13 Gennaio 2019 -

BEWARE! THE DONA FERENTES (2018)
di Daniele Pezzi

«Timeo Danaos et dona ferentes»
Virgilio, Eneide, II, 49

È nato per «rovinare le feste», Dona Ferentes. È nato per disturbare il più possibile, per infastidire con le sue istintive sperimentazioni musicali, per importunare con il suo personalissimo impasto di brandelli sonori rigorosamente noise. È nato, orgogliosamente underground e solitario, per «fare incazzare» gli astanti, per cercare di dissuadere la gente e rimanere inascoltato, per venire respinto, rifiutato, insieme al suo rumore il più possibile lontano dai doni degli dei (o del nemico), e forse proprio per questo lontano da ogni possibile inganno. È nato per instillare diffidenza, Dona Ferentes, come una sorta di novello Laocoonte del quale ha fatto suo nome la frase più nota, quella del sospetto di fronte al cavallo di Troia, quella ignorata dalla città che ben presto cadrà e punita dagli dei per la tracotanza con l’abbraccio mortale dei serpenti marini. È nato per produrre rumore, per controllarlo, per modularlo, per campionarlo, per rieseguirlo, per esplorarne lo spettro, per farlo suo come suono e innato talento, come una naturale e sporca propaggine, come un soffio di libertà e anarchia con cui essere orgogliosamente molesto e stridente come un videogioco nel quale lo scopo della corsa in auto è falciare più pedoni possibile, e poi è diventato altro, sempre più raffinato, sempre più interessato agli strumenti alternativi, sempre meno provocatorio, mai (più) fine a se stesso. Fino a una nuova concezione di rumore e concerto come connubio con la natura, tappa fondamentale del suo percorso artistico nella costante ridefinizione di una sempre nuova cacofonia, e quindi di un nuovo se stesso.
Dona Ferentes non conosce la teoria musicale, non l’ha mai studiata. Non sa riconoscere le note, non conosce le scale a memoria, non conosce la tecnica degli strumenti. Ma, che abbia in mano una chitarra (anche acustica, è uguale), un microfono con delay, un sintetizzatore con cui giocare con l’attacco del suono, un pianoforte, una cassa di risonanza naturale, una pedaliera, un rottame di ferro, un amplificatore, un tubo o un pozzo che rimbombino come un wah-wah, un motorino, un palloncino o un ventaglio, ha dalla sua l’istinto, ha dalla sua la capacità di controllare i suoni più disparati, di organizzarli in sezioni e sequenze di rumori con ritmi e strutture ben precise e poi di improvvisare, trovando continuamente il suono (s)gradevole e putrido di ogni oggetto, di ogni luogo e di ogni istante. Suona per se stesso, Dona Ferentes, e suona se stesso, fra i più importanti e apprezzati performer della scena underground noise non solo italiana nel suo rigoroso low-fi analogico. Senza aver mai voluto emergere, senza che gli sia mai minimamente importato di “piacere”, senza avere mai assecondato un pubblico. A dover assecondare il pubblico, del resto, c’è già il suo alter ego Michele Mazzani, quello costretto dalla vita a portare la posta in giro per la sua Ravenna, quello che ogni mattina (non) sorride mentre conta le raccomandate di giornata, quello costretto a lottare quotidianamente con i cani un po’ troppo da guardia, con la pioggia, con il freddo e con il sole, quello che può occuparsi del noise e tornare a “portare doni” solo nel tempo libero. Ma anche quello da molti anni caro amico del conterraneo Daniele Pezzi, che dopo la finzione di viaggio di Roads ending e Tiresias – un personaggio in tre corpi ha presentato alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2018, questa volta nella vetrina del concorso principale, il quasi opposto progetto Beware! the Dona Ferentes, un ritratto artistico e personale in forma di documentario sperimentale portato avanti sin dal 2008, che parte dalle vertigini sonore del performer romagnolo per ragionare attraverso di lui e insieme a lui sul concetto stesso di rumore, centro nevralgico della sua costante ricerca artistica e forse suo senso più intimo, sua principale missione di vita.
Ma Beware! the Dona Ferentes non si limita al suo protagonista, né alla sottocultura noise e underground, e nemmeno alla sola sfera sonora del rumore. Al contrario Pezzi, con acume e pari voglia di sperimentare, allarga il campo teorico e semantico dal rumore udibile a quello, visibile, dell’immagine, affiancando alla musica il cinema come in una sorta di connubio tematico fra due artisti, Dona Ferentes e Daniele Pezzi, in dieci anni di incontri, concerti estemporanei e riprese più o meno improvvisate con qualsiasi mezzo, dal cellulare Nokia alla telecamera 4K, passando per gli iPhone, più d’una reflex e una continua alternanza fra amatoriale e professionale. Del resto, specialmente dall’avvento del digitale, ogni immagine è di per sé rumore, babele di formati e di distorsioni, di porzioni sgranate e di pixel, di forme e di colori, ed è su questo parallelismo che il regista ravennate innerva di stratificazioni il suo mosaico di materiali eterogenei quasi quanto quelli su cui basa le sue performance Dona Ferentes, elaborando e distorcendo (rigorosamente e filologicamente secondo i rallentamenti tipici dei nastri inceppati) anche la voce dello sperimentatore musicale che si racconta, per porla come ulteriore elemento di disturbo, come ulteriore stratificazione sonora, come ulteriore strato di rumore in cui immergersi e da cui lasciarsi ipnotizzare.

