10 Agosto 2018 -

HOTEL BY THE RIVER (2018)
di Hong Sang-soo

Non è più il tempo per esplorare le dolcezze e gli impacci della nascita dell’amore, non è più il tempo di vivere con tenerezza ogni sospiro, ogni (in)comprensione e ogni istante di una relazione, non è più tempo delle dichiarazioni d’amore all’amore e dei minuscoli stravolgimenti del quotidiano che si avvicendano nell’increspare con la gioia dei sentimenti la superficie dell’emotivo nei rapporti fra uomini e donne. E parrebbe non essere nemmeno più il tempo per l’ironia sorniona, quella che Hong Sang-soo ha sempre inserito e continua a innestare a preziose pennellate nelle sue sceneggiature ma che questa volta, nel magnifico e spiazzante Hotel by the river giunto in concorso a Locarno71, è intinta in una malinconia talmente amara da annichilire, da far rabbrividire, da devastare, da rendere incapaci non solo di ridere, ma persino di accennare un sorriso, già impegnati a tentare (invano) di asciugare gli occhi di fronte all’intimo dolore di un uomo che da sempre, e questa volta più che mai, usa il cinema come sublimazione del proprio malessere, come necessaria via di fuga, come medicina amorosa contro un male ancestrale e (in)curabile come quella depressione che da sempre e più o meno cupa lo attanaglia fra il dichiarato abuso di alcool e quello di sentimenti.
Hotel by the river, profondo, sincero e per molti versi sconvolgente, per non dire preoccupante, nel mesto e ancestrale senso di morte in cui si immerge, arriva quando l’amore è già (ma mai del tutto) finito, dissolto nel (rim)pianto e nella mancanza, virato nella pietà e nella sofferenza di figli senza padre, di padri senza figli e di donne senza amore, che si incontrano sotto la nevicata di un ritiro spirituale dove potersi struggere del tradimento e dell’abbandono indisturbati e lontani dalla società, oppure dove poter riprendere e finalmente chiudere quei discorsi umani e familiari aperti ormai da troppi anni di non detti e incomprensioni. Riscoprendo ancora e come sempre in Hong, dall’incontro fra la bella abbandonata e il poeta che ha abbandonato e ora è alla ricerca di un chiarimento e di un lascito umano per i propri figli, la necessità dell’intimo trasporto e della poesia, ma questa volta senza più alcuna vena di ottimismo, senza più alcun sorriso, senza più quei non-finali di apertura sui quali dispiegare la vita. Esattamente all’opposto infatti, e come una svolta radicale e dolente, Hotel by the river è proprio un film sulla fine: una fine pacificata, serena, finalmente priva di rimpianti dopo aver superato la carnalità in virtù della bellezza angelica dell’animo umano e aver virato in una tardiva ma corroborante comprensione i rimpianti per non aver ancora detto ciò che per troppi anni di lontananza dai figli era rimasto nel cuore e nelle reticenze, ma in sostanza priva di una vera e propria riconciliazione, di un abbraccio che possa finalmente tornare caldo prima che sia troppo tardi, prima che ai protagonisti, dietro gli stipiti delle porte e nelle dissolvenze fra i loro volti, rimanga solo il tempo per i singhiozzi assordanti in tutto il loro profondo strazio. Per Hong Sang-soo, dopo i cinque capitoli che compongono una sostanziale esplorazione dell’adulterio come occasione di un nuovo e travolgente amore realizzati insieme alla musa Kim Min-hee per la quale e con la quale ha tradito, è giunto ora con il sesto film insieme il momento in cui l’adulterio, che sia questo perpetrato oppure subìto, è fine, amarezza, abbandono, dolore, mancanza, senso di colpa, autocritica, rimpianto. Nel cinema e, per lo meno ufficialmente, ma non lo sappiamo e ci piace perderci nelle ambiguità del non saperlo, nella vita.

