1 Dicembre 2020 -

IN THE MOOD FOR LOVE (2000)
di Wong Kar-wai

In anteprima a una pur sfortunata edizione online del Torino Film Festival è stata presentata la versione restaurata del capolavoro di Wong Kar-wai, In the mood for love, che tutti avrebbero voluto vedere sul grande schermo, ma che non riesce a deludere neanche su quello piccolo. Il restauro ha visto la supervisione del regista cinese stesso, che lo ha presentato a una Torino virtuale parlando di un “segreto”, con cui intende non solo quello del lavorio nascosto ai media che lo ha coinvolto negli ultimi cinque anni di questa operazione. In the mood for love, ispirato al romanzo breve Intersection di Liu Yichang, è di per sé un film su un segreto, dal momento che «it began with one and ended with another». La storia è infatti quella dell’amore sublimato e nascosto tra Su Li-Zhen (la Signora Chan), segretaria presso una compagnia di navigazione, e Chow Mo-Wan, caporedattore di un giornale, che si conoscono da quando lo stesso giorno si trasferiscono in due appartamenti attigui nello stesso palazzo, nella comunità di Shanghai della Hong Kong del 1962. Presto scoprono il segreto che coinvolge i loro coniugi, rispettivi amanti, e ne vengono coinvolti in uno ancora più profondo, quello del loro amore impossibile che non trova appagamento nella repressione degli anni ’60, pur così cari a Wong. Il film fa idealmente parte proprio della trilogia degli anni ’60, che parte con Days of Being Wild (1997) per concludersi con 2046 (2004), e che, per quanto il regista abbia dichiarato considerarsi film “distaccati”, trova un filo rosso a partire dalla presenza di Maggie Cheung e Tony Leung, ma non solo. Sono anni ’60 fascinosi e contraddittori, quelli di una Hong Kong ancora colonia britannica e che storicamente compendia diverse culture. Prima di tutto quelle limitrofe: la regione è approdo di numerosissimi rifugiati politici cinesi per cui mandarino e cantonese convivono con l’inglese; il Giappone, che in 2046 sarà foriero di ostacoli per l’amore che ispira il romanzo di Chow, è qui una presenza che aleggia in quanto l’adulterio dei coniugi sarà consumato proprio lì, e il finale tra Singapore e Cambogia testimonia la nota esterofila conclusiva abitudinaria di Wong. Ma è soprattutto la crasi con culture lontane a rendere il film,  che pure trae radici da una rielaborazione della classicità del mélo (come il cinese Spring in a Small Town del 1948), così originale. È riscontrabile infatti una palese eco latina già notata in Days of Being Wild e Happy Together, e qui poeticamente manifesta grazie alla presenza sonora di Nat King Cole, con le sue versioni di Te Quiero Dijiste, Aquello Ojos Verdes, Quizas, Quizas, Quizas. Le sue musiche si alternano a quella del giapponese Umebayashi (come in 2046), vera colonna sonora dell’impossibilità e dello sfiorarsi senza aversi, fisicamente come metaforicamente. Una composizione nata una decina di anni prima per il film giapponese Yumeji, che qui accompagna i primi momenti, spesso evidenziati da un ralenti, in cui i personaggi si incrociano senza toccarsi, così come i pochi contatti simbolici, come il dettaglio di quelle due mani che finalmente si stringono a bordo di un taxi nel brillare di una fede non consona, nuovo simbolo dell’irrealizzabile.

