23 Novembre 2016 -

HIDDEN PHOTOS (2016)
di Davide Grotta

In Cambogia sono passati quarant’anni dal sanguinario regime di Pol Pot e degli Khmer Rossi. Sono passati quarant’anni dal massacro di decine di migliaia di persone, sono passati quarant’anni dall’orrore della gente, da quella negazione della vita, della libertà, degli affetti, della Storia. Una Storia di cui la Cambogia ha sempre più bisogno, una Storia da ricostruire e rivivere, una Storia oscura e nerissima fra colonialismo e dittature, una Storia da tentare di capire per completarsi. Quello della Cambogia cinematografica è un continuo percorso di riscoperta, di rimessa in scena, o quantomeno sotto l’obiettivo, di quelle paure, di quelle ossessioni, di quelle verità mai dette, e sulle quali ora non ci si può che arrovellare fra una lacrima che scende e un vagito di rabbia. È un percorso storico e figurativo condiviso, comune, che dal tentativo di Rithy Panh di ricostruire in plastilina quell’Immagine mancante violentemente cancellata in precedenza dalla storia della sua famiglia proseguendo poi il proprio percorso con La France est notre patrie e con l’ultimo Exil, passa per il Joshua Oppenheimer del dittico The act of killingThe look of silence e per il Kulikar Sotho di The missing reel ponendosi come obiettivo quello di rappresentare nuovamente quella realtà per creare una prova tangibile, un segno di ciò che è successo, paradosso storico e disumano che una vera spiegazione razionale non la potrà mai avere. È un cammino sofferto e necessario all’interno del genocidio alla ricerca di un linguaggio, di un modo per esprimersi, di un’originalità; è la dolorosa transizione dalla memoria alla Storia, in cui si inserisce ora a pieno diritto, per quanto sia nei fatti un film italiano per produzione, scrittura e realizzazione, anche Hidden photos, documentario d’esordio del regista bolzanino Davide Grotta che trova a Italiana/TFFdoc la sua meritata passerella al Torino Film Festival.

Quella che in Panh era L’immagine mancante, qui è l’immagine nascosta, come quelle fotografie fatte sparire in fretta e furia dalle famiglie cambogiane all’inizio del regime perché non fosse chiara la loro appartenenza sociale. “In tutto il mondo le foto proliferavano, e qui si buttavano via. Durante il regime degli Khmer Rossi, non esisteva nulla di più pericoloso della fotografia”. Eppure, di quel tempo, esistono migliaia di immagini: sono quelle ufficiali del regime che immortalavano i prigionieri subito prima di massacrarli, tenute nascoste non più durante la dittatura ma questa volta dopo la sua fine, e che ora tornano come cartoline e atroce business sulla morte e sulle proprie colpe impunite. Nelle oltre 14mila fotografie scattate al tempo nel campo (a tutti gli effetti di sterminio) di Tuol Sleng appaiono volti apparentemente come tanti, di madri e di figli, di padri e di contadini, spesso serenamente consapevoli della propria innocenza e quindi ignari di ciò che sarebbe loro successo di lì a breve, fra testicoli mozzati e colpi di machete. Sono fondamentali documenti storici, che mostrano una delle pagine più buie della storia dell’uomo e che adesso stanno rischiando di perdere la loro primaria funzione per incancrenirsi nella faccia tosta di chi ancora ride di ciò che ha fatto, e che ancora oggi, senza nemmeno ravvisare l’antitesi con l’appartenenza a un regime che nominalmente si definiva comunista, ci guadagna sopra. Esistono infatti molti livelli nella Storia, molti diversi modi per rappresentarla e per portarne avanti la memoria. C’è la sua museificazione, magari patinata nelle lucide cere-simulacro di chi non c’è più e sottolineata dall’unico elemento di finzione del film – l’audioguida che accompagna la visita –, ma che permette a una donna di fare teneramente la sua parte nel tramandare la memoria attraverso le immagini andando quotidianamente a spolverare le statue. C’è, appunto, il suo atroce aspetto economico, portato avanti da Nheim Ein, già fotografo di regime ai tempi di Pol Pot e ora businessman spietato nel trasformare le sue foto di morte in poster e cartoline, con il sogno di rendere anche la casa del dittatore un’attrazione turistica. E poi, fortunatamente, c’è anche e soprattutto il più puro strazio, la necessità intima di ridare una Storia a un Paese e al proprio nucleo familiare, la riscoperta di se stessi e della propria appartenenza andando alla ricerca di quelle immagini mancanti, negate dall’oblio, dalle morti e dal dolore, con cui il giovane e talentuoso fotografo Kim Hak impressiona i suoi rotoli di pellicola a formato medio. Ricostruisce le fosse dei massacri, torna con i propri genitori in quei luoghi di devastazione da cui sono miracolosamente usciti vivi, lavora a un progetto fotografico monumentale, atto a rapportarsi alla Storia attraverso paesaggi, volti, situazioni e ricostruzioni. Cerca e trova un proprio stile, un proprio linguaggio nelle inquadrature, una nuova via per rappresentare la Cambogia di oggi come figlia della Cambogia di ieri, una via nella quale dagli scatti della sua macchina, brillanti e squadrati, traspare la più straziata umanità. Cercando, sempre, di intravvedere almeno uno spiraglio di luce quando guarda al futuro.

