazione della quotidianità di Brian, che in un dialogo notturno con la telecamera fa i conti con lo stereotipo dell’hillbilly: «Tutti sanno che siamo ignoranti, siamo poco istruiti, siamo poveri, che siamo violenti, razzisti, incestuosi. Ed è tutto vero». Non lo dice, però, con supponenza, né traspare alcunché di orgoglioso nelle sue parole. L’orgoglio c’è soltanto nel definirsi l’ultimo degli hillbilly, termine spregiativo per molti, ma che per Brian (e per tanti altri come lui) è diventato un appiglio identitario. E non è certo la prima volta che un appellativo insultante finisce per trasformarsi in una sorta di bandiera terminologica, da sventolare da parte di tutti coloro che non vogliono rinnegare la propria identità. Perché quella dell’hillbilly è anche la condizione di chi resiste alla modernizzazione e che proprio perciò si sente libero, come afferma Brian davanti al focolare, parlando ai suoi quattro figli, che già vede irretiti e compromessi dalla tecnologia. Per questo Brian si reputa l’ultimo degli hillbilly, perché sa di essere l’ultimo anello di congiunzione tra le generazioni precedenti e quelle di chi invece ha ormai perso radicalmente il contatto col passato e con la tradizione. Il discorso si allarga alla politica quando Brian ammette che gli hillbilly sono «responsabili di Trump», parlando in prima persona plurale, ma ancora una volta senza quell’arroganza e quella spregiudicatezza che si sono visti nei rallies repubblicani degli ultimi anni. Anche perché usa proprio quella parola, “responsible”, che ha il vago retrogusto dell’ammissione di colpevolezza. Brian non è un invasato né un estremista, e questo permette di empatizzare con la sua persona, di comprendere la sua posizione e il suo stato d’animo. In ciò sta il principale merito di questo documentario, nel fatto di evitare generalizzazioni e di presentare le situazioni nella loro quotidiana regolarità. E nel farlo adottando uno stile e un metodo di lavoro collaudato e dominante in quest’ultimo decennio, quello utilizzato, tra gli altri, da Roberto Minervini nei suoi straordinari documentari, e in particolare nel suo Stop the Pounding Heart, cui quest’opera sembra debitrice non soltanto per lo stile ermetico e minimalista, ma anche per la stessa modalità con cui è stata costruita: un lunghissimo ambientamento, durato addirittura sette mesi, che ha permesso ai due registi di entrare in sintonia e in confidenza con la famiglia Ritchie, così da catturare la loro quotidianità riducendo al minimo il rischio di influenzarla. Bouzgarrou e Jenkoe rompono in questo modo le invisibili barriere di un isolamento che pare essere il principale responsabile della condizione di queste persone, che sia autoimposto o derivante dallo stato di abbandono sociale ed economico che ha colpito ineluttabilmente le zone che abitavano e che non hanno voluto lasciare. In tal senso, The Last Hillbilly è un documento eccezionale, anche nel significato letterale del termine. È un documento che non cade nella retorica o nei paternalismi, evitando giudizi di ogni tipo, ma cercando soltanto di penetrare in profondità la condizione di persone spesso dimenticate, o comunque relegate in stereotipi eccessivamente generalizzanti

Vincenzo Chieppa

“The Last Hillbilly” (2020)
80 min | Documentary | France / Qatar
Regista Diane Sara Bouzgarrou, Thomas Jenkoe
Sceneggiatori Diane Sara Bouzgarrou, Thomas Jenkoe
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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