Sin dal magazzino iniziale ricolmo di musicassette e di primi salti nel punto di vista, Beware! the Dona Ferentes è un film-saggio che procede in direzione di vera e propria dissezione del rumore, ponendosi come un attento e brillante studio di ogni sua possibile declinazione alla ricerca della sua essenza, della sostanza di cui è fatto, e poi del suo posto nel mondo, della sua piena dignità, della sua necessità in quanto (dis)ordine vitale. Il rumore della musica, il rumore di una chitarra che fischia, il rumore controllato da un sintetizzatore o dal kaosspad. Il rumore dei rifiuti ferrosi, delle musicassette, del motorino delle Poste. E, appunto, il rumore delle immagini, della grana digitale, dell’effetto mosaico che ingigantisce i pixel, degli stacchi di montaggio dalla rapidità subliminale, della pioggia che scorre sul parabrezza dell’auto. È una Babele di formati che si dividono, si sovrappongono, si splittano, si ripresentano concentrici come scatole cinesi di brandelli da ricomporre; sono immagini nelle immagini, riquadri dentro il quadro, frammenti che scorrono, cambiano, crescono, si riducono, si allargano, si sovrappongono, spariscono, virano, si offuscano, si ingabbiano, si scompongono, si ri-combinano, e mai si uniformano. Sono immagini che si associano e si dissociano, come le idee, come le impressioni, o come i rumori, (s)conosciute note musicali da gestire sul pentagramma del caos. Sono riquadri doppi, poi tripli, poi apparentemente infiniti come uno specchio d’acqua che si riflette nelle sue stesse parti e infine, insieme all’evolversi della musica, sono quadri sempre meno frammentari e sempre più cinematografici, sempre più raffinati, dai paesaggi che scorrono alle parole di Dona Ferentes, dalle sue performance fino al più potente dei flicker, disturbo per antonomasia, rumore psicotropo dell’immagine di fumo e di Fender in silhouette. Passando magari per il cigolio di un’altalena arrugginita, perfetto punto di rumorosa sintesi fra un mondo e l’altro, fra un artista e l’altro, fra un talento cristallino e l’altro, fra un rumore e l’altro. Fra un amico e l’altro, in un rapporto che si fa via via, e inevitabilmente, sempre più umano.
Dona Ferentes è l’effetto Larsen, è il white noise, è un registratore portatile a pile da pochi spiccioli, ma soprattutto è il nastro delle sue musicassette che scorre, corre e si inceppa. Ne ha a centinaia, di musicassette, ed è proprio su di loro, su quei piccoli parallelepipedi a bobine ormai anacronistici, simbolo di un qualcosa che tutti abbiamo avuto e che ormai risulta fuori dal tempo, ma anche ben precisa e coerente dichiarazione programmatica con le loro frequenze tagliate e con la loro qualità approssimata, con la loro relativa scomodità e con la loro fisica progressiva caducità, che ha deciso di innestare il suo percorso sperimentale. Registrando e riproducendo un ben preciso lavoro sul rumore, progressivamente sempre meno “fastidio” e sempre più “suono”, impasto magari sporco ma sempre più coerente e omogeneo, sul fruscio, che di per sé è altro rumore da sfruttare, amplificare e “suonare”. Le cassette contengono i suoni da riprendere e manipolare, da ri-registrare, magari amplificati e distorti da una grotta, su un’altra cassetta, e poi da sistemare nei posti giusti come una vera e propria orchestra di rumori impegnata nell’esecuzione di una sinfonia, sospesa fra la Pastorale e l’aspirapolvere, fra il cane che ringhia e il citofono, fra le distorsioni e gli strofinii del nastro, fra La casa di Raimi e un noto intro dei Velvet Underground da rendere irriconoscibile. Dona Ferentes ne è una sorta di gran sacerdote, di costante manipolatore, di musicista dell’improvvisazione e del non-strumento musicale, sempre in lotta (e non è certo un caso, in questo senso, che il titolo/avvertenza del film sia scritto grossomodo nello stesso font di The Warriors, i Guerrieri della notte secondo Walter Hill) per poter continuare a esercitare il suo sacrosanto diritto di disturbare.
Dai piccoli club per molti anni svuotati con i suoi stridori, preferisce ora i concerti nei luoghi solitari, fatiscenti, immersi nella natura che se ne sta riappropriando. Luoghi nei quali riscoprire giorno dopo giorno il senso e le possibilità del rumore, la sua necessità e ineluttabilità, e forse nei quali quotidianamente riscoprirsi come musicista, come postino, come amico, come sperimentatore, come portatore di doni e di fastidio. Ma soprattutto come uomo. Un uomo da scomporre e ricomporre proprio come i suoni che fanno la sua musica, come le immagini che fanno questo film, o come i volti a grandezza naturale ritagliati a metà dalle riviste e giocosamente ricombinati mezza faccia alla volta, ora gli occhi e ora la bocca, ora una parte e ora l’altra, alla ricerca con la mimica facciale dell’espressione corrispondente, compatibile, “giusta”. Proprio come deve essere giusta la combinazione di suoni, giusta la progressione, giusta la frequenza, e giusto il luogo, rigorosamente dalla pessima acustica, in cui organizzare il prossimo «concertino estemporaneo» – nelle mani due registratori a cassetta, davanti agli occhi l’infinito. Producendo e riascoltando suoni che appaiono e scompaiono quasi come fantasmi, costantemente manipolati, innestati in altri rumori, mandati avanti e poi dissolti nella successiva immagine, oppure nella lama di luce che squarcia per l’ultima volta il fotogramma come se fosse pellicola, fisicità, materia, eterno caos. L’infinito rumore, assordante ma mai gratuitamente fastidioso, di un film da portare molto a lungo negli occhi e nel cuore.

Marco Romagna

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