Hidden photos sono tre modi a confronto di intendere la Storia, tre modi a confronto di portare avanti la memoria, e tre modi a confronto di concepire l’immagine e l’immaginario. Ci sono i rullini da cambiare nell’immortalare una ‘nuova’ Cambogia per Kim Hak contro l’esibizione delle vecchie fotografie di Nheim Ein, che non nega in alcun modo l’orrore del regime ma non prova il benché minimo senso di colpa né di vergogna nel trasformarlo in interesse personale. La sua è una sorta di deviazione nella necessità di riaffermarsi, vivendo il contrasto fra l’importanza storica capitale delle immagini da lui realizzate, l’atrocità del contesto in cui le ha scattate senza muovere un dito per fermare il massacro e il suo modo disgustoso di ritirarle fuori solo adesso. Ma qual è, sempre ammesso che sia solo uno, l’immaginario a cui si deve fare riferimento? Quello delle immagini storiche e mai cicatrizzate dal tempo, o quello delle fotografie contemporanee, che cercano di affiancare la portata storica e ormai simbolica dei luoghi e dei volti a uno sguardo originale, moderno, scevro dagli stereotipi e dalla retorica? O ancora, la via è forse quella delle statue di cera che ora guardano impassibili e quasi sornione, immagini che tentano di far rivivere e ridare fisicità a un passato luminoso e felice quanto drammaticamente breve, prima che la Storia facesse il suo crudele corso? Qual è quindi l’immagine che rappresenta davvero la Cambogia, il suo passato e il suo presente, quale quella in grado di anticiparne il futuro? Hidden photos, fra le statue del museo e le immagini create in tempi diversi e con finalità opposte dai due fotografi, è la ricerca dell’umanità contro quella di luoghi e fatti che attirino il turismo, è la Storia vissuta con dolore contro la faccia tosta di sfruttarla e piegarla ancora, è la necessità di capirla e penetrarla contro la necessità di venderla, sono i simulacri quotidianamente spolverati per una sorta di catarsi personale quasi contrapposta ai turisti che, di fronte alla prima sovrana cambogiana e “ultima donna vista a seno nudo”, anziché interrogarsi su quale e quanto drammatica sia (stata) la Storia del Paese, non trovano di meglio da fare che sorridere e allungare il braccio per scattarsi un selfie. Nel suo triplo percorso e nella sua babele di formati e immagini, Hidden photos è una passeggiata non priva di ostacoli nella Storia, è un viaggio nella rappresentazione, quando un’inquadratura riporta su carta, o su schermo, oppure plasma nella cera vita, torture e morte; è la vitalità dell’istantanea, mobile nella sua fissità, immutabile nel suo degrado del tempo. È un film duro, che nei due fotografi a confronto uno davanti all’altro racchiude i loro modi antitetici di intendere la realtà e la sua rappresentazione, i loro opposti sguardi politici e sociali, le loro incompatibili prerogative umane. A cosa serve (ri)costruire un immaginario in Cambogia? Qual è la funzione stessa delle immagini? Nheim Ein propone a Kim Hak una collaborazione, associarsi per vendere insieme i propri immaginari. E Kim Hak lo ascolta, cerca disperatamente di capirne le ragioni e la mentalità. Salvo poi andarsene, dissimulando per educazione il proprio sdegno, ma perfettamente conscio che non risponderà mai alla proposta indecente di chi nemmeno rispetta il dolore altrui, le ferite ancora aperte.

Marco Romagna

“Hidden Photos” (2016)
68 min | Documentary, Family, History | Italy / Cambodia
Regista Davide Grotta
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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