Risale al 9 marzo scorso la notizia – con Hong e con il suo cinema dall’umanesimo così smaccatamente (meta)autobiografico, da sempre fatto di due declinazioni in uno o più personaggi e legato a doppio filo con il suo personale rapporto con l’amore, è impossibile non addentrarsi ogni volta nei territori del gossip –, smentita nel frattempo da una sola fonte fra quelle reperibili in caratteri latini, della fine “ormai da un mese” e quindi con una rottura da collocarsi proprio in quelle date a cavallo fra gennaio e febbraio in cui è stato girato Hotel by the river, della relazione fra il regista e la sua musa Kim Min-hee, quella relazione d’amore matto e disperatissimo per la quale Hong ha ancora in corso una causa di divorzio intentata dopo più di due anni di amore adulterino, e attualmente respinta perché non accettata dalla donna che fu sua moglie e per sempre rimarrà la madre dei suoi figli. Tanto che il 16 febbraio, esattamente due giorni dopo l’ultimo ciak di questo lavoro, l’autore si era presentato a Berlino per la prima di Grass da solo, senza la bella Min-hee ad accompagnarlo. Un’assenza alla quale nessuno al tempo aveva badato più di tanto, non sufficiente per creare sospetti su un nuovo cambio di vita e di umore (e quindi di cinema) di Hong, ma che in quel giorno, successivo di poche settimane, in cui i tabloid non solo coreani sono impazziti di fronte all’annuncio della decisione del regista di interrompere la relazione “per non continuare a compromettere la vita professionale” di un’attrice ostracizzata dai reflussi moralisti del Paese asiatico è tornata alla mente più o meno di tutti come la conferma definitiva, interessando non certo per un portinaiesco gusto del pettegolezzo, ma per il suo preannunciare una nuova e importante svolta già da quello che sarebbe stato il lavoro successivo di Hong, questo, che ben pochi sapevano fosse già stato girato proprio in quei giorni, stando alle cronache, di massima crisi e di massimo dolore, e che probabilmente nessuno, specialmente fra chi segue Hong Sang-soo ormai da decenni, poteva immaginare così radicale, potente, disorientante e più che mai terminale nel ripercorrere, tramite incroci e specularità fra i consueti ma mai così autocritici e distruttivi alter ego del regista, tutta la sua vita e tutta la sua carriera.
Sono diversi anni che, come diversi grandi autori (viene subito in mente Manoel De Oliveira con il postumo Visita ou memórias e confissões realizzato ben 33 anni prima della morte, ma anche l’ultima fase del cinema di Ermanno Olmi fra Centochiodi, Il villaggio di cartone, Torneranno i prati e Vedete, sono uno di voi) Hong Sang-soo realizza sempre ultimi film, eterni ritorni al suo cinema, al suo sguardo e alla sua anima con cui, proprio come il poeta di Hotel by the river, analizza la propria vita e le proprie vie ancora intentate per trovare una pace. Ma mai come in questo caso, o per lo meno mai con questa amarezza di fondo fatta di ossessioni e di sguardi teneri e tristi, di carezze al coerente/incoerente e di contraddittorio vorticare dei sentimenti, si era spinto a mettersi a nudo in ogni suo dolore, fino a quel senso di morte che già era entrato più volte di striscio nel suo cinema (l’ultima volta lambiva gli incontri al tavolino di Grass), ma solo qui, per la prima, si personalizza, si radicalizza e acquisisce tale centralità facendosi soffocante. È quasi come se ci fosse un’accettazione passiva, o forse addirittura una volontà di una fine, confessata al bianco e nero digitale delle immagini – terza incursione consecutiva nella completa desaturazione per Hong dopo The day afterGrass – e al candore degli zoom nella neve, che instilla nello spettatore più emotivo e più legato alla persona di Hong e al suo piccolo e miracoloso cinema più di un timore, lo stesso dei figli del poeta protagonista: che a questo mettere in scena apertamente la morte possa corrispondere un drammatico evolversi della depressione del regista in un qualche barlume suicida, risvegliato dalla solitudine e dall’amarezza dopo la fine di un amore così travolgente?