Gli anni ’60 sono riecheggiati anche nelle dichiarate influenze di grandi maestri europei del periodo, di cui si ricorda principalmente Antonioni. È omaggiata L’avventura (1960), ma, più in generale, permea una narrazione ambigua, destrutturata e incerta, che per alcuni aspetti si può accostare alla ricerca del maestro italiano. Ma c’è anche Bresson, con la sua (de)costruzione spaziale soffocante, manifesta del sentire dei protagonisti. Come Wong, poeti della solitudine dell’uomo moderno. In the mood for love, insomma, raccontando una sublimazione si sublima esso stesso – è un film il cui stile si fa sostanza, diventa contenuto. Filmico e profilmico dialogano costantemente e costruiscono una relazione che trascina lo spettatore in una sospensione confusa, a metà tra presenza e assenza, immedesimazione e distanza, stuzzicando quel voyeurismo che è costantemente negato, ma la cui realtà è ineluttabile. La (de)struttura spaziale è partecipe della condizione di soffocamento dei personaggi, prigionieri dei propri sentimenti, delle proprie contraddizioni e del loro amore impossibile, costante del cinema di Wong. L’ambiente fa da ostacolo ai personaggi, schiacciandoli: i corridoi stretti e gli spazi angusti rimarcano una situazione che è di fatto un vicolo cieco, poiché entrambi hanno scelto di non ripetere l’adulterio dei loro coniugi stando insieme, almeno non in senso carnale, secondo quanto ci viene mostrato. Lo schiacciamento dei corpi è specchio di quello dell’anima ma anche deriva di quello sociale, che porta il vicinato a essere un nemico (mai odiato) di cui temere il giudizio, piuttosto che un confidente in cui trovare sostegno. I personaggi sono così portati a rinnegarsi, ed è per questo che li vediamo talvolta inghiottiti da un milieu che li valorizza ma li annulla. Gli elegantissimi abiti ‘cheongsam’ di Maggie Cheung, in grado di rendere ancor più sensuale quel corpo nonostante lo fascino a risaltarne la castità, testimoniando le contraddizioni della donna, spesso si intonano con le pareti e le scenografie, in una scelta cromatica che non può essere solo dettata dal piacere dell’occhio. Ma più che ai personaggi l’ambiente è soprattutto di ostacolo al pubblico. Tende, lampade, porte, pareti, finestre, vetri, grate e inferriate: tutto sembra mettersi in mezzo e impedire una visione pulita e ampia che abbracci interamente i protagonisti, di cui talvolta si predilige il riflesso sugli specchi. Questi giochi di inquadrature nell’inquadratura e di combinazione di diverse angolazioni, unite in un montaggio spesso non standardizzato, suggeriscono la vicinanza del regista alle sperimentazioni pittoriche a cavallo tra XIX e XX secolo, dal Nabis al Futurismo, e costruiscono un’opera che diventa riflesso di un riflesso, sempre più vicina all’impressione di un ricordo sfumato e misterioso, come confermato dalla didascalia finale. Un gioco fumoso in cui siamo sempre osservatori, voyeur.

A questo si aggiunge una macchina da presa che gioca a fare il detective: spesso riprende i protagonisti “di nascosto” da nicchie che costruiscono quasi un mascherino naturale, dando l’impressione che questi siano spiati, e li posiziona in maniera decentrata rispetto all’ampiezza dell’inquadratura. Questa soluzione è una tendenza della regia di Wong a sottolineare quell’assenza di respiro che trova espressione perfetta in 2046 (si ricordano le celebri scene di sesso che mostrano solo segmenti tagliati dei corpi e in cui i personaggi sono ripresi all’estremo dell’inquadratura). È una macchina da presa complice del segreto che unisce i due, che tiene il pubblico a distanza per poi avvicinarlo cautamente, che va a cercare i personaggi per poi lasciarli perdere. Una macchina da presa curiosa: spesso la scena si apre su una sezione del decor e questa si muove liberamente per andare a scovare il protagonista, sempre composto eppure così pieno di emozioni. Una macchina da presa che si contraddice: una volta scovati, è facile che i personaggi vengano abbandonati dopo poco, o che il cuore dell’azione si sposti e venga lasciato fuori dall’inquadratura. A volte si predilige la reazione dell’interlocutore al soggetto che parla, a volte è il dialogo di entrambi ad essere lasciato fuori campo, prediligendo un dettaglio, come il fumo di una sigaretta che si disperde nell’aria. Una macchina da presa viva, che partecipa e reagisce, come durante la prima scena al ristorante, in cui la conversazione tra la Signora Chan e Chow dal convenevole porta alla rivelazione del tradimento dei coniugi, e la cinepresa, che fino a quel momento alternava tranquillamente i rispettivi profili tenendoli ben separati, improvvisamente si “volta” con due rapide carrellate a schiaffo, prima su di lui poi su di lei, esattamente come avrebbe fatto la testa di un interlocutore terzo, per lo stupore. È negata la possibilità che Wong costruisca un’inquadratura standard e quadrata dei protagonisti, del cui camminare talvolta riprende solo il busto e i fianchi, ricreando la sensazione del punto di vista di un bambino (come era lui a Hong Kong in quel periodo). I due sono immersi in un ambiente che difficilmente si riuscirà a ricostruire, confuso come i sentimenti che animano questa vicenda inconclusa, che ha inizio ma non ha fine, o che forse non ha nessuno dei due. Lo spazio è segmentato come in tante tessere di un puzzle, ma nonostante questa frammentazione è centrale il tempo, invero un’ossessione del regista cinese da sempre, e in altri film scandito in maniera precisissima: lancette, ore, minuti, date e scadenze, come il famoso primo maggio 1994 di Hong Kong Express accompagnato dall’augurio che la memoria (dell’amore) duri diecimila anni. È la griglia in cui si muovono i personaggi ma che pure il pubblico difficilmente riesce a inquadrare con precisione, a causa di una regia disorientante, che lascia indizi ma difficilmente esplicita. In the mood for love porta all’estremo questo gioco, tanto che saranno i cambi d’abito della Signora Chan a indicare il passaggio dei giorni altrimenti indecifrabile, in una scenografia che paradossalmente pullula di orologi. Spesso ad essere inquadrati, in apertura di una scena, sono proprio questi: Siemens da muro, che quasi rubano la scena agli attori, occupando il campo al posto di loro che parlano. Simili agli orologi che si trovano disciolti ne La persistenza della memoria di Dalì, indicatori della malleabilità del tempo che qui è cucito ad hoc sui protagonisti e gestito in maniera completamente arbitraria. Tra ripetizioni, ellissi e slow-motion, si configura come la ‘durée’ di Bergson e contribuisce alla costruzione di un’opera che è un poliedro, o meglio un gomitolo, che non si lascia districare ma ingarbuglia chi ci prova.

