25 Giugno 2017 -

THE FIRST SHOT (2017)
di Yan Cheng e Federico Francioni

Se torniamo nei pressi de Tomba del tuffatore, precedente mediometraggio della coppia Cheng-Francioni che passò per Satellite a Pesaro nel 2016 e vinse il premio Menzione Speciale nel concorso Casa Rossa Art Doc al festival del cinema documentaristico di Bellaria quest’anno, ci ritroviamo di fronte a un’idea di cinema fatta di immagini che si ricollegano l’una all’altra solo grazie al montaggio, insomma l’idea (di Ejzenstejn) di montaggio come congiunzione-rappresentazione tra immagini che altrimenti sono irrappresentabili. E il flusso acqueo/amniotico spirituale di questo precedente lavoro qua torna in una manifestazione politica, come se fossero due facce di una stessa medaglia, in un’ottica corporea: l’anima, che rivolge il proprio sguardo verso l’immateriale, e il corpo, che invece si sveglia attraverso il concreto, la società, il mondo. Ma se è vero che Buddha rispose a due diversi «Dio esiste?» con due risposte completamente antitetiche per soddisfare i bisogni dei suoi discepoli nonostante la vera risposta dovrebbe essere cercata da loro all’interno di loro stessi, allora forse, seguendo ciò, bisogna trovare nel proprio indefinito Ātman una risposta a questa dicotomia, rifacendosi a un ipotetico Aldilà dell’immagine: quella dimensione filmica che diventa indefinibile, forse fuori campo, oltre il tuffo. Nel denso e liquido magma delle immagini, Tomba del tuffatore e The First Shot, con intenti diversi ma con la stessa capacità linguistica, sono entrambi figli, probabilmente involontari, di un neo-cinema digitale che funge come flusso di inquadrature, come fabbrica infinita e in continua espansione di sé (o del Sé), in cui tutto si ricollega in maniera spontanea, quasi interattiva, attraverso uno sguardo dello spettatore che non può che continuare a mostrarsi confuso nella propria ricerca di un senso. E se INLAND EMPIRE (2006) e Cosmos (2015) possono aver messo in chiaro le regole di quest’idea nel cinema di finzione, a livello più documentaristico e sperimentale non ci si può che trovare a ricordare Godard e il suo devastante Addio al linguaggio (2014), che ha riscritto le regole della penetrazione soggettiva nel montaggio tridimensionale e digitale come poco altro. E non è che da Godard che si può cominciare: probabilmente (anzi, sicuramente) con The First Shot stilisticamente l’autore della Nouvelle Vague ha poco a che fare, a meno che non si tenti un ragionamento più che altro da un punto di vista politico. Il suo La Chinoise (1967), film chiave per comprendere la seconda metà degli anni ’60 (come se non più del suo più internazionale fratello perverso Blowup (1966), figlio anarcoide e disperato di Antonioni), insegue i propri personaggi in un labirinto dove la linea sottile tra realtà e finzione collima con un’incerta e ironica resa del dialogo politicizzato, attraverso un ritmo dissacrante, inesorabile, confusionario, che si scandisce attraverso la canzone Mao Mao: Mao smette di essere preso in considerazione per le proprie azioni e la propria essenza politicizzata, e diventa quasi onomatopea, diventa “pop” (già il precedente Il maschio e la femmina (1966) di Godard, nonostante sia forse uno dei suoi film meno potenti a causa della per alcuni incomprensibile negazione dell’ingenuità gioiosa del Doinel di Truffaut, si presentava come un film sulla generazione dei “figli di Marx e della Coca Cola”). Ma se Godard, comunque, nel descrivere la realtà si rifà alla realtà che conosce, e dunque tendenzialmente alla realtà francese che si mischia con le realtà del resto del mondo, Francioni e Cheng riescono a porsi in maniera universale e macrocosmica pur concentrandosi sul microcosmo, e con questi due lavori sono riusciti a mostrare due diversi ma altrettanto potenti e necessari sguardi sulle nazioni rispettive dei registi: un’irrealtà spirituale italiana e una realtà politica post-rivoluzionaria cinese.