O forse (si spera) no, perché oggi, a differenza che a Berlino, Kim Min-hee si è regolarmente presentata a Locarno sorridente nella sua pelle di porcellana, e insieme a chi avrebbe notato distanze e imbarazzi fra l’attrice e il regista c’è anche qualcuno che esattamente all’opposto sostiene, forse illudendosi o forse interpretando meglio degli altri gli indizi del linguaggio del corpo fra i due, che nel suo camminare a fianco di Hong verso gli incontri con la stampa e con il pubblico i due si sfiorassero ancora/di nuovo la mano. Il che toglierebbe un po’ di paura sulle possibili derive della depressione di Hong, ammantando di ambiguità il film e la sua precisa datazione nei titoli di testa («girato fra il 29 gennaio e il 14 febbraio» di quest’anno) fra la possibile fine di un amore nel giorno di San Valentino e la altrettanto possibile e meno atroce circoscrizione di una crisi sentimentale e personale ormai superata, ma non scalfendo un solo pixel, anche nei mai così sporadici barlumi di luce in un tunnel oscuro, di quel senso di personalissimo e ancestrale dolore che Hotel by the river porta sullo schermo. Un senso di dolore e di morte ulteriormente amplificato dagli inediti e nervosi tremolii che quasi impercettibili, fra i movimenti di macchina e gli zoom ancor più del solito ridotti all’osso, innervano le inquadrature fisse del film di un’immagine sempre incerta nel suo (ri)farsi, alla costante ricerca di una forma. Quella dello sguardo, forse.
Perché sono più che mai tutte incarnazioni delle differenti anime di Hong Sang-soo, quelle che vivono in questo oggetto coerentissimo eppure alieno nella sua filmografia, spiazzante e dolente unicum oppure punto di non ritorno, evoluzione che chiude una fase o bilancio finale di una vita. È Hong Sang-soo il poeta che sente appropinquarsi la morte e chiama a raccolta i suoi figli abbandonati anni prima insieme a una moglie con cui a nulla era servito fare del proprio meglio, e lo sono appunto i suoi due figli romanticamente uniti «in cielo e in terra» dai significati dei loro nomi, dei quali uno, come Hong, è non certo a caso e come quasi sempre regista cinematografico, e l’altro, il primogenito talmente bloccato e imbarazzato di fronte al padre da non riuscire nemmeno a confessargli di essere un fumatore, è come Hong impegnato in una causa di divorzio sul quale manterrà uno stretto e imbarazzato riserbo. Così come sono declinazioni dei diversi aspetti dell’uomo Hong Sang-soo anche la giovane tradita e sola interpretata da Kim Min-hee – a sua volta personaggio speculare a quello del primogenito separato dalla moglie nella recente fine di un amore e nella sua chiusura nei confronti del padre che verrà ribaltata in superamento e comprensione – e l’amica che accorre, nell’albergo del suo dolore, a porsi come la spalla su cui piangere, sorta di “sceneggiatrice di vita” nella giusta distanza con la quale, nella più sconfinata umanità, riesce a razionalizzare il dolore e la netta separazione delle caratteristiche dei sessi fra l’uomo, immaturo e codardo, e la capacità femminile di comprendere e accettare anche il tradimento e la fine come fasi necessarie per poter esperire fino in fondo l’amore. Solo l’incontro fra le due camere d’albergo e la separazione dei ruoli dei sessi, con la bellezza angelica delle due giovani che elimina ogni malizia all’anziano poeta che sente appropinquarsi la morte, con la poetica di una nevicata che pare scesa all’improvviso come un regalo di candore all’umanità, con la serenità che sopraggiunge nell’accettare il momento del trapasso purché sia accompagnata dal pianto delle loro anime pure, potrà colmare le distanze in una corrispondenza (im)possibile, liberando definitivamente l’uomo dai suoi fardelli e permettendogli di andare via sereno, conscio di aver trovato un parallelismo, un collegamento emotivo finalmente sincero e disinteressato, una poesia che rimarrà per sempre scritta nella neve, o forse nelle lacrime.