La struttura del film si articola infatti in una serie di scene accostate, che si ripiegano su loro stesse e che hanno un valore più emotivo che narrativo: è la somma delle scene ad avvicinarci sempre di più a una sorta di immedesimazione con Su e Chow, pur non facendo accadere “niente”. Per quanto spesso tenuti a distanza dalle rispettive inquadrature, i due vengono mostrati in momenti sempre più intimi, soprattutto insieme, in qualche forma di calore a metà tra il familiare e l’erotico che è il pasto condiviso. Noodles e bistecche consumate in ristoranti, quando non direttamente in camere da letto, insieme a quelle passeggiate rallentate e musicate, sono le icone di un film che diventa sostanza intorno alla sua atmosfera suadente, fatta di impressioni. A ciò contribuisce non solo la già menzionata colonna sonora, ma soprattutto la raffinatissima fotografia a quattro mani di Christopher Doyle e Mark Lee Ping Bin, resa di nuovo viva da un restauro che ha ridonato quella sensazione di malinconia e di ‘ennui, fatto di nuvole di fumo di sigaretta, di sfocature, di assolvenze e dissolvenze col nero, di dettagli curati (grazie al fondamentale contributo di William Chang, scenografo e costumista ma anche montatore), di primi piani luminosi e sfumati, di ombre e di colori vividi che contrastano con le emozioni frenate dei personaggi, come il rosso che cresce con il montare dell’attrazione trattenuta e culmina nel corridoio della stanza 2046. Qui Su aiuterà Chow nella stesura del suo romanzo di arti marziali, qui Chow attenderà Su per andare insieme a Singapore, qui Su arriverà troppo tardi e resterà con la sua solitudine e il rimorso per quell’incertezza che ora li separa per sempre. Incertezza precedentemente rimarcata da una sorta di finto ‘freeze frame’ della sua figura di spalle, ferma in corridoio dopo aver dichiarato all’uomo “non saremo come loro”, e prima ancora dai ‘jump cut’ che mostravano il suo salire e scendere le scale due volte prima di decidersi a bussare, finalmente, alla porta della stanza 2046. Stanza intorno alla quale ruota il Chow del film successivo, che a partire da qui articolerà la sua ricerca artistica e umana  sfociata nel romanzo omonimo.
Gli unici momenti in cui l’azione sembra prendere il sopravvento sulla situazione emotiva si scoprono a fine scena delle farse: prove teatrali con cui la donna si allena a smascherare il tradimento del marito, ruolo al momento recitato da Chow, e più avanti prove della separazione dei veri Su e Chow. Wong spiazza completamente le aspettative del pubblico, rendendo il film matrioska in cui dentro il dramma sta un altro dramma ma soprattutto ricalcando l’idea di travestimento e suspense di Vertigo (1958). Come la Kim Novak diretta da Hitchcock, anche Maggie Cheung indossa in una scena i panni della moglie del suo amato, che come il suo amante non si vedrà mai in faccia, quando assaggia una bistecca con mostarda per provare i gusti della donna («a tua moglie piace il cibo piccante»). A segnare uno spartiacque nella narrazione è l’irrompere improvviso della storia, che dà una connotazione infine oggettiva al tempo personale, rompe l’incanto e sancisce il passaggio di un’era, confermato da una didascalia che dice che niente di quello che le apparteneva esiste più. È il 1966, anno politicamente decisivo in cui parte la rivoluzione culturale di Mao e il presidente francese Charles De Gaulle visita la Cambogia, come mostrato dal cinegiornale dell’epoca. Dopo la parentesi nella Singapore del 1963 in cui gli amanti perduti si erano sfiorati da lontano senza mai trovarsi, con una telefonata in silenzio e una sigaretta sporca di rossetto, arriva il 1966. Quest’anno segna il presente non solo dell’epilogo, ma forse anche dell’intera narrazione.