E questa realtà politica, che mostra Mao appunto come simbolo che perde sempre di più significato, come nell’opera a lui dedicata nel 1972 da Andy Warhol più che come nel documentario sulla classe operaia cinese Chung Kuo, Cina (1972) di Antonioni che vede il dittatore di Shaoshan come una specie di fantasma in sottofondo, è una realtà post-rivoluzionaria nel senso che è una realtà che concerne lo sguardo di un autore nato nella Cina dopo il 1989, dopo la protesta di piazza Tienanmen a Pechino svoltasi tra aprile e giugno nello stesso anno della caduta del muro di Berlino – insomma, un’annata piena di conclusioni, di teoriche rinascite nazionali che poi non si sono attuate. In quest’ottica, in questa Cina sospesa in un vuoto solitario in cui vecchio e nuovo si rincorrono pigramente attraverso schermi e sguardi vacui (più o meno come nella Russia del 2017 futuristico di Under Electric Clouds (2015) di Aleksei German, Jr.), The First Shot dimostra come i due autori siano perfetti a mistificare la realtà documentaristica, e di come siano tra i pochi a farlo in maniera davvero profondamente credibile ed esteticamente appagante in un’epoca in cui il documentarismo sembra sempre necessariamente doversi ricollegare ad altro, ovvero sembra sin troppo spesso dover essere derivativo e fiaccamente non originale. Quest’idea di cinema come riflessione sulle immagini singole attraverso un turbine continuo e infinito non solo riesce a esprimere massimamente le potenzialità di ogni singolo frame, ma fornisce una capacità di compenetrazione tra regia e personaggio ritratto che sembra paradossalmente sospesa tra il cinema diretto di Wang Bing e l’astrattismo poetico tragico di Antoine d’Agata: da una parte, il personaggio mette sempre in dubbio il ruolo della cinepresa, e attraverso la mistificazione visuale della propria vita cerca di demistificare l’atto cinematografico di per sé, dall’altra però senza la cinepresa non ci sarebbe l’essenziale scombinarsi dei piani personali, l’immedesimarsi nella generazione post-1989 a cui il regista Cheng stesso appartiene, insomma, il tentativo di narrazione di una non-lotta in un paese non-definito, passato attraverso mille rotture e mille ricostruzioni, mille guerre e mille rivoluzioni.

I due registi, entrambi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia in Abruzzo, hanno, così, con una naturalezza invidiabile e un forte senso della fluidità tra immagini, composto un paesaggio filmico che è un tutt’uno, chiuso in se stesso in maniera armonica e magica nonostante il forte senso di cadaverica tragedia che aleggia tra un’inquadratura e l’altra. L’acqua cade al rallentatore in un tentativo di sconfiggere le barriere del tempo documentaristico e lo fa insieme ai personaggi, e poi dei gatti salutano gli uomini dalle macerie o dalla spazzatura, e una protagonista si rannicchia nell’erba con lo sguardo nel vuoto, uno schermo proietta un viaggio in un futuro “occidentalizzato” e digitalizzato plastico e lei stessa vi s’immerge, e infine la realtà, con le sue pozzanghere/specchi, riflette un’altra realtà nitidissima attraverso l’immaginazione, una dissolvenza magica à L’Atalante, con la quale immaginare qualcos’altro, vivere attraverso la sfocatura rallentata del movimento umano, cercando una profondità solo in quell’istante. The First Shot ha un titolo dal doppio significato: il primo sparo, ovvero la prima bomba esplosa casualmente l’11 ottobre 1911 dando inizio a una storica rivolta a Wuchang nella provincia cinese Hubei, causando la caduta della dinastia Qing e l’inizio della Repubblica cinese; e la prima inquadratura, ovvero le statue, i volti, l’espressività di un passato plastificato tramutato in lisergico grazie all’immagine, sempre pronta a tramutare in allucinazioni suggestive anche i momenti più apparentemente insignificanti, giocando con le luci e con la musica. Ed è un film che va bene in coppia con l’opera omnia di Jia Zhangke e con il suo senso dell’epica nostalgica del tempo che passa, tra Al di là delle montagne (2015) e The Hedonists (2016) passando per la coralità angelopoulosiana di Platform (2000) – anch’esso un film che gioca col simbolo di Mao e con la magia dell’intimo. The First Shot si conclude con una dedica alla regista belga Chantal Akerman, suicidatasi nell’ottobre 2015, giusto due mesi dopo aver presentato a Locarno un film ultimo necessario e profondamente personale come No Home Movie – un film forse mediamente incompreso, fatto di persone che diventano fantasmi e depressioni che diventano inquadrature. E se No Home Movie vedeva lo sguardo cinematografico come un qualcosa di casuale che solo attraverso il tempo e attraverso la vita può trovare la propria forma cinematografica (e solo tale forma può dare un’ulteriore forma “immateriale” ai suoi personaggi), allora The First Shot vive con la manifestazione di un tempo-vita sempre indefinibile, sempre alla ricerca dei propri spazi, delle proprie profondità, delle potenzialità di un “film-making” digitale versatile presentabile attraverso le riprese in iPhone che compongono circa 50% del film, di una propria magia rivoluzionaria che si nasconde dietro una realtà che, la rivoluzione, pare essersela dimenticata. Ed è per ciò che Francioni e Cheng hanno meritato la vittoria quest’anno del premio Lino Micchiché, il premio principale del concorso al Pesaro Film Festival, con la giuria capeggiata da João Botelho: perché questo sguardo di congiunzione, quando con poco o quando con troppo, può dire tutto.

Nicola Settis

“The First Shot” (2017)
76 min | Documentary | China / Italy
Regista Federico Francioni, Cheng Yan
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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