Hong Sang-soo, più che in altre volte, autocritica il suo lavoro e la sua vita facendo definire il proprio alter ego regista «a stento un autore» che fa film «noiosi» (ma, quando sarà il momento di cacciare un autografo, diventerà per loro semplicemente «di grido» perché chi disprezza molto spesso compra), o ancor peggio un «mostro» nelle parole dell’ex moglie e degli stessi figli dell’alter ego ex marito e padre reo di averli abbandonati salvo poi essere a sua volta abbandonato dalla donna che aveva smesso di amarlo. Ma la sua scelta, ed è questo che vuole che capiscano anche i suoi figli, non è stata certo compiuta con leggerezza e senza dolori e rimpianti, ma è stato al contrario un trauma mai superato, un fallimento di vita ancor prima che amoroso. Proprio come quello di Hong Sang-soo quando ha abbandonato il tetto coniugale per vivere la sua nuova vita con Kim Min-hee, e proprio come quello di Hong Sang-soo quando, sempre ammesso che sia vero, ha lasciato Kim Min-hee per il suo esclusivo bene. La verità su questo punto, probabilmente per fortuna, non ci è dato saperla, e ben al di là della sofferenza intima e sincera con Hong e per Hong e della preoccupazione, legittima o eccessiva che sia, di fronte alla sua ostentata fragilità e alla sua inedita declinazione mortifera, sarebbe profondamente sbagliato approcciarsi a un film stratificato, ambizioso e doloroso come Hotel by the river concentrandosi troppo sull’umore/amore del regista e sui riferimenti autobiografici che ha sempre e intelligentemente seminato lungo il suo percorso. Anzi, il partire dalla sua vita mai, tanto meno questa volta dove per la prima volta (ne) è direttamente in campo la fine con tutta la sua devastazione per chi resta, ha costituito l’unico centro focale di una filmografia che parla a/di ogni uomo e a/di ogni anima, nel quale l’autobiografismo è solo la necessaria base esperienziale, metaforica e paradigmatica da cui astrarre e universalizzarsi per giungere a un qualcosa che è sempre molto più ampio e molto più denso di fascino e di significati.
In un cinema che è da sempre gioco di specchi fra la vita vissuta del suo autore e la sua leggiadra esplorazione di quegli interstizi dell’animo umano dove risiedono i sentimenti più sinceri, ma anche e soprattutto sapida e acuta messa in scena dei rapporti d’amore/di forza (non solo) fra i sessi, perdersi nelle ambiguità emotive, umorali e autobiografiche deve necessariamente fare parte del gioco, e un’eccessiva contestualizzazione “diaristica” finirebbe paradossalmente per depotenziare in meri parallelismi i concetti e le riflessioni dei suoi film, e per negarne, a torto, la profondità e le capacità di astrazione e di sintesi leggendoli solo in superficie senza addentrarsi in quello che, sotto il tappeto di emozioni che esprimono, è il loro vero cuore. Perché l’esperienza personale è sempre stata per Hong il punto di partenza per la scrittura sia nello studio delle situazioni sia nella sempre sapida e precisa caratterizzazione di ogni personaggio, ma mai, nella pura finzione e negli assunti cui tende, quello di arrivo. E, ben al di là della depressione del suo autore, della storia d’amore forse finita e forse no e del sentimento di morte che attanaglia Hotel by the river sin dai titoli di testa, per la prima volta letti (ancora una volta con un richiamo alla Visita di De Oliveira) dalla voce off probabilmente dallo stesso Hong (o del suo ennesimo alter ego, che poi è uguale), a rimanere sulla pelle e nell’anima sono le ferite e le cicatrici, il fondamentale ruolo della poesia incastonata nel cinema per conoscere e per conoscersi fra i propri nomi da scrivere come una riappropriazione, i lunghi abbracci sul letto, le lacrime, i sospiri e la coltre di candida neve, ma soprattutto la necessità di un incontro che separi la sessualità dal desiderio, e che porti a ridiscutere la propria esistenza declinandola in rapporti umani fragili e mutevoli fra esseri umani altrettanto fragili e mutevoli, timidi, sperduti, insicuri. Disperati. Perché si può provare razionalizzare e astrarre qualsiasi trauma, ci si può evolvere e liberare di fronte agli incontri e alla consapevolezza di potersi accomiatare finalmente compresi e di nuovo umani, e ci si può intenerire di fronte all’amicizia e alla poetica dei sentimenti. Ma di fronte all’irreversibilità di quella morte su cui Hong Sang-soo riflette da tempo ma che porta in campo per la prima volta in carriera, tanto da doverla ancora lungamente lasciare agire dietro uno stipite e fuori dall’inquadratura prima di potercisi avvicinare in un rispettoso lutto che sta attento a non violarne l’intimità, non resta che lasciarsi andare ai singhiozzi di un pianto ininterrotto, sconsolato, affranto. Sentimentale, come sempre, in quello che è il miglior film di Hong Sang-soo degli ultimi anni, evoluzione di un’ossessione e di una lingua filmica, decalogo poetico intimo e ancestrale del dolore (del suo autore) e specchio di un uomo straordinario per cuore e finezza che sta male, e che lo grida muto e disperato nelle lacrime di personaggi e situazioni che sono parte di lui. Scrivendo ancora una volta, dalle pareti e dai cuscini del suo personalissimo Hotel “Heimat”, un’inestimabile pagina di quell’atlante sentimentale chiamato umanesimo che insegna ancora un po’ d’amore e tormento, cambiando per sempre almeno in parte l’occhio e il cuore di chiunque guardi, incapace di distogliere lo sguardo, incapace di controllare i brividi, incapace di smettere di stare male insieme a Hong, incapace di smettere di piangere.

Marco Romagna

“Hotel by the River” (2018)
96 min | Drama | South Korea
Regista Sang-soo Hong
Sceneggiatori Sang-soo Hong
Attori principali Joo-Bong Ki, Min-hee Kim, Hae-hyo Kwon, Seon-mi Song
IMDb Rating N/A

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