Alcuni scelgono di interpretare la vicenda del 1962-63 come se fosse già in qualche modo un ricordo del protagonista maschile. Questo è in parte giustificato dall’assenza dei monologhi interiori in voice over, abituali dei personaggi di Wong, che renderebbe il racconto di quell’amore, in tutto e per tutto “fuori fuoco”, una sorta di sostituto visivo del monologo interiore ed emotivo di Chow. Ma la scelta è soprattutto suggerita dalla poetica didascalia finale. «Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato. Il passato è qualcosa che può vedere ma non può toccare, e tutto ciò che vede e sfuocato e indistinto». Queste parole sembrano infatti descrivere esattamente l’atmosfera in cui il pubblico era immerso fino a poco prima del 1966, sfuocata, indistinta e un po’ come in ‘trance’. In questo ultimo anno, loro sono distanti eppure così vicini, entrambi in Hong Kong e rasenti ad un incontro che di nuovo non avviene, lei è ancora sposata e ora con un figlio, e lui è ancora scrittore, questa volta solo. Ma soprattutto entrambi sono ancora sofferenti di quella ferita taciuta e condivisa che chiude il  film, affidata all’eternità. Un tempo infatti, diceva Chow, se qualcuno aveva un segreto andava in montagna, scavava un buco in un albero e lo sussurrava dentro. Poi ricopriva il buco con il fango e lasciava il segreto lì per sempre. È questo quello che lui sceglie di fare, tra le rovina dell’antico tempio cambogiano di Angkor Wat. In the mood for love si chiude pertanto con il segreto con cui era iniziato, e così è ricordato dalle parole stesse del regista nella presentazione “torinese”. Un segreto che ora non si consuma più tra le mura asfittiche di hotel e camere da letto o negli animi asfissiati dei due, ma, per quanto stipato in un luogo ancora più ristretto come un buco in una pietra, viene affidato a qualcosa di più grande. Il tentativo del regista è quello di fornire una nuova prospettiva, storica e spirituale, a fronte di un film per il resto intimo e sottovoce. La macchina da presa ora riprende spazi ariosi e aperti, solari e non più notturni, ruota intorno al protagonista che ci mostra mentre bisbiglia il suo amore senza farlo sentire, da diversi punti di vista. Non ultimo quello di un monaco, dall’alto e a una certa distanza. Ecco che lo spettatore esce dal cuore di Chow per ridimensionare la vicenda in una nuova luce, quella del mondo esterno, di cui il protagonista non è più protagonista ma uno dei tanti membri, afflitto dai dolori che caratterizzano la vita dell’individuo da sempre e per sempre. Ma ancora di più alla luce di un universo che continua ad andare avanti, come la macchina da presa che non si ferma, come gli uccellini che cantano anche quando la musica si interrompe, a ricordare che tutto scorre, tutto passa e c’è sempre qualcosa di più grande di cui il singolo costituisce solo una minuscola parte.
Un film che ha ricevuto infiniti plausi ma che forse dovrebbe smettere di riceverne. Perché in fondo non ci sono parole per descriverla, solo il silenzio può accogliere un’opera così alta. Il silenzio, o il canto di qualche uccello.

Bianca Montanaro

“In the Mood for Love” (2000)
98 min | Drama, Romance | Hong Kong / China
Regista Kar-Wai Wong
Sceneggiatori Kar-Wai Wong
Attori principali Maggie Cheung, Tony Chiu-Wai Leung, Ping Lam Siu, Tung Cho 'Joe' Cheung
IMDb Rating 8.1

Articoli correlati

BOTOX (2020), di Kaveh Mazaheri di Anna Chiari
DEAR WERNER (WALKING ON CINEMA) (2020) di Pablo Maqueda di Vincenzo Chieppa
THE DARK AND THE WICKED (2020), di Bryan Bertino di Marco Romagna
DIABOLIK - CHI SEI? (2023), di Marco e Antonio Manetti di Marco Romagna
MY AMERICA (2020), di Barbara Cupisti di Vincenzo Chieppa
IL RAGAZZO E L'AIRONE (2023), di Hayao Miyazaki di Nicola Settis